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L'artiglio dell'aquila
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L'artiglio dell'aquila
Ebook762 pages11 hours

L'artiglio dell'aquila

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About this ebook

Dopo la drammatica morte del re Atezio, il mitico regno di Ausonia cade nelle mani di un feroce tiranno. Quando ormai la rassegnazione sta prendendo il sopravvento nell'animo degli abitanti, un misterioso selvaggio, un guerriero accompagnato da un lupo argentato e da un candido girifalco, fa la sua comparsa nel paese ormai desolato. La sua presenza non passa inosservata e ridesta nei vecchi compagni d'arme del re, rinchiusi in un lungo silenzio durato dieci anni, la speranza di un futuro migliore per sé, per i propri figli, per gli Ausoni tutti. Ma questo arrivo porterà ancora sofferenza e dolore e costringerà ognuno, cavaliere o semplice abitante dei villaggi e delle città, a fare una scelta chiara e definita, a mettersi in gioco e a rischiare di perdere tutto per un ideale. Tra intrighi, battaglie, colpi di scena, all'orizzonte si profila uno scontro che avrà un solo vincitore. Solo uno sarà destinato a regnare come incontrastato signore di quelle terre, solo uno sarà colui che farà volare ancora l'aquila di Ausonia.
LanguageItaliano
Release dateSep 12, 2017
ISBN9788826400716
L'artiglio dell'aquila

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    L'artiglio dell'aquila - Eleonora Fossile

    fugat!"

    I

    Ormai non gli restava più molto da vivere. La dose letale di veleno, quella che lo avrebbe tolto di mezzo, stava lentamente, dolorosamente, inesorabilmente facendo effetto. La coppa che aveva contenuto il liquido mortale giaceva a terra spezzata e il vino drogato era sparso sul rude pavimento decorato con tasselli di mattoncini e mosaici a piccole tessere di marmo e paste vitree colorati e disposti come coriandoli gettati a caso da mani dispettose, o petali di fiori deposti a terra da un vento capriccioso. Egli era lì, solo, nella vasta sala d’armi dove era solito trascorrere il tempo quando la malinconia e il dolore per la perdita della sua adorata Berenice gli soggiogavano l’anima, o quando aveva bisogno di riflettere su qualche importante decisione. L’allenamento fisico gli faceva bene. Lo aiutava a pensare. Ma quel giorno faceva caldo, il caldo che annunciava la fine della primavera e l’arrivo dell’estate e lui aveva sudato. E poi Polemarco, il suo più stretto e fidato collaboratore, tardava ad arrivare!

    "Vostra moglie Ermengarda vi manda qualcosa per rinfrescarvi, domine!" aveva detto un servo recando un vassoio di fresco vino e della frutta tagliata a fette e condita con il miele, come piaceva a lui. Gettò a terra la spada con la quale stava provando un nuovo tiro, magari da insegnare a suo figlio – prometteva bene, il ragazzo! - si deterse con la manica della tunica la fronte sudata, mangiò la vivanda dolce e succulenta, bevve. E si maledisse. In quel momento capì che era finita. Il cibo aveva un sapore adulterato… Era stato drogato, avvelenato! Una fitta dolorosissima gli strinse lo stomaco, la vista si annebbiava. Dov’era Polemarco? Non poteva morire così, non poteva lasciare la vittoria ai suoi nemici! Le mani gli tremavano convulsamente, la coppa cadde rotolando ai suoi piedi, andando in pezzi e gettando il restante liquido in terra. Crollò in ginocchio. No, non poteva morire così!

    Bussando leggero un uomo comparve sulla soglia.

    "Domine, domine, che cosa avete? State male?" gridò vedendolo accartocciato sul pavimento, le mani strette attorno all’addome, le gambe reclinate.

    Polemarco, amico mio, tirami in piedi!

    Sì, ma…

    Quella strega maledetta e suo figlio mi hanno assassinato. Ma tu ascolta! esclamò mentre a fatica si alzava in piedi e avvicinava le labbra all’orecchio dell’uomo. Quello prestava attenzione alle parole del moribondo e annuiva di tanto in tanto. Quando ebbe finito di parlare, i due si scambiarono un’occhiata d’intesa; Polemarco nascose qualcosa sotto l’ampio mantello. L’altro ebbe un sussulto e un conato di sangue gli uscì dalla bocca.

    "Aiutami a raggiungere la sala del trono, voglio morire lì, come il basileus di questa terra che sono. Poi va’ a chiamare i miei figli, ma non farti notare e sparisci subito. Che i traditori non ti vedano, o la nostra sconfitta sarà completa!"

    "Domine, Atezio, amico mio, li ucciderò per questo!"

    Per noi c’è ancora una speranza e allora non sarò morto invano. Se ti scopriranno, invece… Esegui i miei ordini e va’, dileguati! disse e un altro fiotto di sangue gli macchiò la tunica candida.

    A fatica riusciva a muoversi. Con sommo sforzo e aiutato dall’amico raggiunse la sala del trono. Poi quello sparì, silenzioso e cauto come era arrivato. Atezio cadde bocconi sul primo degli scalini che rialzavano il seggio regale dal pavimento a intarsi policromi che disegnavano artistiche volute e geometriche figure, o ricami elaborati e che ricopriva tutta la ricca e splendidamente decorata sala del trono dei signori di Ausonia, l’antica terra di cui Atezio, lì agonizzante, era il sovrano, il basileus.

    Non trascorse molto tempo che due adolescenti seguiti da servi allarmati si precipitarono nella sala. Atezio rantolava e gemeva, la nera bava sanguinolenta alla bocca, mentre un tremito irrefrenabile squassava quelle membra contratte; le pupille erano dilatate e fissavano sconvolte le ampie arcate della sala e le imponenti colonne di granito rosso sulle quali campeggiavano ad intervalli regolari le immagini dei suoi antenati, i signori di Ausonia, i quali sembravano assistere corrucciati alla drammatica fine del loro discendente.

    Vedendolo in quello stato alcuni servi gli si avvicinarono solleciti, altri andarono a chiamare il medico. I suoi figli, invece, sapevano già la verità. Gli si inginocchiarono accanto. La ragazza piangeva inconsolabile, mentre suo fratello gemello fissava il padre moribondo con angoscia.

    Aiutatemi… figli miei… ad alzarmi… disse con grande fatica.

    Oh padre caro! Perché, perché? piangeva la ragazza. Il ragazzo prese il padre per le braccia e lo fece appoggiare alle sue spalle robuste.

    Sul trono, Alarico, mettimi…. sul trono…! Il ragazzo aiutò il padre a raggiungere il sommo scranno. Il basileus si sedette. Suo figlio gli mise in capo la corona aurea di foglie di quercia e alloro e nella mano destra il bastone del comando, un antichissimo ramo intrecciato di quercia e corniolo, sul quale si arrampicavano uno stelo di edera e di vischio, pure ricoperti d’oro: i simboli supremi del potere su Ausonia, la terra sulla quale da tempo immemorabile regnava la stirpe di Atezio. L’uomo, ormai moribondo, respirava affannosamente. Giunse il medico. Bastò un’occhiata. Scrollò il capo e strinse a sé i gemelli. Selene piangeva inconsolabile.

    L’hanno ucciso, vero? Vero?? Oh, anche lui! Prima la mamma, ora lui! E’ stata lei vero, vero padre? Eh dottore? Lei, quella maledetta Ermengarda! gridava tra le lacrime, in preda ad una crisi di nervi. Il medico, colui che aveva fatto nascere lei e suo fratello gemello Alarico, che aveva assistito impotente alla morte della loro madre, Berenice di Egialia e che ora, senza poter far nulla, osservava gli ultimi istanti di vita del loro padre, la strinse a sé e le accarezzava la testa corvina. Alarico covava in cuore una rabbia feroce e teneva chino il capo. Fece per raggiungere la sorella ai piedi del trono, ma il padre gli strinse la mano come in una morsa con le ultime forze che gli rimanevano.

    Sta’ qui, figlio mio! rantolò. Gli occhi ormai velati dalla morte fissavano con dolore la figlia piangente. Poi rivolse l’attenzione al ragazzo accanto a lui. Osservò gli occhi color verde muschio dalle striature dorate, così simili ai suoi e la chioma castano chiaro, come la sua.

    Ascoltami, Alarico! Abbi cura di te e di tua sorella!

    Oh padre …

    La vita mi abbandona, ascolta! disse con grande sforzo.

    Quando sarò morto va’ da Polemarco, cerca la pergamena e il sigillo…

    Padre, no!

    …E quando li avrai trovati ascolta le parole di Polemarco e agisci secondo cuore e saggezza!

    Padre… no! Padre, io… no!

    Un’ultima cosa… Il sangue dei fratelli è sacro! Non macchiare il tuo capo di sangue fraterno!

    Padre… mai… mai!

    Alarico, sii clemente con Ennio, se è tuo fratello!

    Padre!

    Giura! fece con una forza tale che un fiotto di sangue nero uscì dalle sue labbra. Ebbe un rantolo soffocato. Il ragazzo osservò il volto del padre contratto dal dolore. Fissò il genitore negli occhi.

    Vi do la mia parola, padre. Eseguirò i vostri comandi e non leverò la mano contro mio fratello maggiore Ennio. Anche a costo della mia vita!.

    Il basileus annuì e rivolse l’attenzione alla ragazza che piangeva ai piedi del trono.

    Selene… gemette. Ella si avvicinò e si inginocchiò ai piedi del padre. Alarico fece lo stesso. Il padre pose le mani sul loro capo.

    Figli miei vi benedico. La vita mi abbandona, muoio. Addio, raggiungo vostra madre! Eccola, arriva!! Berenice! Sospirò, mentre un ultimo fiotto di sangue gli rapiva la vita. Crollò il capo, la corona cadde a terra con un tintinnio metallico, lo scettro rotolò ai suoi piedi. Selene piangeva disperata abbracciando le ginocchia del genitore. Suo fratello stava in piedi, fissando con ferocia la porta spalancata della sala di fronte a lui.

    "Il basileus Atezio è morto!" esclamò una voce in fondo all’aula. Sulla soglia, silenziosa come un’ombra nella notte, era giunta da un po’ e osservava le ultime ore del sovrano una donna bellissima, immobile e bianca come una statua di cui sembrava ritrarre la perfezione delle forme nelle fattezze esteriori; solo gli occhi di un grigio plumbeo sembravano tradire una gioia crudele. Osservava il trono, il basileus senza vita e accartocciato su sé stesso, il ragazzo accanto a lui, la ragazza ai suoi piedi.

    Nessuno tocchi quella corona! Ordinò e il suono della sua voce tagliò l’aria come una lama d’acciaio. I presenti si riscossero, un brivido di gelido silenzio percorse la sala. Selene si accucciò ai piedi del padre defunto alla ricerca di un’inutile protezione. Alarico taceva e scrutava negli occhi la donna.

    Assassina! sibilò quando quella pose la sua candida mano perfetta sul petto del defunto per accertarsi che fosse morto. Ella ignorò quelle parole e con un sorriso di soddisfazione mirava il cadavere inerte. Tutti tacevano, terrorizzati. Raccolse da terra i simboli del potere, se ne rivestì e prese posto sul trono eburneo e aureo che era suo, della basileia, accanto a quello del marito. La corona brillava sul capo dorato, la verga ben stretta nella mano destra.

    "Finché il basileus di Ausonia, Atezio, mio sposo non sarà stato sepolto come si conviene al signore di questa terra, io, Ermengarda, sposa legittima del basileus Atezio, basileia di Ausonia, regnerò in sua vece. Poi, dopo il tempo del lutto, com’è giusto e naturale il potere supremo passerà nelle mani di mio figlio Ennio, unico e legittimo successore di Atezio! Ora via tutti, portate via questo cadavere e preparatelo per la sepoltura. In tutto il regno ed in quelli vicini sia diffusa la triste notizia. Quanto a voi due bastardi… fece volgendo il capo perfetto in direzione dei due fratelli, stretti l’uno all’altra, accanto al corpo senza vita del loro padre, Vi do un mese di tempo per sparire. Nella mia casa non c’è più posto per voi. Diversamente, non garantirò per la vostra incolumità. E ora fuori tutti, chiudete le porte della sala e che nessuno le riapra fino a quando non vi farà ingresso il nuovo basileus, mio figlio Ennio!" intimò, alzandosi e uscendo per prima, silenziosa com’era giunta, altera e inquietante.

    Poveri noi! gemette piano Selene che ne sarà di noi, ora?

    II

    Prima che scadesse l’ultimatum imposto da Ermengarda ai figli che Atezio aveva avuto dalla donna di antico e illustre lignaggio che, al termine della lunga guerra con la vicina e selvaggia terra di Egialia, avrebbe dovuto garantire come ostaggio la pace e il mantenimento dei patti stabiliti, i due ragazzi avevano trovato rifugio e protezione nella dimora del cavaliere Silvano, uno dei primi cavalieri del basileus , il più caro e fedele compagno d’armi dopo Polemarco. Uno dei figli di Silvano, Evandro, aveva all’incirca la stessa età dei gemelli - era più grande solo di un anno - e i tre ragazzi erano cresciuti insieme fin dall’infanzia; tra di loro si era sviluppata un’amicizia fraterna e la famiglia di Silvano, numerosa e allegra, era stata sempre un punto di riferimento per i due ragazzi soprattutto dopo che la loro madre alcuni anni addietro era stata trovata misteriosamente morta, uccisa – si vociferava- dall’odio e dalla gelosia della basileia Ermengarda. Prima dell’inizio dell’estate e dell’insediamento di Ennio, i ragazzi avevano deciso di trasferirsi proprio nel paese d’origine della loro mamma, ad Egialia, dove amici e parenti erano pronti ad accoglierli. Per il momento, però, si erano sistemati presso il cavaliere Silvano, anche perché lì vicino, nella terra di Ula di cui Silvano era amministratore per conto del basileus , nel villaggio di Markt, viveva Polemarco, l’uomo che Alarico avrebbe dovuto contattare per ordine del padre morente.

    Il villaggio di Markt sorgeva ai piedi delle alte e impervie montagne che segnavano il confine settentrionale di Ausonia con Egialia: i selvaggi Monti delle Capre, chiamati così perché in molti punti solo questi animali riuscivano ad arrivare, vegliavano imponenti sulle due terre e ne segnavano un limite che era per molti versi, reciprocamente, invalicabile. Lì, tra le casette di legno e pietra dai tetti colorati, ricche di fiori, i ruscelli gorgoglianti e le fontane dalle forme più bizzarre, aveva trovato rifugio il cavaliere Polemarco dopo che era stato costretto a lasciare la capitale, Onfalia, la città di cui era rappresentante in qualità di primo tra i primi cavalieri del basileus, braccato dagli stessi nemici che avevano assassinato il suo signore ed amico. Lì conduceva una vita semplice, quanto più possibile anonima e riservata: la sua esistenza era infatti troppo preziosa, i suoi segreti molto pericolosi. I tre ragazzi dunque si erano incamminati di buon mattino attraverso i boschi profumati di betulle, faggi e abeti che popolavano tutta la regione e che ricoprivano come un verde manto le terre che da Ula, la principale città della regione che dava il nome a tutta quella terra dove sorgeva anche l’antico e ben difeso castello del cavaliere Silvano, giungevano ai piedi dei monti e fino al piccolo centro di Markt e agli altri villaggi dintorno.

    Si diceva, infatti, che la vasta e ferace terra di Ausonia si estendesse dal punto in cui sorgeva il sole al luogo del suo tramonto. In basso, infatti, era delimitata dal nero e profondo mare Ittio, ricco di pesci, da dove l’astro di fuoco iniziava la sua immaginaria corsa quotidiana; dal lato opposto stavano le Montagne dette appunto del Tramonto, le quali al crepuscolo si tingevano di rosa e arancio: qui correva il confine con Esperia; a sinistra scorreva l’impetuoso fiume Eri, che si gettava nel mare Ittio non senza aver prima creato un ampio delta, profondo e acquitrinoso, noto come Paludi della Nebbia, per via della foschia sempre presente; a destra s’innalzavano impervi e selvaggi i Monti delle Capre, perennemente innevati, oltre i quali c’era il regno alpino di Egialia. Un’ampia zona fertile e pianeggiante si apriva al centro del paese di Ausonia, dolcemente mossa da colline che tendevano a scomparire man mano che digradava verso il mare. Molti erano i villaggi che sorgevano lungo il corso del fiume principale e degli altri corsi d’acqua di cui tutta Ausonia era comunque ricca, sulla costa soleggiata e ridente verso il mare, ai piedi dei monti brillanti di neve e soprattutto nelle verdi e colorate valli: la maggior parte dei centri abitati non possedeva mura o fortificazioni e si distingueva per la caratteristica di disporre le case secondo un ordine regolare, ortogonale, o a raggiera, attorno alla piazza principale che costituiva anche il centro del paese, il cuore dove gli abitanti si ritrovavano per commerciare, discutere, semplicemente incontrarsi e chiacchierare dei fatti del villaggio e delle terre vicine. Diversi erano, però, i paesi montani, soprattutto quelli che sorgevano al confine con Egialia: qui le abitazioni si disponevano a file parallele, le case erano molto vicine tra loro e i vicoli stretti e contorti, quasi disordinati; in quell’intreccio trasversale e ortogonale non c’erano piazze o luoghi di ritrovo all’interno del villaggio, ma sempre un ampio spiazzo si apriva alle porte dell’abitato. Numerosi, poi, erano i castelli dove i cavalieri del basileus vivevano e amministravano il territorio per ordine e conto del loro signore. Strade lastricate e ampie, dotate ad intervalli regolari di stazioni di posta e cambio cavalli consentivano spostamenti relativamente facili tra i vari punti del regno. L’oculata amministrazione di Atezio e il ventennale periodo di pace seguito alla fine delle ostilità con i regni vicini avevano assicurato ad Ausonia prosperità e tranquillità, che si riflettevano nei campi pingui e ben coltivati, nei villaggi privi di difese, nel traffico che ogni giorno aumentava sulle strade della regione, nella giovialità e laboriosità dei suoi abitanti.

    I tre ragazzi assaporavano con gioia l’aria delle fresche montagne e attraversavano liberi e allegri i boschi, galoppando chiassosamente sulla strada che conduceva a Markt. Evandro precedeva; Selene, le guance rosse per l’aria che le sbatteva allegra in viso, seguiva al galoppo e da ultimo Alarico, che respirava con gioia selvaggia l’agreste profumo del bosco. Un fruscio tra i cespugli però attrasse l’attenzione del ragazzo, mentre un giovane esemplare di girifalco stridendo nervoso planava e si posava sulla sua spalla; un tenue uggiolare, ancora rumori tra i cespugli: il ragazzo smontò da cavallo e iniziò a frugare tra il fogliame. Intanto anche gli altri due si erano avvicinati. Il rapace volò su un basso ramo e seguiva interessato le operazioni. Alarico finalmente trasse un piccolo lupo; si guardò intorno, perlustrò le vicinanze, cercò tracce.

    Che fai? s’informò Evandro.

    Oh, che bello, un lupicino! esclamò Selene.

    Alarico continuava a guardarsi intorno, perplesso.

    Beh, che succede? rincarò Evandro.

    Qualcosa non va. Questo piccolo lupo è solo, non vedo segni del suo branco.

    E allora? Si sarà perso!

    Oh teniamolo noi!

    Lo terremo per forza. Si sarà allontanato, o qualcuno ha ucciso o disperso la madre. Dev’essere qui da qualche giorno, è infreddolito, affamato e spaventato. Sarà il mio lupo!

    Ah, ah, voglio vedere come farai convivere un falco, un lupo e un cavallo! rise Evandro.

    Abbi fede, ausone! rispose ammiccando il ragazzo.

    Alarico, fallo tenere a me! Lo custodirò al caldo nella tasca interna della mia mantellina da viaggio. pregò Selene che moriva dalla voglia di accarezzare quel piccolo fagottino dal pelo arruffato.

    A casa lo affideremo a Ela, la mia cagna. Ha da poco avuto i cuccioli e un po’ di latte non le mancherà anche per questa piccola creatura.

    Selene sorrise e prese con sé la bestiola, Alarico richiamò con un fischio il rapace e ripartirono alla volta di Markt.

    Dobbiamo trovare la casa di Polemarco, informò gli altri quando fu in vista del campanile del villaggio.

    Che dobbiamo fare? chiese Evandro.

    Alarico caccerà Ennio dal trono di Ausonia! aggiunse Selene.

    Davvero? fece meravigliato Evandro.

    "Non dite stupidaggini! Non farò niente del genere. Ennio sarà il legittimo basileus. Io non c’entro niente con questo regno, e neppure tu, Selene!"

    E allora che siamo venuti a fare?

    Devo onorare una promessa fatta a mio padre morente. Ribadì aspro. Allora Evandro, tu conosci la casa di Polemarco?

    Eccola lì! fece il ragazzo annuendo e indicando una graziosa e piccola costruzione non lontano dai margini del paese, con il tetto di legno dipinto di rosso, come le imposte, che però erano spalancate. Un vociare confuso proveniva da lì e sembrava ci fosse molta gente. I ragazzi aggrottarono la fronte, la ragazza si allarmò. Accelerarono il passo e in breve raggiunsero l’abitazione. Quasi tutti gli abitanti del villaggio erano radunati lì e parlavano a voce alta, concitati, indicando la porta dell’abitazione aperta. I ragazzi smontarono da cavallo e si fecero presso la folla.

    Che succede? fece Evandro cercando di richiamare l’attenzione di qualcuno.

    "Sono venuti da Onfalia a prendere l’assassino del basileus Atezio!"

    Che cosa?! gridarono i tre ragazzi all’unisono.

    Ma non è possibile! Chi è?

    Non lo sai? Polemarco! Sembrava un uomo tanto per bene!

    Polemarco?! Ma chi ha osato? Alarico aspetta! gridò Evandro all’indirizzo dell’amico che si stava facendo largo tra la folla e cercava di entrare in casa. A spintoni e gomitate raggiunse l’ingresso. Alcuni uomini della guarnigione di Onfalia presidiavano la porta. A fatica anche Evandro e Selene si avvicinarono. La ragazza aveva le gambe tremanti dalla paura e il respiro affannato.

    Sta succedendo qualcosa, qui. Qualcosa di brutto! Evandro, ci sarà spargimento di sangue!! sussurrò sconvolta. Il ragazzo la strinse a sé.

    Stai tranquilla, andrà tutto bene. Ma che fa Alarico?! Ehi! Torna qui!

    Il ragazzo sfidando i soldati si era intanto avvicinato alla casa. In alto volava stridendo il bianco rapace.

    Sta’ a posto ragazzo! lo redarguì un uomo robusto, barbuto, piantandogli davanti al viso una spada affilata. Alarico l’ignorò e avanzò ancora un poco.

    Ehi, indietro!

    Dov’è Polemarco? Che fate qui? chiese perentorio.

    Che vuoi, chi sei? fece l’uomo. La gente rumoreggiava, i soldati si spazientivano e lanciavano occhiate ansiose all’interno della casa. Sembrava che qualcuno all’interno cercasse qualcosa, o qualcuno: si udiva rumore di colluttazione, oggetti gettati in terra, grida, percosse. Poi una voce pastosa e crudele sovrastò le altre. In preda all’ira cieca, Alarico si fece sull’uscio, intenzionato ad entrare. Due uomini lo bloccarono e lo tenevano per le braccia. Egli si divincolava furioso.

    Lasciatemi, devo entrare! gridava e si era già liberato dalla presa di uno. La gente assisteva curiosa, confusa, disorientata.

    Evandro, ci sarà sangue qui, aiutiamo Alarico, ti prego! sussurrava angosciata Selene. L’amico, interdetto e spaventato, stringeva forte la ragazza e come pietrificato assisteva alla scena. Che poteva fare?

    Ragazzo, levati dai piedi! Sono cose da grandi! intimavano da più parti.

    Alarico aveva pressoché superato l’uscio, trascinando quasi l’uomo che lo teneva per un braccio, con la sua corporatura robusta, quando sulla soglia apparve la figura di un giovane uomo non alto, ma dalle proporzioni armoniche, vestito in maniera sfarzosa di porpora e oro; il viso era circondato da una folta e riccia chioma corvina, come la corta barbetta che gli ombreggiava le labbra sensuali, il mento e le gote; due gelidi occhi grigi rendevano duri i lineamenti di quel viso, peraltro molto ben definito. Conduceva legato per le mani dietro di sé un uomo sui quarantacinque anni, semi svestito e ferito per la lotta e le percosse ricevute; i corti capelli castani che mostravano ormai qualche filo grigio erano macchiati di sangue e il volto era livido e pesto. Era inginocchiato e teneva il viso a terra.

    Ennio, che tu sia maledetto! Lascia andare Polemarco! gridò il ragazzo riconoscendo nell’uomo vittorioso nella sua prepotenza il fratellastro e in quello sconfitto e atterrato il compagno d’armi di suo padre.

    Il principe di Ausonia si meravigliò nel trovare lì il fratello tanto detestato. I suoi occhi glaciali incontrarono quelli color muschio di Alarico. Il ragazzo fremeva di rabbia. Quello rise e le note crudeli di quel suono ghiacciarono l’aria. La piccola folla tacque.

    Il figlio dell’ostaggio di Egialia! Ma che sgradita sorpresa! Che fai qui, moccioso? Cercavi qualcosa? O qualcuno?

    E tu che fai qui, assassino? chiese di rimando.

    Taci, selvaggio bastardo, quando il signore di Ausonia amministra la giustizia!

    Quale giustizia? Sei un assassino! urlò ancora, cercando di avvicinarsi al prigioniero. I soldati di Ausonia lo fermarono di nuovo e altri si posero tra lui e il loro signore.

    Bastardo che sei! Non vedi? Punisco l’assassino di mio padre, come ogni figlio ha il dovere di fare!

    Polemarco non è un assassino. Tu lo sei! ribadì a squarciagola, divincolandosi con forza. Il cavaliere di Onfalia, ferito e vilipeso, alzò il capo e fissò gli occhi castano scuro in quelli del ragazzo.

    "Alarico, figlio di Atezio, signore di Ausonia … Domine mi rex!" scandì le ultime parole con voce alta, chiara e ferma, nonostante le ferite e le percosse. Alarico lo guardò sconvolto, senza capire, con occhi sorpresi e spaventati. Ennio avvampò d’ira. Prese l’uomo per i capelli, gli gettò a forza indietro il capo e con il bellissimo pugnale dalla lama d’acciaio splendente, riccamente decorato che teneva nel pugno sinistro, gli recise la gola di netto. Il cavaliere cadde a terra, esanime.

    Hai parlato troppo, Polemarco. E male! ghignò.

    Selene tremava e piangeva, Evandro osservava attonito la scena: Polemarco …

    Vigliacco! ruggì furente.

    Vigliacco, vigliacco! si sentì gridare in mezzo alla folla.

    Pulendo la lama addosso al cadavere, con apparente calma Ennio ordinò ai suoi:

    Sterminate la famiglia di questo traditore. Il suo nome e la sua stirpe siano cancellati da Ausonia. E tagliate la lingua a quelli che hanno osato darmi del vigliacco.

    Anche al ragazzo? fece uno della guardia, che ancora tratteneva Alarico per un braccio.

    No, lui è preda mia! esclamò puntando gli occhi glaciali in quelli dorati del fratellastro. I soldati lo lasciarono andare. Quello fece per avventarsi su Ennio, ma le parole paterne lo trattennero. Ricordò il giuramento, sostenne lo sguardo, poi chinò il capo e si allontanò a passi lenti. Intanto dall’abitazione era stata tratta fuori a forza una donna. Lacrime le rigavano il bel volto di un ovale perfetto e gli occhi scuri. Vide a terra il corpo senza vita del marito e sputò all’indirizzo di Ennio. Quello schioccò le dita e un suo uomo tirò indietro il capo alla donna e le recise la giugulare. Anche lei cadde senza un fiato.

    Ci sono altri? fece ai suoi uomini. Essi scrollarono il capo. Poi fu il panico. Con un cenno del capo, Ennio ordinò ai suoi di eseguire l’altro suo ordine. I soldati si gettarono sulla folla sorpresa e impaurita. Prendevano a caso la gente, aprivano a forza la bocca e tagliavano la lingua. In preda al terrore gli abitanti fuggivano; cadevano a terra quelli con il viso insanguinato, emettendo rantoli incomprensibili. Il villaggio era in subbuglio; ognuno cercava di raggiungere la propria casa, o l’abitazione più vicina; gli uomini di Ennio infierivano senza pietà. Evandro aveva condotto al sicuro nel boschetto alle porte del villaggio la povera Selene semi svenuta dal terrore. Alarico dal giardino sconvolto e calpestato della casetta osservava i corpi esanimi di Polemarco e di sua moglie. Ennio e la sua scorta gli passarono accanto ignorandolo.

    Non vincerai sempre, Ennio! mormorò guardando il principe di Ausonia che orgogliosamente montava a cavallo e si allontanava con i suoi uomini. Nel villaggio piombò un silenzio irreale. Le imposte delle case erano serrate, neppure i gemiti dei feriti si udivano più. Le strade erano vuote, la casa di Polemarco desolata. Alarico strinse forte i pugni. Si allontanò, mentre cercava disperatamente di reprimere il desiderio di guerra e di strage che Ennio gli aveva fatto sorgere nel cuore. Aveva giurato a suo padre, aveva fatto una promessa…

    Solo Evandro dal boschetto dove stava notò, nel silenzio e nell’abbandono generale, una figura avvolta in un nero mantello che furtiva entrava nella casa priva di vita da una porticina secondaria sul retro e ne usciva poco dopo nascondendo sotto l’ampia lana un grosso e pesante fardello. Annuì tra sé, rincuorato. Poi aiutò Selene a salire a cavallo e recuperando quello di Alarico andò incontro all’amico. Un rapace volteggiava minaccioso in alto, terrorizzando i passeri e i merli. Mesti, i due ragazzi montarono a loro volta e tornarono a Ula.

    La notizia li aveva preceduti e il cavaliere Silvano, il padre di Evandro, l’animo in subbuglio e infuriato vagava per il castello inquieto, in preda ad un’ira e ad un dolore infiniti. Polemarco, suo amico e fratello, era stato assassinato da Ennio! E perché? Oh, lui sapeva perché! Polemarco aveva pagato con la vita il suo silenzio e la fedeltà ad Atezio. Doveva avvisare gli altri! Il fatto era troppo grave. Ennio non doveva passarla liscia! Ma che fare? Come vendicare l’amico? Oh, il dolore e la rabbia erano troppi! Vide suo figlio e i gemelli che rientravano, sconvolti. Il ragazzo incrociò brevemente lo sguardo addolorato del padre.

    L’ha presa Etelredo… mormorò all’orecchio del genitore. Il cavaliere sorrise. Almeno quello… Se ne andò nel suo studio. Voleva star solo. Non voleva vedere nessuno. Salì di corsa le antiche scale di pietra grigia, chiuse alle sue spalle la pesante porta lignea e si affacciò alla finestra da dove contemplava i Monti delle Capre. Poggiò il capo alla colonnina che divideva in due spazi la finestra e pianse in silenzio la drammatica fine dell’amico, ricordando il loro ultimo colloquio, le ultime parole scambiate con Polemarco, l’amico di sempre, il fratello, il cavaliere più valoroso tra loro, il più fedele e coraggioso, il signore di Onfalia, il custode dell’aquila! 

    III

    Amico mio, quanto potremo andare avanti così? aveva esclamato una sera che non aveva preceduto di molto quegli eventi luttuosi il cavaliere Polemarco proprio lì, dove ora Silvano piangeva e ricordava le ultime parole, la conversazione avuta con l’amico fraterno ormai scomparso. Allora, come ora, il bagliore rossastro di un tramonto di fuoco illuminava il cielo di una luce sanguigna.

    Che cosa suggerisci? aveva risposto Silvano, ben conoscendo in realtà le idee del suo interlocutore.

    "Silvano, amico mio tu sai al pari di me quali fossero i progetti del nostro basileus Atezio e il motivo della sua morte. Dobbiamo solo eseguire la sua volontà!"

    Tu credi che sia così semplice?! Ennio e sua madre sono capaci di tutto. Non possiamo esporre i ragazzi ad un simile pericolo!

    Dobbiamo eseguire la volontà di Atezio!

    Il ragazzo è troppo giovane, rischiamo di rovinare tutto. Con Atezio vivo le cose sarebbero state diverse… Ora sarebbe il disastro, lo capisci?

    Polemarco aveva sospirato e si era avvicinato alla finestra, proprio lì dove ora stava lui, e aveva fissato il cielo di fuoco, gli ultimi raggi del sole morente. La luce sanguigna allungava le ombre che imbrunivano i contorni dei monti e rendeva macchie scure i boschi che si estendevano ai piedi di quelli. Lentamente, inesorabilmente, la tenebra prendeva il posto del giorno e già brillavano le prime stelle serotine.

    Silvano… È necessario che ti dica una cosa! aveva proferito con aria grave, quasi assorta, Polemarco. Egli lo aveva osservato per un attimo, sorpreso e preoccupato. Annuì. Polemarco proseguì:

    Tu sai che il giorno in cui Atezio fu assassinato, io ero lì. Oh! fece poi contraendo i muscoli della mano in un pugno. Aprì poi la mano e se la passò sulla fronte Se solo fossi arrivato prima … Forse l’avrei salvato! Oh, Silvano questo pensiero mi assilla di continuo e…

    Polemarco, amico mio, cosa avresti potuto fare? Morire al suo posto, o con lui?

    Sì, hai ragione… Comunque Ermengarda e suo figlio sanno che Atezio mi ha messo a parte dei suoi progetti. Ho le ore contate. Presto verranno!

    Polemarco…

    "Oh, non m’illudo! L’occhio crudele della basileia è sopra di me. Prima o poi colpirà. Solo… cerca di proteggere la mia famiglia, ti prego!"

    Ma perché questi discorsi? Qui sei al sicuro. Non ti troverà a Markt.

    Sanno dove abito. Comunque lasciami parlare, è importante. Se dovesse accadermi qualcosa, fatti dare dal saggio Etelredo un sacchetto di cuoio. Dentro c’è un cofanetto d’avorio chiuso con il sigillo di Atezio. Non dovrai aprirlo per nessuna ragione. Dovrai consegnarlo ad Alarico quando te lo richiederà.

    Non permetterò a nessuno di infierire contro di te! Ti darò una scorta armata o… vieni qui al castello per un po’ di tempo!

    "No. Sta’ fuori dalla contesa, ti prego. La basileia e suo figlio nulla temono da te e ti ignorano. Se dovessi morire anche tu, allora sì, che tutto sarebbe perduto. Devi vivere, Silvano, per la salvezza di Ausonia, della nostra terra! Solo tu, oltre a me, conosci tutta la verità e solo tu, se io sarò morto, potrai usarla al momento giusto contro Ermengarda e suo figlio!"

    Silvano aveva allora sospirato e chinato il capo. Polemarco aveva ragione: lui era il più autorevole dei primi cavalieri, lui era stato assieme a Polemarco fratello d’armi del basileus. Toccava a lui continuare la missione dell’amico.

    Va bene! aveva annuito, mentre un lampo di determinazione gli illuminava gli occhi color acqua marina.

    Grazie, amico mio. Ora posso affrontare più serenamente il mio destino. Vengano pure gli uomini di Ennio e di sua madre! Non vinceranno questa guerra e la volontà di Atezio trionferà!

    Sì, quelle erano state le ultime parole di Polemarco e mentre parlava un sorriso gli illuminava gli occhi castani. Silvano aveva stretto con forza la mano che l’amico gli porgeva. Si erano abbracciati. Nulla più c’era da dire. Polemarco era sparito oltre quella porta, silenzioso come era arrivato e vedendolo andar via Silvano aveva avuto la dolorosa certezza che non l’avrebbe incontrato mai più. Ora quel destino si era compiuto. Silvano chiuse gli occhi e continuò a piangere in silenzio.

    IV

    Il tempo del lutto volgeva ormai al termine e si avvicinava la data di intronizzazione di Ennio: la festa d’inizio estate, quella era stata la data prescelta per celebrare l’evento. Ad Ausonia giungevano alla spicciolata le delegazioni delle terre vicine da Egialia, Esperia, Corisia e le persone più rappresentative dell’antica terra di Ausonia, curiosi e gente desiderosa di assistere ad una festa che si prospettava grandiosa.

    Per l’occasione Ennio aveva rispolverato antichissimi e desueti rituali: la lunga processione fino all’Altare della Vittoria, il sacrificio del vitello, del maiale e del capro, banchetti pubblici e giochi per gli Ausoni e gli ospiti stranieri. Il momento cruciale sarebbe stato il giuramento di reciproca fedeltà tra il sovrano e il suo popolo e poi l’atto di amicizia delle delegazioni straniere. Ennio aveva invitato anche i suoi fratellastri: sarebbe stata una gran soddisfazione vederli inginocchiati ai suoi piedi, suoi sudditi! Già si fregava le mani dalla contentezza: dopo la morte di Polemarco più nulla aveva da temere e qualunque macchinazione ormai riposava sotto terra. Era soddisfatto, sì, era soddisfatto di sé stesso.

    "Domine, è tutto pronto. Possiamo andare." Annunciò il maestro della cerimonia al suo signore. Egli usciva tutto agghindato dalle mani dei servi che avevano il compito di prepararlo alla cerimonia: una lunga veste candida gli copriva la persona fino ai piedi e su questa era stata mollemente drappeggiata un’ampia fascia color porpora bordata d’oro. Salì su una lettiga, pure d’oro, finemente lavorata e coperta con drappi e cuscini d’oro e di porpora. Otto robusti schiavi se la issarono sulle spalle e al suono di cembali e trombe s’incamminò con la lunga processione di notabili e dignitari fin sulla cima del colle che a occidente di Onfalia, al di là del fiume Freddo- un impetuoso corso d’acqua che scendeva dalle Montagne del Tramonto fino al mare Ittio e che, insieme al fiume Eri e al fiume Nevoso, quello più a settentrione, irrigava la pianura di Ausonia e lambiva a nord la città - s’innalzava per qualche centinaio di metri sulla verde pianura sottostante. Su questo rilievo del terreno, circondato da boschi di bianche betulle e faggi, fin dai tempi più remoti decantato nelle saghe e nelle leggende locali come luogo dove ancora risplendeva l’eco dell’antica gloria, sorgeva l’Ara della Vittoria. Qui gli antenati di Atezio avevano celebrato i loro trionfi; qui essi avevano ricevuto i segni del potere e del comando. Qui lo stesso Atezio aveva cinto, giovane principe, la corona e impugnato lo scettro. Anche allora c’era stata festa, ma non erano stati sacrificati animali, né accesi fuochi. Quei tempi erano ormai trascorsi e i rituali barbari erano stati sostituiti da canti, inni e preghiere. Con Ennio, invece, sarebbe stato tutto diverso: tutto il popolo, i rappresentanti dei regni limitrofi, tutti avrebbero dovuto adorarlo come una divinità, come il signore e padrone dei destini di Ausonia tutta e delle terre attorno. Una sua statua di pregiato e candido marmo era stata posta all’esterno del recinto di pietra e accanto a questa un braciere avrebbe permanentemente bruciato essenze profumate in suo onore. L’antica grandezza sarebbe stata restaurata. Solo l’antica grandezza avrebbe assicurato al nuovo basileus quel potere assoluto, totale, cui tanto anelava. Ora il momento era giunto! Per l’occasione aveva anche rispolverato antiche cariche onorifiche e augurali, titoli e benefici per allargare la cerchia di amici e tirapiedi. Durante il tragitto aveva fissato lo sguardo con voluttà verso la sua meta, quell’Ara che lo avrebbe sancito signore di Ausonia. Atezio, vecchio stolto! Giunto sulla cima del colle, tra applausi, ovazioni, grida di giubilo, saluti e auguri dalla folla che aveva assistito al suo passaggio, aveva con un gesto della mano interrotto la musica. La lettiga era stata deposta a terra e lui era sceso mostrandosi ai suoi sudditi lì in alto, maestoso e potente. La folla tacque, in attesa. Nel silenzio generale i disperati versi degli animali destinati al sacrificio ferivano l’aria. Poi dal petto e dal ventre squarciato mani insanguinate trassero cuori palpitanti e viscere fumanti.

    Sì! fu il responso Ennio sarebbe stato un sovrano grandioso! I fati erano con lui! Una nuova era di prosperità e di grandezza si preparava per Ausonia! Il regno di Ennio sarebbe stato lungo e glorioso! Un boato di giubilo proruppe dai petti degli Ausoni, grida di gioia, mani alzate in segno di festa e di saluto, la folla era contagiata da un entusiasmo isterico. L’allegria, l’esaltazione, tutto era eccessivo, ingigantito da un’aspettativa che voleva cancellare la dolorosa e misteriosa morte di Atezio, seppellito modestamente, quasi in sordina, nell’antico sepolcro alle porte di Onfalia, dal lato esattamente opposto a dove ora si celebrava quella festa. Il corteo aveva poi fatto ritorno al castello e nelle piazze, per le strade, nelle case si diffondevano e si improvvisavano festini e banchetti, gli uomini contagiati da una gioia frenetica, nervosa, eccessiva.

    La cerimonia continuava per Ennio nella sala del trono, dove sua madre lo attendeva assisa sullo scranno supremo per incoronarlo signore di Ausonia. All’ingresso dell’ampia sala era stato steso un lungo tappeto color porpora bordato d’oro che avrebbe guidato i passi del giovane sovrano fino al soglio regale. Ai due lati la folla dei notabili faceva rispettosa ala. Ennio percorse quel tratto con sicurezza, spavalderia, avidità. Sua madre si era alzata e aveva sceso i sette gradini che soprelevavano il palco regale da terra. Gli aveva teso le mani e l’aveva condotto con sé fino al trono del basileus. Si era tolta dal capo la corona e l’aveva posta sulla nera chioma del figlio, poi gli aveva messo in mano lo scettro. Si era inginocchiata davanti a lui, imitata da tutti i presenti.

    "Ennio, figlio di Atezio, sei tu il legittimo basileus di Ausonia! Domine mi rex!" proferì a voce alta e chiara Ermengarda. I presenti recitarono la formula. Applausi e sorrisi. Era fatta!

    In un angolo in fondo alla sala, in disparte rispetto alla folla degli invitati, i gemelli e i cinque primi cavalieri erano rimasti in piedi. Alzando il capo e dominando i presenti con lo sguardo, Ennio se ne accorse. Un sorriso cattivo gli si delineò sulle labbra sensuali. Sedette sul trono accanto a sua madre. Ora era lui il nuovo basileus di Ausonia. I convitati sciamarono verso il salone delle feste dove si sarebbe tenuto il banchetto regale e presero posto nei tavoli assegnati. L’atmosfera era di festa e di allegria, ma i sorrisi di alcuni sembravano forzati e gli auguri proferiti a denti stretti. Il sovrano fece il suo ingresso nella sala. Ancora grida di consenso l’accolsero e applausi. Sedette al suo posto, la madre accanto. Dal fondo della sala dove stava, sul palco soprelevato riservato solo a lui e alla basileia, poteva osservare con comodità il consesso degli invitati. Assisa accanto al figlio, Ermengarda posò la bianca mano perfetta su quella di lui. Sorrideva freddamente e un baluginio sinistro brillava in quegli occhi grigi.

    Lascia che ti dia un consiglio, figlio mio, mio signore!

    Madre amatissima sapete che sono per me preziose le parole che stillano dalle vostre splendide labbra!

    La donna sorrise compiaciuta e gli accarezzò la mano.

    Mio caro, sbarazzati dei bastardi e dei cavalieri. Ciò che cercavamo non è ancora stato trovato!

    Oh, madre! Atezio è morto e anche Polemarco. I loro segreti giacciono nelle loro tombe, ormai! esclamò portando alle labbra la mano materna e baciandola più volte.

    C’è ancora Silvano…

    Il volto di Ennio si oscurò. Una luce cattiva illuminò lo sguardo torbido, come quando in una notte livida la nera luce della luna getta uno sprazzo furtivo in un lago paludoso: s’intravede l’acqua atra e immobile, ma il fondo è oscuro e inquietante.

    Lo so, madre. Quell’uomo non mi piace; la sua fedeltà e quella dei suoi compagni al ricordo di mio padre m’indispone, come pure la protezione che offre ai bastardi. Prima o poi eliminerò anche lui e i suoi. Ma non ora! Ora voglio giocare con le loro vite per un po’.

    "Limita il loro potere. Accentra tutto nelle tue mani. Circondati di uomini fidati, o almeno la cui fedeltà puoi comprare! Ricorda che ora sei tu il basileus! Quegli sciocchi cavalieri sono solo dei poveri illusi nostalgici di Atezio. Buoni a nulla come lui! Ma tu! Tu sei il loro signore e padrone. Non possono nulla contro di te. Togli loro il controllo delle province, il governo, l’amministrazione, il privilegio di starti accanto, o dovrai pentirtene amaramente. Lascia che si occupino solo di caccia e di feste!"

    Egli annuì e sorrise all’indirizzo della madre. Quella continuò a perlustrare la sala con gli occhi crudeli.

    Ma soprattutto liberati dei bastardi. Sono loro il nostro vero pericolo. I cavalieri li onorano e li sostengono. Prima o poi potrebbero contenderti il potere!

    Quante volte mi avete detto, madre, che il vero potere è disporre a mio piacimento della vita altrui… Li annienterò, e presto!

    "Sta’ attento, figlio mio. Godono di troppa simpatia presso i cavalieri e il wanax di Egialia, il sovrano Demetrio, già si è dichiarato loro protettore."

    Lo so! Ma ci sono molti modi di toglierseli dai piedi…

    Un’ultima cosa: tieni a mente che il bastardo è il tuo maggior ostacolo. La femmina è merce di scambio! concluse, mentre gli occhi cercavano quelli del figlio, in una complice intesa perversa. Si alzò.

    Goditi la festa. Io sono stanca. Medita sulle mie parole e usa il tuo potere. Il potere è come una bella donna: ama essere posseduto, ricordalo!

    Come potrei dimenticarlo, mia splendida madre?

    Ella annuì e tra gli inchini della folla attraversò la lunga sala e scomparve dietro le antiche e ben intarsiate porte lignee. Le trombe squillarono. Il cibo venne introdotto al suono della musica. Il festino poteva cominciare.

    V

    Musica di cembali, flauti e cetre riempiva l’aria, assieme al rumore di cibo masticato, parole e risate. Domestici affaccendati e attenti servivano in continuazione pietanze prelibate, introdotte nella sala vasta da coreografie bizzarre e stupefacenti trovate. Aedi cantavano la gloria di Ausonia e la rinata potenza. Poeti amici celebravano l’era felice del governo di Ennio. Ballerine discinte si lanciavano in danze sensuali, sfrenate acrobazie tra i tavoli e i convitati. Mimi e saltimbanchi avrebbero allietato per tutto quel giorno, fino a notte inoltrata, la festa di intronizzazione di Ennio; poi, il giorno seguente ci sarebbe stata una battuta di caccia al cinghiale negli splendidi boschi di faggi, querce e larici che si aprivano alle porte di Onfalia, verso i monti. A seguire, un torneo e una giostra di cavalieri. Nello stesso tempo, in tutto il regno erano stati organizzati giochi e donativi di cibo e denaro in onore del nuovo basileus per i sudditi, che avrebbero così partecipato alla grande festa del loro signore.

    Il cerimoniere di corte aveva avuto il suo daffare ad indirizzare gli ospiti, notabili e delegazioni straniere ai propri posti. Inizialmente molti, sedendo dove veniva loro indicato, avevano creduto ad un errore vedendo i primi cavalieri relegati in un tavolo in fondo alla sala e non assieme al sovrano, come sarebbe stato naturale. Silvano e i suoi amici avevano compreso il messaggio nascosto in quel gesto e si erano scambiati occhiate significative; tuttavia avevano taciuto e si erano accomodati ai posti assegnati. A poca distanza da loro si trovavano i due gemelli, Alarico e Selene, sistemati in un angolo, ad un tavolo dove vivande e rinfreschi erano stati messi a disposizione di musicisti, artisti e ballerine. Selene avvampò d’indignazione.

    Voglio andarmene, subito! sibilò stizzita all’orecchio del fratello. Alarico taceva e osservava la sala, volgendo il capo alla ricerca di qualcosa, o di qualcuno. Il suo sguardo infine intercettò quello di un uomo piuttosto alto, robusto, dagli occhi nerissimi, come la chioma che gli incorniciava un viso giovanile, ma comunque segnato da alcune profonde rughe. L’uomo, mentre parlava con il cavaliere Silvano che conosceva e che gli si era avvicinato per salutarlo, aveva alzato il capo e aveva notato il ragazzo che lo fissava. Sorrise.

    Vieni con me! fece il giovanetto alla sorella. I due adolescenti si avvicinarono. L’uomo visibilmente commosso interrogò con lo sguardo il cavaliere Silvano. Quello annuì.

    Sono loro? Siete voi i figli di Berenice? fece ai due. Annuirono. Egli li osservò a lungo cercando lineamenti noti. Gli occhi erano colmi di lacrime. Allargò le braccia e strinse a sé i ragazzi.

    Nipoti miei! Sono Seleuco di Egialia, il fratello minore di vostra madre. Vostro zio! Selene era incredula, Alarico annuì.

    Oh, figli miei, fatevi vedere. Selene! Sì hai gli stessi splendidi occhi di tua madre. E tu sei Alarico… Silvano accanto al diplomatico di Egialia sorrideva commosso. Seleuco rimirava i nipoti mai conosciuti e sorrideva stringendo nelle sue le mani dei ragazzi.

    Nostra madre ci aveva parlato della sua famiglia ad Egialia, una volta… mormorò Selene in preda alle lacrime e ad una forte commozione.

    Quando, ormai sono trascorsi oltre vent’anni, vostra madre venne mandata qui come ostaggio a garanzia di una pace difficile che aveva seguito la lunga e devastante guerra con Ausonia, le fu imposto di interrompere i contatti con la sua famiglia… Ma nessuno di noi l’ha dimenticata e neppure abbiamo dimenticato voi, ragazzi!

    Eppure mia madre è stata assassinata qui ad Onfalia. Un fatto grave, considerata anche la sua posizione. Egialia non si è mossa. Perché? intervenne tagliente Alarico, poco toccato dai sentimentalismi di quel momento.

    Silvano si aspettava quella domanda, conoscendo il carattere del ragazzo. Seleuco scrutò in volto il nipote e scrollò il capo. Gli passò una mano sulla chioma dorata.

    "Hai ragione, mio caro ragazzo. Ma è stato assassinato anche Atezio e ora noi partecipiamo ad una festa del tutto fuori luogo. All’epoca fu tuo padre stesso a comunicare l’omicidio di tua madre e a rimettersi alla clemenza del nostro wanax, del nostro signore. Silvano e Polemarco ci portarono la notizia e la decisione del basileus. Sapevamo tutto. Ma conoscevamo anche l’onore, l’amore e il rispetto che il sovrano di Ausonia portava a mia sorella. I patti non erano stati violati. E a suo tempo puniremo anche la mano assassina che ha compiuto entrambi i delitti!" concluse con occhi torvi.

    Mia madre Berenice amava mio padre e per amor suo, solo per amore aveva accettato il ruolo di… insomma…

    Concubina, favorita, ostaggio, fa’ tu! suggerì con durezza Alarico. Gli occhi color verde muschio dai riflessi dorati fissavano cupi il pavimento.

    Ecco, sì! proseguì Selene rossa in volto. Detestava che sua madre venisse definita così, ma non voleva contraddire suo fratello. Ne conosceva bene il carattere selvaggio. "Ermengarda è la moglie legittima, la basileia, è vero, ma non ha mai amato mio padre, lo sanno tutti. Il loro matrimonio, un matrimonio tra cugini consanguinei per giunta, era stato preparato dai rispettivi padri per sopire l’invidia e la sete di potere di Oronte, padre di Ermengarda e fratello di mio nonno, il basileus Aulo, padre di Atezio, mio padre. Cosa poteva venire di buono da quell’unione, se non un mostro come Ennio?" fece rossa di sdegno in volto.

    Questa è storia nota. Intervenne Silvano E fu un grosso errore. Il peggiore della vita di Atezio, che ormai ha scontato amaramente. L’animo nobile e semplice di Berenice, l’amore, quello vero, sbocciato tra loro due, la vostra nascita, hanno rischiato di mandare a monte i piani di Ermengarda!

    Piani? Quali piani? Il potere? La successione ad Atezio? Ennio è il loro figlio legittimo. Noi siamo solo due bastardi! ribadì Alarico.

    "Vostra madre Berenice appartiene ad una nobile e antica stirpe di Egialia. Per questo io sono qui e rappresento il wanax, il signore, il sovrano della mia terra. Siete principi di sangue regale e anzi, unite in voi il meglio di Ausonia e il meglio di Egialia e…".

    Basta così! Sappiamo chi siamo! intervenne Alarico a troncare quei discorsi di cui temeva una scomoda deriva. Quando questa buffonata sarà terminata noi verremo ad Egialia con voi, zio. Nessuno qui ad Ausonia sentirà più parlare di noi.

    Silvano chinò il capo, afflitto. Aveva in animo di parlare ancora, ma si trattenne e le parole gli morirono in gola. Seleuco assentì.

    Stavo per proporvelo io. Verrete nella mia casa e starete con i miei figli, i vostri cugini, come miei figli. I ragazzi annuirono. Furono invitati a restare al tavolo della delegazione di Egialia. Grati, si sedettero. Silvano, triste e pensieroso, raggiunse i suoi amici. Che senso aveva restare lì, a quel grottesco banchetto…

    In un crescendo di musica, schiamazzi, portate di cibo e vino, danze e battute sconce, il festino andava via via assumendo l’aspetto dell’orgia, complice anche la sfrenatezza di Ennio e dei suoi amici: ai convitati non restava altro che adeguarsi, o andarsene. Ma alzarsi e lasciare quella sala, in quella circostanza, poteva sembrare offensivo, così molti ospiti ben presto ebbero la sgradevole sensazione di trovarsi ostaggio del loro augusto ospite. Poi iniziarono a circolare pettegolezzi, chiacchiere messe su ad arte chissà da chi, su Atezio, Berenice e i gemelli: aneddoti e storielle senza fondamento, bugie e battute volgari; intanto dai tavoli veniva gettato cibo ai cani, fatti entrare apposta per ripulire il pavimento pieno di avanzi, così che al vociare degli uomini si era aggiunto il latrare degli animali. I cavalieri decisero infine che era stato oltrepassato il segno. I figli di Atezio, che non avevano toccato cibo dall’inizio del banchetto, avevano ascoltato a capo chino, mortificati, alcune di quelle chiacchiere giunte fino al loro orecchio. I delegati di Egialia, che non parlavano la lingua di Ausonia, avevano notato l’imbarazzo e sconcertati si lanciavano sguardi perplessi. Seleuco si voltò verso la tavola dei cavalieri e si avvide che essi di comune accordo si stavano alzando per andare via.

    È tempo per noi di ritirarci! fece passare voce tra i suoi e invitò i nipoti a venire via con lui. Ennio si avvide di quei movimenti. Sembrava immerso nel festino, invece il suo occhio vigile da tempo controllava il tavolo dei cavalieri e quello degli ospiti stranieri. Sorrise cattivo e trionfante notando gli uomini che si levavano in piedi.

    Signori, cavalieri, andate via? Il banchetto non è ancora finito!

    Per noi sì, si è fatto tardi! rispose Silvano per tutti.

    Male, malissimo. Volete offendere così il signore di Ausonia?

    "Dispensateci, domine. Domattina partiremo presto e siamo stanchi!" Aggiunse Seleuco.

    Domani?! Ma i festeggiamenti sono appena iniziati!

    Per noi sono finiti. Siamo attesi alle nostre case. Ribadì Silvano. Seleuco annuì.

    Se è questo, allora andate pure. Ma i bastardi restano qui. Per loro la festa è appena incominciata.

    Il diplomatico di Egialia avvampò d’ira, ma si trattenne. Con la massima calma possibile rispose:

    Il principe Alarico e la principessa Selene verranno con noi ad Egialia. Non c’è motivo che restino qui!

    Ennio rise e invitò la sala ad imitarlo. La sala si riempì del suono acuto di voci sghignazzanti.

    Il mezzo sangue può andarsene, ma la sorella resta qui con me, con il fratellino maggiore!

    Verranno entrambi ad Egialia. ribadì Seleuco.

    Badate signore! esclamò divenendo serio e alzandosi in piedi. Sulla sala piombò un imbarazzato silenzio. I cavalieri si posero accanto alla delegazione di Egialia, come a proteggere quegli scomodi ospiti e i due ragazzi. Selene stringeva con forza la mano del fratello. Alarico era concentrato nello sforzo di controllare la sua rabbia ed evitare di scagliarsi contro Ennio, come l’istinto gli suggeriva di fare.

    Se i bastardi usciranno da questa sala con voi sarà la guerra, Seleuco di Egialia! aggiunse con aria di sfida.

    "È un ricatto? Proferite con troppa leggerezza una parola assai pesante, domine!"

    È una mossa politica, signore. La loro madre era un ostaggio, lo sanno tutti e anche questi due qui, anche loro sono ostaggi. Ma ne basta uno solo. Troppi bastardi mi infastidiscono.

    Non avete il diritto di trattare così i vostri fratelli. Lasciateli andare. La pace tra i nostri paesi non ha più bisogno di ostaggi.

    Non sono così ingenuo. Se li lascio andare, presto voi vi rivolterete contro di me, insidierete il mio potere e mi minaccerete. Mi opporrete un avversario, Alarico. E io non posso permetterlo. Non posso permettere che la pace delle nostre terre sia sconvolta dai vostri ambiziosi piani.

    Nella sala si diffuse un mormorio di sconcerto e occhi incerti guardavano quegli uomini in procinto di andare via.

    Avversario? Ma che dite? Seleuco era costernato: cosa mai andava elucubrando quell’uomo? I cavalieri si scambiavano occhiate dubbiose e inquiete.

    Ah, sì? Fate l’ingenuo, nobile Seleuco? Ennio alzò le mani a richiamare l’attenzione, già desta, dei presenti. La sala, l’uditorio era tutta per lui. Esultò nel cuore di gioia. Era stato scaltro, ora sì che avrebbe eliminato i suoi avversari. Ed era stato così facile! Con un gesto teatrale impose il silenzio. Spaziava con lo sguardo per la vasta sala. Lentamente indicò con un ampio movimento della mano il gruppetto di ospiti in piedi e i due gemelli. Li segnalò ai convitati puntando l’indice inanellato dal sigillo di Egialia, ma non quello del padre, il suo. I cavalieri se ne avvidero. Silvano sorrise tra sé.

    Amici, ospiti! fece con voce e volto gravi Vedete come coloro che da sempre tramano contro di me e che hanno ucciso mio padre ora oltraggiano la mia festa. Sì, ecco gli assassini di Atezio, il mio nobile e venerato padre! Ecco coloro che, come serpi nella mia casa, hanno cercato di estinguere la mia stirpe e di assoggettare la corona di Ausonia al dominio di Egialia, la nemica di sempre, la terra che mio padre, nella sua bontà, si era illuso di considerare amica e alleata! Quelle parole caddero come macigni nella sala e un mormorio di sorpresa e disapprovazione si diffuse tra i presenti.

    "Voi mentite, domine! Le vostre parole sono ingannatrici. Il mio sovrano ha sopportato la morte della principessa Berenice, uno schiaffo alla pace, essendo lei stata assassinata qui, nella casa di Atezio, proprio per rispetto al vostro basileus e ai patti stipulati! Perché ora infangate così il nostro onore?" replicò con forza Seleuco a nome del suo signore.

    Devo sopportare io, il signore di Ausonia, di essere chiamato mentitore? Oh amici è un bene che siate qui, che io possa illustrarvi tutta la verità e svelare finalmente il perverso piano di costoro e dei cavalieri di mio padre, volgari traditori del sovrano e della patria! Assassini senza scrupoli!

    Badate Ennio, le vostre parole non resteranno impunite! lo minacciò Silvano.

    Vogliamo sapere la verità, a questo punto! intervenne un uomo anziano, dall’aria saggia, vestito di una lunga tunica orlata di porpora come gli altri delegati di Esperia, l’altra terra limitrofa ad Ausonia.

    Ennio annuì e proseguì il suo racconto.

    "Quando terminò la guerra con Egialia, come molti di voi ricorderanno, che da tanto tempo aveva insanguinato e rattristato le nostre terre, giunse qui come ostaggio e garanzia di pace una donna di nobile stirpe. Ero molto giovane all’epoca, poco più che un bambino, e ricordo che fu accolta con tutti gli onori dovuti al suo rango dalla basileia Ermengarda, mia madre e dal basileus Atezio, mio padre. Io stesso le portai un mazzo dei più bei fiori della nostra terra… Oh, che crudeltà selvaggia dentro quegli occhi violetti alteri e strani! Ben presto io e mia madre scoprimmo che era stata prescelta e mandata qui apposta una donna dal fascino così misterioso, una strega si sarebbe detto, per irretire mio padre in modo che questi generasse dei figli ai quali sarebbe andato il trono di Ausonia dopo aver screditato ed eliminato mia madre e me. In questo modo Egialia, la terra selvaggia con cui confiniamo, si sarebbe vendicata della sconfitta e attraverso la discendenza mista di Atezio avrebbe controllato l’antica rivale. Mia madre ed io scoprimmo il piano e per amore della patria e della pace eliminammo la nemica. Sì, lo ammetto, io e mia madre siamo degli assassini, se assassino si può definire chi difende la propria terra dal nemico! Se non avessimo giustiziato Berenice, ora qui non ci sarebbe il legittimo successore di Atezio, ma un fantoccio di Egialia!"

    Ma è falso! È una menzogna! gridò Seleuco sconvolto.

    Lasciatelo terminare! intervennero con forza i delegati di Corisia, la terra che confinava con Ausonia e con Egialia e che avevano seguito con attenzione quelle parole. Ennio si schiarì la voce e proseguì:

    "Dopo ciò mia madre e io eravamo convinti di aver allontanato il pericolo da Ausonia, ma no! Polemarco, colui che tra i cavalieri era il più fido collaboratore di mio padre, l’amico fraterno, per odio e gelosia verso di noi ha sobillato gli altri cavalieri e si è autoproclamato tutore dei figli di Berenice e di Atezio, i miei fratellastri. I cavalieri hanno continuato ad allevare come un loro fantoccio il ragazzino figlio della straniera nella speranza di vederlo al mio posto sul trono di Ausonia. Perché? Ma per proteggere le loro trame e i loro traffici, le loro ruberie e i loro affari. Lo so, sembro un uomo crudele, ma non è così! Io amo la mia terra, la mia gente e non sono così sciocco da farmi guidare da uomini ambiziosi e corrotti come i cavalieri di mio padre, che hanno affamato il mio popolo per il loro comodo. Quando mio padre si è reso conto di chi in realtà fossero i suoi amici, li ha sollevati dai loro incarichi e così è arrivata la loro vendetta. Chi c’era quando Atezio è morto? Polemarco, ecco chi! Io avrei dovuto fare la stessa fine di mio padre, ma ho vigilato e con la mia solita determinazione ho punito l’omicida del basileus. Non sono un uomo che porta rancore e così, pur avendo mantenuto riguardo ai cavalieri la decisione di mio padre, li ho comunque invitati qui sperando in una conciliazione. E loro? Eccoli, tutti lì, a confabulare con quel povero ragazzino ingenuo e imbelle. Che devo fare ora? Oh, amici, la legge di Ausonia è molto chiara: i traditori e gli assassini devono pagare con la vita le loro colpe. Ma come posso, amici, nel mio primo giorno di regno mandare a morte mio fratello e i cavalieri di mio padre? Come posso inaugurare con il sangue il mio governo?"

    Quelle parole avevano infiammato l’uditorio, numerosi e contrastanti erano i commenti. Nessuno avrebbe mai immaginato i retroscena narrati da Ennio. E poi come non credere alle sue parole, così logiche, così chiare, che spiegavano quelle morti e l’atteggiamento dei cavalieri? E poi era nota la rivalità, in parte sopita nel tempo, tra Ausonia ed Egialia. Tutto collimava, tutto aveva un senso! I cavalieri, sdegnati, si allontanarono senza proferire verbo. Solo il signore di Tala rimase ancora un poco lì, in un angolo, interdetto e silenzioso a scrutare la voce, il volto, l’atteggiamento di Ennio.

    "Le vostre parole sono menzognere. Nulla, nulla è vero! Siete un vigliacco, un serpente velenoso, non meritate il titolo di basileus. Qui, in questa corte, finché è vissuto vostro padre c’era onore e rispetto, anche per gli avversari. Ma con voi! Ah! Il mio signore, il wanax Demetrio, saprà come rispondere a queste false, infondate e infamanti accuse!"

    "Ma tutto collima! Come fate a dire che ciò è falso? Spiegate dunque le vostre ragioni, come ora ha fatto il basileus Ennio, chiarendo punti oscuri dei gravi fatti recenti!" ribadì il delegato di Esperia.

    Una cosa sola vi dirò, signore! intervenne Alarico, il viso fanciullesco rigato dalle lacrime e gli occhi colmi di dolore per le parole proferite dal fratellastro. Mia madre amava mio padre e non aveva ambizioni di potere per i suoi figli. Il suo desiderio più grande era tornare libera tra i monti e i boschi della sua terra. Quello che per voi è potere, per noi è schiavitù! l’uomo fissò serio e colpito il ragazzo, annuì e tacque.

    E tu, malvagio Ennio sei veramente un assassino e un mentitore! E ora, perché è questo che vuoi, uccidi pure me e mio fratello qui, davanti a tutti! gridò Selene tra le lacrime, rossa di collera, lasciando la mano del fratello e avvicinandosi al fratellastro. Costui fece un gesto e subito si avvicinarono le sue guardie personali che in piedi dietro al suo scranno regale vigilavano sulla sua incolumità. I soldati bloccarono la ragazza che piangeva e scrollava il capo, gridando: Assassino, spergiuro!. Ennio sorrise e si guardò intorno. La costernazione era generale.

    Vedete? Ha lo stesso odio di sua madre. Questo devo sopportare da troppi anni in casa mia! E questo conferma le mie parole, se ce ne fosse stato bisogno! sottolineò con forza. Poi con un cenno del capo ordinò di portare via la

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