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Fuga da Kotelnyi
Fuga da Kotelnyi
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Fuga da Kotelnyi

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About this ebook

Anni Sessanta, Guerra Fredda. A Kotelnyi, un'isola del Mar Glaciale Artico, territorio dell'Unione Sovietica, un esperto in missilistica decide di fuggire in Occidente. Tenterà un rischioso volo sopra la banchisa polare fino a Thule, in Groenlandia. Ha deciso di chiedere asilo agli Stati Uniti o al Canadà e porta con sé la formula di un rivoluzionario propellente solido per razzi. Ma è davvero un disertore o è agli ordini del KGB e sta compiendo un tentativo d'infiltrazione?
LanguageItaliano
Release dateSep 18, 2017
ISBN9788826493121
Fuga da Kotelnyi

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    Fuga da Kotelnyi - Giorgio Ressel

    Giorgio Ressel

    Fuga da Kotelnyi

    Romanzo

    Tutti i contenuti di quest'opera sono protetti

    dalla Legge sul diritto d'autore

    Fuga da Kotelnyi

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi

    citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di

    conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia

    con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è

    assolutamente casuale.

    1. B-52 Stratofortress

    «In realtà controllare questo bestione è assai meno complesso di quel che può sembrare a prima vista.»

    Un sorriso bonario si allargò sul viso del maggiore Danny Markham e Ross Jellicoe, agente del SIS britannico, pensò che quel discorsetto doveva averlo fatto fin troppe volte ai suoi passeggeri occasionali. Doveva essere il sistema che usava per metterli a loro agio, e adesso era il suo turno. Ma le lunghe file di strumenti circolari, le serie di interruttori e di manette, i quadranti e gli schermi verdastri dei due tubi catodici davanti al pilota e al suo vice sembravano smentire clamorosamente le parole del comandante riguardo la semplicità.

    «Basta ricordare che abbiamo otto motori da tenere d’occhio, e in molti casi gli stessi indicatori e gli stessi comandi si ripetono altrettante volte. Per esempio» Markham sollevò una mano verso il lucido pannello centrale di metallo «osservi questa sezione: ci sono otto colonne di strumenti che ci informano sul funzionamento dei motori. Nella prima fila ci sono i quadranti che danno il rapporto di pressione tra la presa d’aria e lo scarico; sotto ci sono i contagiri; poi gli indicatori della temperatura dei gas di scarico; e nell’ultima fila i flussometri.»

    Poi il maggiore abbassò la mano sulla piantana centrale.

    «Queste otto leve sono le manette, e ognuna regola la potenza di un motore.»

    Jellicoe si sforzò di mostrarsi interessato, anche se la sua mente era tutta impegnata a definire gli ultimi particolari della missione che doveva compiere.

    «Quei due monitor verdastri come vengono utilizzati?» domandò, tanto per mostrare un certo interesse.

    «Quelli sono gli schermi del sistema di visualizzazione elettro-ottica.»

    Ross rivolse a Markham un’occhiata educatamente perplessa.

    «Forse venendo a bordo ha notato due torrette con delle finestrelle sporgere poco sotto il muso dell’aereo. A sinistra c’è quella del visore all’infrarosso, a destra quella della telecamera mobile. Le sigle... be’, gliele risparmio. Comunque, i monitor li usiamo per far comparire le immagini del paesaggio; sia in modalità ottica, sia termica. Servono soprattutto quando voliamo a bassissima quota per sfuggire ai radar. Ma naturalmente sono solo un ausilio alla navigazione; abbiamo molti altri strumenti a disposizione.»

    «Davvero?»

    Jellicoe fece del suo meglio per soffocare uno sbadiglio, ma il maggiore non sembrò accorgersene e proseguì col tono preciso e meccanico della guida di un museo.

    «Ci sono due bussole magnetiche che, tra parentesi, dove stiamo andando non serviranno a molto; tre bussole giroscopiche; e un radar di precisione, proprio nel muso, che ci permette di stabilire la nostra posizione utilizzando dei riferimenti a terra. E poi, per sicurezza ulteriore, c’è il calcolatore che fornisce il punto stimato, in latitudine e longitudine. I dati appaiono su due quadranti che si aggiornano col movimento dell’aereo. Le variazioni magnetiche e la deriva dovuta al vento vengono compensate automaticamente.»

    Il Boeing B-52 era decollato dalla base britannica di Brize-Norton due ore prima in direzione di Thule, in Groenlandia. Poi Jellicoe, insieme con lo scienziato disertore e uno o due agenti della CIA, avrebbe raggiunto in elicottero Camp Century, che distava 240 km da Thule.

    Nelle vicinanze dell'Islanda, Ross aveva domandato: «Atterreremo a Keflavik?»

    «No, faremo rifornimento in volo da uno Stratotanker. Un KC-135. Così risparmiamo tempo: sopra l’aeroporto c’è un bel po’ di traffico in questo momento» aveva risposto Markham.

    Superato lo stretto di Danimarca, avevano raggiunto la costa sud-est della Groenlandia in un'ora e quindi avevano puntato su Jakobshavn, una cittadina sulla costa occidentale nella baia di Disko. Da lì, seguendo la tormentata linea costiera, si erano diretti a nord-ovest verso Thule.

    Il cielo blu scuro era appena soffuso di una luce rosata. A livello del terreno era notte fonda, eppure non erano neanche le tre del pomeriggio. L’aria era limpida, tersa. Strisce azzurre, verdi e rosa attraversavano il cielo incrociandosi con striature di un rosso acceso. Stavano sorvolando una delle zone più desolate e selvagge della Groenlandia e dopo Jakobshavn non avevano più scorto neanche una debole luce.

    «Incrostazioni di ghiaccio sulle ali, comandante.»

    Jellicoe si meravigliò di sentire la voce del copilota nell’interfono così calma e distaccata, come se si fossero trovati nel simulatore di volo invece che sopra l’Artide.

    «Ancora! L’avevano aggiustato un paio di settimane fa.»

    «Sì, un paio di settimane... Sembra che non ce la faccia più a sciogliere il ghiaccio. Adesso siamo a 9700 metri. Scendiamo?»

    «Navigatore, abbiamo ostacoli sotto di noi?»

    «No, signore. Siamo sulla verticale della linea di costa. Abbiamo appena superato la baia di Melville e attualmente stiamo sorvolando la penisola di Hayes. L’altitudine a terra è al massimo di un centinaio di metri.»

    «Distanza da Thule?»

    «180 chilometri.»

    «Navigatore radar?»

    «Gli strumenti confermano, signore.»

    Gradualmente, il pesante bombardiere scese fino a raggiungere la quota di 300 metri e la velocità venne ridotta a 450 chilometri l’ora. A Markham non piaceva apportare correzioni al piano di volo, ma non c’era altro da fare.

    Adesso il volo sarebbe stato assai meno confortevole. Il B-52, che era stato progettato per volare a quindicimila e più metri, a bassa quota diventava maledettamente instabile. Ci sarebbero stati scossoni continui, più o meno come se avessero volato dentro un fronte temporalesco.

    Grazie alle variazioni di quota e velocità, la temperatura esterna si alzò di diciotto gradi e il congegno per lo sbrinamento delle ali cominciò a funzionare decisamente meglio. Il secondo pilota si dette da fare alla radio per comunicare con Thule, ma tutte le frequenze disponibili erano state invase da un rumore fastidioso, forte e costante. Era come lo sfrigolio di una bistecca nella padella, e a ogni cambio di frequenza la radio lanciava decise proteste sotto forma di fischi acutissimi. Dopo numerosi tentativi Chuck rinunciò. Il comandante gli lanciò una breve occhiata.

    «Ci mancava anche la dannata aurora boreale!»

    «Blackout completo delle trasmissioni. Quegli accidenti degli spiriti eschimesi con le loro torce stanno di nuovo guidando le anime dei defunti in paradiso!»

    Un sorriso tirato si allargò sul viso dei componenti l’equipaggio, ma nessuno rise. La luce rossastra degli strumenti dava alla pelle un aspetto inquietante.

    «C’è una nuvola di puntini sullo schermo radar, signore.» Il navigatore radar osservava intento lo schermo luminoso. «Sembrano immobili.»

    «ECM, che ne dici?»

    L’operatore addetto alle contromisure elettroniche scosse la testa: parevano proprio dei radio-disturbi.

    «Chuck, cosa indica il FLIR?»

    Il copilota attivò sul suo monitor EVS il visore a raggi infrarossi.

    «Si vede solo una strisciolina chiara su un fondo omogeneo, molto scuro. Forse si tratta solo di uno strato d’aria più caldo della massa circostante.»

    «Che viene da dove?»

    «Non lo so. Forse dei geyser, come in Islanda.» 

    Markham non era convinto.

    «Mai sentito parlare di geyser da queste parti. Be’, al diavolo l’aurora! Ci ha mandato a puttane anche il radar.»

    «Spettacoli mozzafiato, questi serpentoni di luce... ma danno un sacco di guai» disse il comandante, rivolto a Jellicoe.

    Ross cominciò a sentire un formicolio alle mani. L’equipaggio pareva tranquillo. Probabilmente si erano trovati ad affrontare problemi di questo genere chissà quante volte, ma per lui era tutto nuovo e piuttosto preoccupante. Non era come volare su un Comet o un Boeing da Londra a New York.

    All’improvviso, davanti al finestrino del comandante apparve un’ombra. Un attimo dopo, un rumore sordo e cupo come un tonfo, che fece vibrare i vetri. Qualcosa si era infranto sul vetro centrale blindato ed era scomparso subito dopo. Metà del cristallo era stata coperta da un liquido rosso che era gelato quasi all’istante. Subito dopo si era avuta una lunga sequenza di colpi sordi alla semiala destra.

    Il secondo pilota, che stava ancora studiando il visore all’infrarosso, alzò di scatto la testa.

    «Che diavolo succede, Danny?»

    «Dei maledetti uccelli! Ci siamo capitati in mezzo. Sono almeno due stormi. Maledizione, che ci fanno qui? Dovrebbero essere già migrati a sud da settimane!» 

    «Cristo! Sono delle sterne artiche, mi pare. Oppure oche delle nevi... Come hanno fatto a sbatterci contro? Abbiamo tutte le luci di navigazione accese e riempiamo l’aria col boato dei jet!»

    L’aereo cominciò a vibrare con violenza; poco dopo ci fu uno scoppio. Ma stavolta fu ben diverso dai tonfi precedenti. Delle lunghe fiammate gialle uscirono dalla semiala destra, circa a metà altezza.

    «Fuoco ai motori 5 e 6!»

    La voce del secondo pilota uscì strozzata.

    «Ho visto. Quelle dannate sterne devono aver fracassato le palette dei turbogetti. Hai azionato gli estintori?»

    «Non funzionano. Le palette devono essere volate in tutte le direzioni e probabilmente hanno tagliato i tubi degli estintori e i condotti del kerosene. Devono aver danneggiato anche le pompe idrauliche e i generatori di corrente. Le fiamme aumentano, Danny. Stanno fondendo i supporti dei motori...»

    In quell’istante la gondola numero tre, che conteneva i due motori gemelli Pratt & Whitney si staccò. Per reazione, la semiala destra si alzò di diversi metri, facendo rollare l’aereo. Markham girò il volantino di comando e i sette spoiler della semiala si estesero, facendola riabbassare. Intanto il fuoco si era esteso al resto della semiala e anche i motori 7 e 8 si erano incendiati. Ora le fiamme stavano lambendo il serbatoio supplementare, fissato quasi all’estremità della semiala.

    «Equipaggio, tento un atterraggio di fortuna. Siamo troppo bassi per usare i seggiolini a espulsione del ponte inferiore.»

    Sul B-52, nato come bombardiere ad alta quota, i seggiolini dei due navigatori erano stati progettati per l’espulsione verso il basso.

    «Navigatore, che tipo di terreno abbiamo sotto di noi?» 

    Comparve sul monitor il paesaggio ripreso dalla telecamera orientabile. Il navigatore aveva fatto una panoramica completa da quaranticinque gradi a sinistra a quarantacinque a destra.

    «Stiamo per arrivare all’inizio di un lungo tratto quasi orizzontale, proprio davanti a noi. Leggerissima pendenza in salita: cinque o sei gradi, direi.» 

    «Ci servono cinque chilometri, almeno. Ce la facciamo?»

    «Appena appena. In fondo ci sono dei rilievi. Piuttosto alti.»

    «Okay. Chuck, cosa vedi al FLIR? Ghiaccio compatto o neve?»

    «Neve fresca. La superficie appare più chiara.»

    «Atterriamo sulla pancia. Speriamo che non ci siamo rocce sporgenti.  Ross, sono allacciate le sue cinture?»

    «Sì.»

    «Allora, si tenga stretto.»

    Markham mise il B-52 in assetto piatto, col muso appena inclinato verso il basso, e abbassò i flaps lottando per tenere sollevata la semiala destra. Il copilota si occupava intanto di regolare la potenza dei quattro motori rimasti. L’aereo fece una leggera virata a destra e inboccò una valletta fiancheggiata da entrambi i lati da collinette rocciose coperte di neve e ghiaccio. Doveva essere il letto di un ghiacciaio che scendeva fino al mare e dal quale, a primavera, si sarebbero staccati gli iceberg. Quegli enormi cubetti di ghiaccio sarebbero andati alla deriva verso sud.

    Il ventre dell’apparecchio era a pochi metri dal suolo. L’oscurità era quasi completa. I fari di atterraggio, che erano incorporati nei portelli di chiusura del vano carrello anteriore, sarebbero stati inutilizzabili. Markham sollevò appena il muso per mettersi in linea col terreno. L’aereo scese ancora. Adesso le fiamme avevano circondato completamente la semiala. Toccarono terra. L’impatto fu duro e fece risollevare l’aereo di qualche metro. La velocità era di 160 chilometri all’ora.

    Il B-52 toccò di nuovo terra, più debolmente. L’imponente bombardiere si stava comportando come un sasso piatto che rimbalza su uno specchio d’acqua. Ma stavolta si squilibrò e la semiala destra sbatté violentemente contro una montagnola di neve compatta. Si udì uno stridio impressionante e poi un rombo tremendo di ferraglia. La semiala si staccò di netto dal corpo dell’apparecchio.

    L’aereo ruotò dal lato opposto, frenato dai motori e dal serbatoio supplementare dell’altra semiala che strisciavano sulla neve dura, e proseguì la corsa avanzando diagonalmente. Qualche istante dopo, esplose il carburante contenuto nella semiala che si era staccata, ma ormai il B-52 era abbastanza distante da non subirne alcun effetto. 

    L’aereo aveva rallentato appena e sembrava che si sarebbe arrestato solo dopo essersi fracassato contro la barriera di roccia in fondo alla valletta. Si stava avvicinando rapidamente al termine della sua corsa e sbatteva contro cumuli di ghiaccio e qualche roccia affiorante in mezzo alla neve. Gli scuotimenti erano forti e continui, e si sentiva la lamiera del ventre dell'aereo stridere e spaccarsi. Markham espulse il paracadute frenante di coda. Ma il freddo era troppo intenso per il tessuto: i cavi di nailon si ingarbugliarono e non riuscirono a estendersi completamente.

    Sfiorando il terreno, l’ombrello semiaperto raccolse la neve fresca come un gigantesco sacco. Alcuni cavi si strapparono e il tessuto si sfilacciò, ma l’azione frenante ebbe il suo effetto. Il B-52 rallentò sempre più; una montagnola di neve si accumulò davanti al muso, frenando ulteriormente la sua corsa; e infine, a sei metri dalle rocce, l’apparecchio si arrestò.

    2. Coesistenza pacifica?

    Tre giorni prima Ross Jellicoe aveva avuto un lungo colloquio con C, l'ammiraglio McKinnock capo del SIS.

    Le ferite al braccio sinistro infertegli dai Dobermann nell’ultima missione in Giamaica erano guarite: gli ortopedici avevano compiuto un ottimo lavoro con ulna e radio, che si erano saldati perfettamente. Ma le profonde lacerazioni ai muscoli avevano faticato a rimarginarsi; più di quanto ci si sarebbe aspettati. E ogni tanto delle acute fitte di dolore lo colpivano al braccio, specialmente al mattino appena sveglio o quando distrattamente lo sforzava più del dovuto. Erano come delle forti scosse elettriche. La convalescenza si era prolungata per quasi quattro mesi.

    Ai primi di ottobre era arcistufo di starsene a casa, tanto più che non poteva neanche dedicarsi al golf. Il tipo di sforzo imposto alle braccia da questo sport - gli era stato detto - non era consigliabile per uno che aveva subito le sue lesioni. Molto meglio il nuoto e una ginnastica leggera. Ma Jellicoe si annoiava a nuotare e ancor più a fare ginnastica. Come paziente non era affatto scrupoloso, doveva ammetterlo. Allo scadere dell’ultimo mese di malattia si era presentato dal medico deciso a rientrare in servizio.

    Con la faccia tosta di chi non ammette ostacoli, aveva assicurato di non sentire più alcun dolore al braccio e aveva aggiunto che, per quanto poteva giudicare, la funzionalità era ritornata del tutto normale. Il medico aveva squadrato Ross per un bel po’, non nascondendo la sua perplessità e Jellicoe si era chiesto se non sarebbe stato condannato a un altro mese di insopportabile ozio. Ma l’occhiata torva, che aveva lanciato allo specialista, aveva convinto il medico a dichiararlo abile. Le conseguenze psicologiche di una prolungata inattività - aveva concluso il dottore - potevano essere più deleterie di un ritorno al lavoro leggermente anticipato.

    Alcuni giorni dopo, Jellicoe aveva finalmente ripreso possesso del suo ufficio. In breve tempo, con sorprendente energia e laboriosità, si era fatto felicemente invischiare nella routine dell’orario, dei rapporti quotidiani, del menu della mensa a rotazione settimanale, e delle chiacchiere dei colleghi.

    Perfino gli aridi rapporti della NATO, con gli specchietti aggiornati sulle forze del Patto di Varsavia, riusciva a leggerli con autentico interesse: tot obici, tot cannoni, tot carri armati, tot divisioni corazzate, tot divisioni motorizzate, tot

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