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Altrove
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Altrove

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Una storia viva, densa, surreale e screziata di sogno che avvince dalla prima all’ultima pagina. Un ininterrotto cambio di battute tra dimensione reale ed onirica che coinvolge al punto da non sapere più in quale delle due ci troviamo, impegnati a seguire le vicende di personaggi troppo concreti per appartenere ad un mondo fantastico e troppo magici per appartenere a quello terreno. Ma dove sta realmente il confine tra sogno e realtà? Quali sono i limiti che l’amore non può permettersi di valicare? E a quale prezzo, ammesso che possa, si trova costretto a farlo? Le vite si intrecciano attraverso il tempo in spirali colorate, sulle note dei Grandi del Rock, mentre sogni e incubi prendono corpo e consistenza in una Firenze velata di magia che ognuno riconosce come propria.
E niente è ciò che sembra, ma tutto può esserlo... basta volerlo intensamente con il cuore.
Una grande storia per l’opera prima di Davide Mannucci, che si propone al pubblico con la graffiante dolcezza di una prosa ipnotica ed avvincente.
LanguageItaliano
Release dateSep 22, 2017
ISBN9788885725072
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    Book preview

    Altrove - Davide Mannucci

    La Signoria Editore

    Davide Mannucci

    ALTROVE

    La Signoria Editore

    Firenze

    ©2017 Italia Stargate srls

    Edizione elettronica: settembre 2017

    ISBN 9788885725072

    Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'inventiva dell'autore e vengono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o defunte, fatti o luoghi è assolutamente casuale.

    Progetto grafico: ©Fabio Gimignani

    www.lasignoriaeditore.it

    info@lasignoriaeditore.it

    ALTROVE

    Scrivere altrove,

    con la parte migliore di me.

    … il mio sogno realizzato.

    1

    L’uomo che scrive ha terminato la sua storia e raccoglie le sue cose per ordinarle e renderle idonee al passaggio successivo. Ogni volta che termina l’ultima stesura di un manoscritto, salva tutto sul minidisk, sorridendo al pensiero delle antiche chiavette USB, cancella tutto dal PC, dagli archivi remoti e chiude il manoscritto stampato in una busta bianca, scrivendoci il titolo sopra con un pennarello rosso. Il rito prevede questo tutte le volte e, anche adesso, l’uomo che scrive intende percorrere la stessa strada, prima di veder nascere l’ultima sua creatura.

    Prima di prendere il giubbotto, nota la busta che un’ora prima ha trovato nella vecchia cassetta della posta. Ormai conosce solo una persona che manda lettere cartacee.

    La sua calligrafia è inconfondibile.

    L’uomo che scrive apre la busta e si immerge, sedendosi sul bordo del letto, nel mondo che quelle parole riescono ogni volta a creare.

    7 Aprile 2060

    Amico mio,

    spero ti sia arrivata l’ultima busta che conteneva tutte le istruzioni che vorrei tu seguissi alla lettera. In realtà questo altro non è che un atto di profonda gratitudine e devozione nei tuoi confronti.

    Non avrei mai potuto godere a pieno della vita che ho avuto se tu non ne avessi fatto parte. Questa non è una lettera ruffiana o un atto dovuto per tutto quello che hai fatto per me. E’ il mio saluto a una persona che ho amato con tutto me stesso.

    L’amicizia vissuta come l’abbiamo vissuta noi, con passione, tenacia, leggerezza e consapevolezza di essere unici al mondo, credo non abbia rivali, fatta eccezione per l’incredibile storia che tu hai contribuito a farmi vivere.

    Ti sto salutando perché credo di non avere più niente da raccontare; quel che lascio sono pagine piene di me, storie di sentimenti, sogni, lotte e difficoltà. Ti affido la storia della mia vita e spero davvero tu possa perdonarmi se ti escludo da quella che temo sia l’inizio dell’ultima tappa di questo fantastico giro che è la vita.

    Ti escludo perché non voglio vedere la tua fine e non voglio che tu veda la mia.

    Non sono scorretto, lo sai? In questo do un’ulteriore dimostrazione della coerenza che negli ultimi anni sono riuscito a conquistare o, per meglio dire, a tirar fuori. Sai di cosa sto parlando, vero?

    Ricordi quel giorno sul muretto in cima alle scale che dal corridoio della scuola portavano al cortile? Avevamo sette anni e facevamo la seconda elementare. Stavamo guardando gli altri giocare a calcio, seduti e arrabbiati perché il maestro ci aveva messi in punizione.

    Tu avevi preso in giro Shigeo, l’antipatico bambino giapponese che da poche settimane si era trasferito a Firenze, e lui si era fatto giustizia prendendoti a calci per poi scappare all’arrivo del maestro.

    Ma io cosa c’entravo? Beh, io ero tuo amico e se tu eri in punizione allora quella doveva essere anche cosa mia. Avevo guardato il maestro con rabbia e gli avevo urlato «tu difendi i giapponesi!» Il risultato era su quel muretto: due bambini tristi, arrabbiati ma più amici che mai.

    Quella volta tu, mentre auguravi a Shigeo cose inenarrabili, mi parlasti della morte.

    Cominciasti a raccontare della morte dei tuoi e di quanto ti mancassero. Poi, guardandomi con quegli occhi grandi e con il taglio più buono che abbia mai visto, mi dicesti «Io e te non moriremo mai perché quando tu muori non voglio esserci e quando io morirò tu non devi esserci.»

    «E se muori quando sei con me?».

    Tu mi guardasti perplesso, come se non avessi pensato a quell’opportunità poi, con naturalezza, mi dicesti «Tu chiudi gli occhi».

    Ed eccomi qua amico mio, a mantenere la promessa, ad esaudire il tuo desiderio.

    Sono stati ottant’anni meravigliosi quelli passati con te. Sono un uomo felice. Ho avuto una donna che mi ha completato, ho la consapevolezza di aver raggiunto la felicità e un amico che ha colorato la mia vita sempre, anche quando avere a che fare con me significava donare tempo, energia e risorse. Io ti saluto con profonda gratitudine per tutto quello che hai fatto per me. Tuttavia sai che per essere un uomo completo mi manca ancora una cosa. Hai conservato il segreto con me fino a oggi, sei stato fedele e corretto e io voglio ricambiare in qualche modo. Vorrei che il mio sogno diventasse concreto nella vita delle persone che amo e tu puoi aiutarmi. Tu adesso hai le capacità e i mezzi per dare un senso a tutte le storie che questo vecchio sognatore ti ha affidato. Che dire amico? Non ci vedremo più? Credo di no ma la vita ci ha dimostrato di essere così sorprendente da non poter mettere davvero la mano sul fuoco e non sapere cosa succederà.

    Scrivi amico mio, sogna e scrivi ancora e tutto andrà al suo posto. Ogni momento vissuto tornerà a vivere in chi farà tesoro delle mie parole diventate tue.

    La tua amicizia nella mia

    Filippo

    L’uomo che scrive alza gli occhi dal foglio appena letto. Lo ripiega e sente una lacrima percorrere la guancia piena. Sa quello che deve fare. Lo ha sempre saputo.

    Si alza, mette la busta grande bianca col manoscritto e l’altra gialla nella borsa e si avvia verso la porta.

    Ha un attimo di esitazione, si volta per contemplare la solitudine della penombra da cui è avvolta l’unica stanza in cui vive. Poi apre la porta, esce e se la richiude distrattamente alle spalle.

    2

    Spensi il motore dell’auto un secondo dopo aver avvertito l’impatto; seguirono attimi di silenzio mescolati al rumore della pioggia che continuava a cadere incessante, senza curarsi del corpo che volava verso il muretto che separava il marciapiede dal parcheggio di una piccola farmacia. Scesi dall’auto subito dopo l’attimo in cui quel bizzarro e tragico volo si era fermato, sottolineato da un tonfo lontano, ovattato, come se l’impatto col suolo e il rumore prodotto fossero due entità che non si appartenevano. Fissai quel corpo inerme, senza sapere cosa fare. Ricordo che pensai a quanto avessi desiderato, poco meno di due ore prima, di restare a letto e darmi malato al lavoro.

    Mi ero svegliato nervoso, con sensazioni sinistre che mi provocavano un malessere generale ma non ben definito. Il nervosismo si era protratto fino al momento in cui ero uscito sbuffando e tirandomi dietro la porta con violenza esagerata.

    Uscire sbattendo la porta è una cosa che mi ha sempre messo a disagio ma non sono riuscito ancora a farne a meno. Quando mi capita di litigare o dover manifestare disappunto a qualcuno, me ne vado stizzito a metà discussione e mi trascino dietro la porta che va però a fermarsi e a sbattere bruscamente tra me e l’allibito interlocutore del momento. La mamma mi ha sempre definito difficile e con un carattere tremendo, diceva proprio così. Un carattere che mi ha sempre messo in difficoltà, perché l’ira mi provoca un calo netto della lucidità ed essere poco lucido mi mette spesso nei guai.

    E anche oggi che sono il sempre disponibile professor Francesco Grimaldi, insegnante amato per la sua mitezza e la sua inesauribile pazienza, conservo quel lato irascibile del carattere che appare ogni volta come una nota caduta a caso tra le righe dello spartito di una melodia lineare e schematica.

    Ero salito in macchina già con chissà quanti e quali demoni che girovagavano di capello in capello e ne ero uscito ancora più stressato e vicino al livello di guardia di un’arrabbiatura sempre più crescente.

    Ero arrabbiato per l'ennesima discussione con Silvia e per non essere stato capace, neanche in quell'occasione, di mostrarmi come ero realmente, cioè stanco, saturo e deciso a porre fine a una relazione che si trascinava ormai da quasi dodici anni, più per dovere che per un reale bisogno di stare insieme e costruire ancora qualcosa per cui poter essere felici di avere l'altro accanto a sé.

    La pioggia non sembrava voler diminuire, la visibilità era sempre più scarsa e il rischio di entrare a far parte della statistica riguardante gli incidenti automobilistici sulla strada di Rosano si faceva pericolosamente più concreto. «Fallo col culo se ti riesce» mormorai in risposta al lungo colpo di clacson che l'auto che mi aveva appena sfiorato in curva – sarebbe stato proprio un bel frontale – stava lasciando dietro di sè mentre dallo specchietto retrovisore constatavo che si stava prodigando in altri sorpassi da fenomeno. Le mie deboli parole si mescolarono con quelle più concitate e piene d'ansia del direttore di RTL 102.5 il quale mi consegnò una tragica notizia: una scossa di terremoto di magnitudo 6.5 aveva devastato il centro Italia. Mentre io e la mia futura ex signora litigavamo e registravo l'ennesimo «uomo senza palle» e il solito «cresci un po'», la terra tremava, fregandosene di quanto mi sentissi in gabbia, passando oltre alle mie decisioni drastiche che aspettavano soltanto di essere vomitate.

    La terra scuoteva tutto, senza pensare ai progetti che mi riempivano cuore e giornate.

    Il terremoto, uno scuotere improvviso in una giornata ordinariamente normale; un petardo in biblioteca, un cane che abbaia durante la Messa. Qualcosa che destabilizza completamente l'ordine normale delle cose. Pensavo a quanto io fossi ordinario e normale, anche nelle giornate schizofreniche come quelle in cui tutto sembrava voler sovvertire ogni cosa, come se davvero quella fosse una giornata da temere, da cui scappare. In realtà anche quella era come tutte le altre. Neanche le difficoltà che si possono incontrare già appena usciti da casa, compresa tutta l’acqua che avevo preso mentre correvo verso la macchina potevano dare a quella giornata connotati straordinari e sovversivi. Ma il terremoto lo era eccome. Sovvertiva tutto, progetti, saluti, litigi, noie e tran tran quotidiani. Pensavo al caos che doveva esserci in quel momento nelle zone colpite dal sisma.

    Una volta la nonna mi aveva dettagliatamente raccontato la sua esperienza nel 2009, quando era infermiera in un ospedale de L’Aquila e il terremoto era arrivato a devastare la normalità e la vita di migliaia di persone. Pensavo a quello e mi venne in mente improvvisamente che la mia vita avrebbe potuto essere sconvolta come quella di quei poveracci, qualche attimo prima, quando il demente che guidava la BMW bianca che mi aveva scansato per pochi centimetri, avrebbe potuto rovinarmi per sempre la vita, se non metterci un punto, calare il sipario. La noia e la paura. Queste erano le coriste che scandivano il sottofondo della colonna sonora della mia vita. Mi annoiavo perché sapevo di condurre una vita completamente diversa da quella che avrei voluto e vivevo nel terrore che accadesse qualcosa che mi togliesse la possibilità di uscire da quel grigiore. Noia e paura.

    Mi annoiavo ma avevo paura di uscire da quella noia.

    Nella mia testa si accavallavano e alternavano pensieri di ogni tipo, discordanti e contraddittori tra di loro. La miscela di voci, rumori, musica e pioggia battente formava una patina che diventava sempre più consistente, fino a formare una calotta, una barriera che mi separava dal mondo esterno. Le auto davanti a me e quelle che venivano dalla parte opposta, sembravano far parte di una scena di cui io non ero neanche la comparsa. Sapevo di essere alla guida e di essere vicino alla scuola, di essere quasi arrivato ma era come se la mia mente, spinta da una volontà più forte di tutto, volesse suggerirmi altro, come se sapesse che la mia giornata doveva prendere un’altra direzione. La mia volontà non mi appariva più governabile in quel momento.

    Ogni avvenimento che finora aveva caratterizzato quelle poche ore da quando mi ero svegliato, pareva aver dato l’inizio a una reazione a catena che non intendeva fermarsi. Non provavo quella sensazione da molto tempo.

    Quando quel malessere fece la sua comparsa qualche anno fa, le prime volte provavo paura, perché temevo si trattasse di veri e propri attacchi di panico o, peggio ancora, dell’inizio di un disturbo della personalità. In seguito imparai a riconoscerlo e a conviverci. Divenne sempre più semplice gestirlo e, sfruttando tecniche di controllo delle proprie sensazioni, molto simili agli esercizi di training autogeno imparati da Luca, riportarla indietro e riprendere la guida del proprio corpo, della mente e soprattutto della volontà.

    Quella volta però era diverso, non ero in grado di riappropriarmi delle voci, dei rumori e del controllo di tutti i normali eventi che caratterizzavano in quel momento l’inizio di una giornata lavorativa. Era come se stessi prendendo consapevolezza di essere arrivato a un punto di non ritorno. Luca, parlando di sensazioni simili, diceva che dovevamo essere capaci di sfruttarle per prendere le decisioni che in circostanze normali non avremmo mai saputo né potuto prendere. Lo chiamava il malessere del risveglio.

    Mentre dalla radio riuscivo a riconoscere la voce di George C. Donovan, l’uomo che avrebbe potuto fermare una guerra con la bellezza che riusciva a produrre con le sue corde vocali, pensai al mio amico avvocato e a quanto avrei voluto averlo accanto in quel momento. Luca riusciva sempre a calmarmi, in un modo o nell’altro. Cercai il telefono per chiamarlo ma mi ricordai che la sera prima mi aveva parlato di un’udienza importante legata a una causa che avrebbe potuto cambiargli la vita; «o ne esco ricco o scappo all’estero sotto mentite spoglie» aveva chiosato prima di salutarmi.

    Luca era da sempre con me, l’amico di una vita. Avevamo cinque anni quando mi ero accorto per la prima volta di lui. Ricordo che mi ero avvicinato attratto dal suo giocattolo. Era un robot bianco, smontabile, unito alle giunture da calamite. Era evidente che si trattava di un giocattolo d’altri tempi. Gli chiesi cosa fosse e lui, squadrandomi per qualche secondo, guardò il robot, tenendolo con fierezza e soddisfazione e mi disse «questo è Jeeg robot d’acciaio, è un gioco vecchio del nonno».

    Lo guardai incuriosito e rimasi qualche minuto a osservare la delicatezza con la quale maneggiava il prezioso oggetto. «Giochi con me, ti va?» mi disse improvvisamente con la naturalezza e la spontaneità che mi avrebbero trattenuto con lui per i successivi trent’anni. Luca che avrebbe conservato quel sorriso, quella semplicità e quella naturale inclinazione a dare tutto per gli amici; Luca che ci sarebbe stato sempre e che non avrebbe mai più smesso, da allora, di giocare con me, ridere, piangere, arrabbiarsi, andarsene e tornare. Anche quando Susanna, l’amore della sua vita, se ne andò improvvisamente, lui non smise mai di esserci.

    La mancanza del mio migliore amico si faceva sempre più viva e sentivo che il malessere, che mi stava sempre più avvolgendo, non mi avrebbe lasciato troppo facilmente. Ormai la radio trasmetteva note e parole senza la pretesa di arrivare a me. Era come se il mio corpo, insieme a ogni cellula, ogni terminazione nervosa e tutti i suoi organi, fosse riuscito a ovattare tutto quello che mi stava capitando intorno. Dove sto andando? Mi chiedevo mentre mi scoprii a cercare con lo sguardo una strada di cui conoscevo l’esistenza. Si era affacciata nella mia mente mentre si faceva sempre più limpido il desiderio di spezzare quella giornata con qualcosa di drastico, di netto. Stavo male in quel momento e allora perché non verificare se davvero, come diceva Luca, quello si trattava del famigerato malessere del risveglio?

    Mi sorpresi ad alzare il volume e ad accompagnare a voce alta e sguaiata un successo di quasi ottant’anni prima; «Baby I’m gonna leave you» dei Led Zeppelin, il gruppo che il nonno adorava e che di tanto in tanto mi faceva ascoltare con annessi aneddoti di concerti o serate speciali tra amici, raccomandandomi però di non dire niente a mia madre. Il nonno, Filippo Girolami, il mio eroe. Lo cercavo spesso, soprattutto nei momenti importanti della mia vita, belli o brutti che fossero. Non avevo avuto l’opportunità di averlo con me per tanto tempo ma mi era rimasto addosso e le sue parole, il suo buffo modo di starnutire, la sua pazienza nell’ascoltare, accompagnata dal sorriso di chi non vuole far altro che accoglierti, erano tatuate sulla pelle dei miei ricordi più vivi. L’ultima volta che avevo avuto sue notizie era il giorno dopo il mio diciannovesimo compleanno. Erano ormai quasi dieci anni che se n’era andato ma una volta al mese, puntualmente, ricevevo una lettera in cui mi raccontava molte cose, mi diceva come stava, quanti chili aveva preso o perso, quale libro stesse leggendo o che film avesse visto di recente. Poi, con la sua solita e naturale propensione alla narrativa, cominciava a raccontare storie pescate nella memoria della sua gioventù.

    Ricordo che notavo chiaramente come stesse attento a non fare alcun cenno su dove si trovasse, quasi a eliminare, dalle strutture delle frasi che scriveva, ogni particella, ogni articolo o preposizione che potesse innescare un processo di ricerca in chi stava leggendo.

    Il nonno se n’era andato e non era sua intenzione essere rintracciato. La mamma diceva sempre che se avessero voluto trovarlo, con i mezzi che c’erano, sarebbero stati in grado di farlo nel giro di poche ore, ma la volontà del nonno era quella e andava rispettata.

    Nelle mie risposte alle sue lettere non gli feci mai pressione e non gli chiesi mai dove si trovasse né perché se ne fosse andato. Riuscivo solo a restare affascinato dal suo modo di scrivere e dal fatto che usasse quel metodo così tradizionale, ormai antico di comunicazione. Il nonno era sempre stato un amante della tecnologia e in molte cose ne sapeva più dei miei genitori che avevano attraversato, come tutta la loro generazione, il tunnel della svolta tecnologica.

    Era però da sempre innamorato del cartaceo. Una lettera deve essere non solo letta ma accarezzata, abbracciata, annusata. Diceva così quando mi scrisse la prima volta dopo essersene andato. Non so come fece ma riuscì ad avere una vecchia casella di fermo posta e cominciò così il nostro scambio epistolare d’altri tempi. Eravamo nel 2041 ma di fatto, in quell’aspetto, stavamo vivendo gli anni ottanta del ventesimo secolo.

    Le sue lettere smisero di arrivare l’estate in cui conobbi Clara, l’unico grande rimpianto della mia vita. Ricordo ancora la lettera in cui descrissi al nonno quello che mi succedeva ogni volta che la vedevo o che parlavo con lei. La vecchia stilografica che il nonno mi aveva regalato il giorno in cui se ne andò, disegnava con grazia e delicatezza le parole che ancora palpitavano emozioni e sentimenti che solo con lei avevo provato finora.

    Mentre i Led Zeppelin riempivano l’abitacolo e squarciavano definitivamente la barriera di ovatta che mi opprimeva fino a poco tempo prima, le immagini di quell’estate del 2041 e dell’incontro con Clara si affacciavano nella mia mente, superando la cortina che a volte impedisce ai ricordi di riportarti indietro nel tempo.

    Stavo aspettando Luca all’entrata di scuola, il Liceo Leonardo da Vinci di Firenze, lo stesso dove sarei stato insegnante di Italiano e Latino tredici anni dopo. Era il giorno dei risultati della maturità e Luca mi aveva dato appuntamento davanti al parco che ci aveva tenuto compagnia in quei cinque anni di fatiche scolastiche.

    Come spesso accadeva, il mio amico si era presentato con mezz’ora di ritardo accompagnato da Susanna con cui faceva coppia fissa da un paio d’anni. Mentre cercavo le parole per mettere in imbarazzo Luca davanti a Susanna e vendicarmi così per avermi costretto ad aspettare, subendomi i racconti delle disavventure del professore di educazione fisica, che puntualmente alle 10 si faceva la sua corsettina intorno al parco, notai la presenza di una ragazza che poco dietro di loro li seguiva con passo lento e distratto. Ricordo di aver sperato in quel momento che fosse con loro, così da poterla conoscere ma nello stesso tempo pregai che non li conoscesse, perché in quel momento l’imbarazzo e la paura di fare una delle mie solite figuracce con una ragazza mi attorcigliava lo stomaco.

    L’insicurezza che spesso mi impediva di conseguire buoni risultati a scuola o nello sport, diventava esponenziale quando si trattava di sesso femminile. Avrei voluto avere la spigliatezza e la serenità di Luca il quale, sia che si trattasse di chiedere a una ragazza di uscire, che di intrattenere un gruppo di persone con barzellette e aneddoti d’ogni tipo, mostrava di essere sicuro e mai di trovarsi nel tremendo stato nel quale precipitavo io quando si trattava di relazionarsi con una ragazza.

    Sentivo che l’agitazione si faceva sempre più forte e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Aveva un’espressione seria ed annoiata ma mi colpì subito per la serenità e la simpatia che sapeva emanare. I miei occhi si muovevano al ritmo dei suoi passi, registrando la naturalezza con la quale si spostava. Ogni dettaglio che riuscii ad afferrare in quei pochi secondi sembrava far parte di un’armonia non comune.

    Ricordo che in quel momento ebbi la sensazione di trovarmi sulla scena di un romanzo del diciannovesimo secolo, quelli in cui ogni parola che compone la descrizione della bellezza femminile sembra la pennellata finale di un capolavoro.

    Tutto era equilibrato in lei. Potrei parlare di perfezione se questa non fosse ormai erroneamente riferita al concetto di bellezza suprema. Era perfetto l’equilibrio che ti catturava guardandola. L’esile figura, la sua statura contenuta, il viso leggermente allungato sormontato da lisci capelli neri raccolti in un improvvisato chignon e fermato con una matita blu, erano tutti elementi che trasudavano naturalezza ed armonia. Il cuore sembrò litigare improvvisamente con la bocca dello stomaco quando la vidi alzare gli occhi e buttarli per un attimo nei miei. Fu un momento breve ma ancora ne conservo il fermo immagine. Provai una strana ed insolita sensazione di affinità, di ingiustificata confidenza, come se conoscessi quel volto da molto tempo. Tutto di lei mi parlava di qualcosa di già visto. Era come se mi trovassi davanti a un dipinto finito e pronto per essere incorniciato, che altro non era che il compimento di una bozza che avevo visionato molto tempo prima.

    Aveva ancora un’espressione seria ma l’impressione era che avrei saputo disegnare il suo sorriso prima ancora che me lo mostrasse.

    Mi stavo perdendo dietro a tutte queste elucubrazioni mentali ed ero quasi spaventato da quanto stesse correndo la mia mente, quando il saluto di Luca irruppe in quella che ricordo come una delle più belle giornate della mia vita.

    «Fratello, non sono in ritardo, vero? E anche se lo sono, stavolta è colpa della mia donna. Ah, lei è Clara, la sorella di Susanna».

    Mentre pronunciava quelle parole si spostò di lato quel tanto che bastava per mostrarmi Clara. Ancora oggi faccio fatica a ricordare bene cosa risposi a Luca e le prime parole che rivolsi a lei.

    Ricordo perfettamente che tutti quei ricordi che mi avevano assalito in quel giorno di pioggia, mentre guidavo verso un’altra giornata fatta di spiegazioni, poesie da analizzare, interrogazioni e compiti da assegnare, avevano il potere di spingermi sempre di più verso la decisione che stava facendo capolino in fondo alla mia testa.

    Mentre Robert Plant terminava la sua esibizione alla radio, con il cuore che sembrava incoraggiarmi da quanto batteva e il sorriso di Clara ancora vivo nei recenti ricordi, presi con decisione a guardarmi intorno per individuare quella strada che sapevo essere più o meno all’altezza di dove mi trovavo in quel momento.

    Tutto era ormai chiaro nella mia mente; avrei individuato la strada che deviava verso le Gualchiere e mi sarei concesso un po’ di tempo per riposarmi, ritrovare l’equilibrio e dedicarmi a me, stare un po’ con Francesco. Chiamare me stesso per nome mi aiutava spesso, perché mi faceva sentire solidale con le mie emozioni, le mie paure. Ero sempre così inquadrato, almeno apparentemente, che ciò che davvero si nascondeva dentro di me temeva di uscire allo scoperto e deludere qualcuno o chissà quale circostanza od occasione.

    Prendere per mano Francesco e portarlo con me, quello era il mio intento quando decisi di svoltare a destra e prendere la strada che nel frattempo si era materializzata dopo quella che Luca chiamava la curva della morte in attesa.

    Luca aveva davvero un metodo tutto suo per affrontare certi argomenti. Secondo lui quella curva aveva visto così tanti morti nel corso degli anni, da diventare il luogo privilegiato in cui la signora con la falce in mano si accomodava in attesa di sferrare i suoi colpi.

    La fantasia del mio amico talvolta mi prendeva in contropiede, anche se riusciva sempre a strapparmi un sorriso. Anche quella volta, mentre imboccavo la strada che mi avrebbe strappato dalla cattedra e dai miei alunni almeno per un giorno, sorrisi pensando all’immagine di uno scheletro in veste nera e con una falce tra le mani che seguiva le auto che sfrecciavano, forse anche leggendo le targhe.

    Mi lasciai andare a una risata che coprì per un attimo la voce dello speaker alla radio, respirando tutta la libertà che imboccare quella stradina di campagna mi aveva procurato. Eppure si trattava di una strada che non mi avrebbe portato lontanissimo ma l’idea di raggiungere il prato che si estendeva davanti all’antico opificio, parcheggiare e dimenticarmi per qualche ora di tutto ciò che in quel momento mi procurava stati d’ansia e stress, mi dava la sensazione di essere davvero prossimo alla felicità.

    Ero ancora indeciso se chiamare o no la scuola per avvertirla che sarei rimasto a casa quel giorno, quando la dolce melodia che usciva dalle casse dell’automobile fu fagocitata dalle becere e aggressive fanfare che componevano la suoneria del mio telefono.

    Facendo attenzione a non finire fuori strada cercai il telefono che ricordavo di aver sistemato sul sedile del passeggero accanto a me. Dopo un’operazione anche troppo lunga, che rischiò per due volte di farmi terminare anzitempo la corsa verso la libertà, riuscii a trovare il cellulare e a rispondere. Il numero era sconosciuto, quindi non poteva essere che Michele Iannozzi, l’incubo di quasi tutto il corpo docente del Liceo. Solo lui usava ancora il numero sconosciuto per evitare che chiunque potesse avere il suo numero, come se tutti morissero dalla voglia di telefonargli. Era talmente paranoico, e ancora dopo cinque anni non avevo capito perché, che si ostinava a nascondere il numero anche quando telefonava a chi, come me, aveva il suo contatto in memoria.

    Il professor Iannozzi era il preside del Leonardo da Vinci ormai da cinque anni ed era considerato uno dei peggiori dirigenti scolastici degli ultimi cinquant’anni.

    Io non condividevo quell’opinione anche perché, oltre a stimarlo per le sue capacità organizzative e anche come insegnante, nutrivo per lui sentimenti di amicizia. Era un tipo difficile da gestire ma era il tipico esempio di cane a cui piace molto abbaiare ma incapace di far del male agli altri.

    E infatti non feci in tempo a pronunciare la parola «pronto» che subito il fiume Iannozzi riversò la sua piena di parole sul mio orecchio destro.

    «Francesco forse non ti sei ricordato che ti avevo chiesto di arrivare mezz’ora prima per accogliere la nuova insegnante di matematica.»

    «Michele oggi io non verrò a scuola.»

    «Non è il momento di scherzare professore, muovi il deretano e vieni qua che la tizia è già in sala professori. Tra l’altro dovresti davvero venire, ti perdi un discreto spettacolo.»

    Registrai con annoiata abitudine la solita e puntuale battuta sessista di Michele e cercai di liquidarlo. «Michele, non mi sento bene, ci vediamo domani. Scusami ma adesso devo salutarti. Mi dispiace.»

    «Francesco così mi metti nella merda. Dovevi coprire anche il buco lasciato dalla Capretti. Mi spieghi come diavolo faccio adesso? Ho tre professoresse in congedo parentale, due all’ospedale ingessati ovunque, tu che ti dai moribondo e la sconosciuta professoressa Clara Sardelli che vorrebbe pure che le facessi gli onori di casa.»

    «Cosa hai detto? Clara Sardelli?»

    Non feci in tempo a sentire la sua risposta perché le ruote anteriori della mia vecchia Peugeot urtarono contro qualcosa che affiorava lungo la strada, probabilmente la grossa radice di un albero. Tutto l’abitacolo sobbalzò e il movimento fu sufficiente per togliermi dalla mano il cellulare che finì in un punto non ben definito tra il tappetino e il cassetto portaoggetti posto sotto il sedile. Allungai la mano destra verso quella direzione e lasciai che buona parte del mio corpo la seguisse piegandosi in basso e sulla destra. Mentre cercavo il cellulare e perdevo totalmente la visuale della strada, la mia testa era un vero e proprio turbinio di pensieri e voci tra le quali spiccava quella della mia prudenza che mi consigliava di accostare.

    Un’altra voce però era forte e si dava da fare per soppiantare la prima. Era quella che ripeteva il nome e il cognome che Michele aveva pronunciato poco prima di essere volato via con tutto il mio telefono. Clara Sardelli. Non poteva essere un caso di omonimia. Tutto tornava; il nome, il fatto che insegnasse matematica e pure il suo aspetto fisico, sebbene sottolineato dalla battuta di Michele che mi provocava un sottile e pungente fastidio.

    Qualche anno prima avevo incontrato per caso il padre di Clara il quale mi aveva informato del matrimonio della figlia con un infermiere conosciuto quando, a causa della malattia della madre che si era protratta per mesi, era stata costretta a recarsi periodicamente al reparto oncologico di Careggi, dove lavorava Leonardo. Un paio d’anni dopo aveva avuto un figlio e, dopo che il piccolo aveva compiuto un anno, aveva ripreso la laurea in matematica e l’idoneità all’insegnamento ma, come molti, si era scontrata con l’incubo di ogni laureato in attesa di una cattedra stabile: il precariato. Clara Sardelli. Non sapevo se dar credito alle parole del mio eccentrico amico preside. Mentre annaspavo alla ricerca del telefono, tornando di tanto in tanto a prestare lo sguardo alla strada, mi sorprese il pensiero che tutto questo, compresa la telefonata di Michele, fosse frutto del malessere che ormai da un’ora offuscava completamente la mia lucidità mentale.

    La donna che avevo amato più di ogni altra era davvero diventata la mia collega? Se le parole di Michele corrispondevano davvero alla realtà, avrei avuto la possibilità ogni giorno di vedere Clara, offrirle il caffè, aspettarla fuori dalla scuola e forse fare un pezzo di strada a piedi con lei. Se solo fossi riuscito a recuperare il telefono avrei potuto verificare meglio se tutto quello che albergava nella mia testa era partorito da una folle rincorsa dei miei desideri più intimi e profondi o se era la naturale conseguenza di una realtà che si stava materializzando nella mia vita.

    La mia mano vagava tra il tappetino e il vano portaoggetti, senza riuscire a trovare quello che per me era diventato ormai un obiettivo urgente: la voce di Michele con la risposta che volevo. Quello che successe qualche secondo dopo avrebbe sconvolto la mia vita e l’avrebbe portata su strade che fino ad allora erano per me impensabili.

    Eppure oggi so che quel giorno le cose dovevano andare proprio in quel modo. Se non avessi urtato quella radice e non mi fossi trovato piegato nell’abitacolo per cercare il telefono, violando ogni normale e banale regola di guida sicura e prudente, probabilmente non sarei l’uomo che sono oggi e la mia vita non avrebbe il senso che ha oggi.

    3

    La radio regalava le prime note di «Your song», l’immortale successo di Elton John che avevo apprezzato da bambino quando d’inverno passavo le domeniche pomeriggio a curiosare tra i dischi lasciati dal nonno prima della sua partenza, gustando le cioccolate calde della nonna e lasciando che Milly, la splendida Siamese che regnava in casa Girolami, si strofinasse sulle mie gambe. La pioggia continuava la sua ignara danza sul parabrezza e il tepore che il climatizzatore aveva rilasciato all’interno dell’auto dava alla situazione una contrastante aria di serenità e tranquillità casalinga.

    Il caldo, la musica e la poesia della pioggia erano decisamente agli antipodi rispetto al mio stato d’animo, dominato dall’ansia e dalla premura ossessiva di recuperare il telefono. Stavo per rimettermi in una posizione che mi permettesse di guardare la strada, quando le mie dita sfiorarono qualcosa che riconobbi subito essere la superficie della cover del telefono. Con un movimento felino riuscii ad afferrare e a far di nuovo mio l’apparecchio e, ansioso di richiamare Michele, riportai i miei occhi al di là del parabrezza. Udii un grido soffocato ma non feci in tempo ad accorgermi che si trattava del mio perché la mia attenzione era tutta dedicata a evitare l’albero che si avvicinava pericolosamente. Girai bruscamente lo sterzo a sinistra, mentre il piede destro rovesciava sul pedale del freno tutta l’energia presente nel mio corpo in quel momento. Chiusi gli occhi per un attimo, mentre l’auto si fermava, sicuro che avrei avvertito l’impatto di lì a pochi secondi.

    Aprii gli occhi. Non era successo niente. Il tronco di quello che sembrava un castagno era a pochi centimetri dallo sportello anteriore destro. L’unico risultato tangibile ed evidente di quell’episodio era che il cellulare era di nuovo volato sul tappetino.

    Recuperai il telefono e per un attimo restai a fissare, attraverso il vetro tempestato di gocce d’acqua, l’albero contro il quale stavo per sfracellarmi pochi secondi prima. Mentre la mia mente tornava a registrare la necessità di chiamare subito Michele per capire se davvero fosse Clara la nuova insegnante di matematica, realizzai che da quando avevo scoperto la sua possibile presenza a scuola, la voglia di evadere e di dedicare un’intera giornata solo a me stesso, quella che fino a poco tempo prima era il capobranco di ogni emozione fino ad allora controllata, non era più cosi presente.

    Avviai il motore e

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