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Le risposte che cercavo
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Le risposte che cercavo

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About this ebook

A volte nella vita basta un attimo per cambiarne il corso e trovarsi a pensare, a distanza di anni, a come sarebbe potuta andare diversamente. Tutto quello che viene dopo è in funzione di esso, aprendo il campo a prospettive che probabilmente mai avrebbero riguardato altrimenti il nostro percorso, riservandoci sorprese inaspettate.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 21, 2016
ISBN9788892643086
Le risposte che cercavo

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    Le risposte che cercavo - Antonio Sobrio

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    Prologo

    A volte nella vita basta un attimo per cambiarne il corso e trovarsi a pensare, a distanza di qualche anno, a come sarebbe potuta andare altrimenti. Tanto più se un tale cambiamento arriva in maniera del tutto inaspettata, attaccando quella fortezza interiore che prima sembrava inviolabile. Tutto quello che viene dopo è in funzione di esso, anche se si può essere persuasi dal pensare che sarebbe potuto accadere lo stesso.

    CAPITOLO I

    Il trasferimento nella capitale

    Non c’è niente di meglio di una bella doccia calda per riprendersi e ripartire. L’acqua scorre copiosa attraverso i buchetti del braccio meccanico, lavando via le impurità e dando la sensazione di azzerare il clock counter e riprendere. Almeno finché non nasce l’esigenza di farne un’altra, spinti dal prurito sul cuoio capelluto o localizzato in qualche altro punto del corpo in cui non sempre ci si riesce a lavare quotidianamente.

    Ne avevo appena fatta una nella stanza presa in affitto a Roma, una singola all'interno di un appartamento con altri tre inquilini, due ragazzi siciliani e una ragazza calabrese, tutti più giovani di me. Era piuttosto piccola, con le pareti scorticate e le prese della corrente fuoriuscite dal muro. Una sorta di grotta di Betlemme con la porta d'ingresso e il balcone dove stendere il bucato, pagata 330 euro al mese, spese escluse. Un ottimo prezzo tra l'altro, considerando che in media una stanza singola a Roma all'epoca costava sui 400 euro al mese e non oso immaginare adesso.

    Quando un giorno provai a farlo presente a una proprietaria di casa che gli affitti nella capitale fossero troppo cari la risposta fu: Sì, ma stai a Roma, come se nell'affitto di una stanza o di un appartamento fossero comprese anche le tasse sul Colosseo e su tutti gli altri monumenti della città.

    Del resto di lavoro non ce n'era all'epoca e peggio ancora adesso, e non si può certo vivere di estasiazione, estasiamento, o come si dice. Insomma del restare estasiati di fronte alla vista delle sue bellezze storico culturali. Anche perché senza soldi non si cantano messe, come si dice dalle mie parti, e stare a Roma senza poter beneficiare delle opportunità che offre, visitare i musei, andare ai concerti, uscire la sera senza necessariamente andarsi a buttare a terra a San Lorenzo, è come possedere una Ferrari senza avere i soldi per mettere la benzina. Anzi, peggio ancora, poiché, come dicono i romani stessi, si rosica.

    Rimasi ancora un po' in accappatoio, la temperatura primaverile lo consentiva, dopo di che mi vestii e mi misi davanti allo specchio a fissarmi. È strano guardarsi negli occhi, pur se in maniera riflessa. Si ha come l'impressione di trovarsi davanti un estraneo. Pensai alla mia vita, a quell'ennesimo cambiamento, al mio recente passato. A quello che avevo lasciato andando via da Napoli: gli amici e soprattutto Franca, la mia ragazza. Ma tanto con gli amici il rapporto era inevitabilmente destinato ad affievolirsi, come d'altronde stava già avvenendo negli ultimi mesi, man mano che, come l'età adulta fisiologicamente prima o poi impone, con il passare degli anni la vita di ognuno si avvia a essere animata da sempre meno persone e da un rapporto a due con il proprio partner, se c'è, o con i pochi amici ancora rimasti single. Franca, dal canto suo, mi avrebbe raggiunto appena avesse potuto, magari facendo il trasferimento di università da Napoli a Roma, in modo da poter iniziare insieme una nuova convivenza, con maggiori possibilità lavorative e di vita per entrambi. 

    Prima di congedarmi dallo specchio guardai i segni presenti sul mio viso, cicatrici di un passato sempre vivo e lungi dal separarsi da me, al punto da continuare a condizionare ogni mio gesto e pensiero.   

    Roma rappresentava la possibilità di poter ricominciare tutto da capo, per l'ennesima volta, forse l'ultima considerando che avevo ormai superato la soglia dei trent'anni. L'opportunità di lasciarmi tutto alle spalle e mettere in atto il tentativo decisivo di raggiungere la mia vera essenza, la mia vera dimensione. La convinzione che stavolta ci sarei riuscito era molto più di una speranza. Vivere nella capitale mi avrebbe offerto molte possibilità in più, in tutti i campi, consentendomi di fare quel passo tanto atteso e fino a quel momento solo incubato nelle sue potenzialità.

    CAPITOLO  II

    La terapia

    Franca l'avevo conosciuta a una festa di compleanno nella residenza universitaria Paolella di Napoli-Fuorigrotta, dove alloggiava in quanto assegnataria di posto alloggio. Mi fu presentata da Giovanni, uno dei miei migliori amici.

    A primo impatto, a dire il vero, non mi aveva particolarmente colpito. Anche perché tra le altre ragazze presenti quella sera ce n'erano di molto più carine, alcune delle quali, considerato anche come si erano preparate per l'occasione, da non poter lasciare assolutamente indifferenti. In più, in quel periodo, la mia attenzione era fortemente attirata da Giovanna, una ragazza che avevo conosciuto poco tempo prima, per caso, fuori a un negozio di dischi, e della quale mi ero fortemente infatuato. Mischiata a un gruppo di metallari ai quali mi ero avvicinato per proporre l'ultima demo dei Krom, il gruppo in cui suonavo la batteria, evidentemente fu lei a tenere il cd, dietro il quale era segnato, tra i contatti, anche il mio indirizzo di posta elettronica. Lo dedussi dal fatto che il giorno successivo mi arrivò una e-mail nella quale si presentava e commentava le canzoni presenti.

    A quella e-mail ne seguirono altre, fino a scambiarci i numeri di telefono e a incontrarci. Era molto carina, minuta, con un fisico rotondo nei punti giusti e un viso e uno sguardo particolarmente suadenti e accattivanti. Ma soprattutto era metallara, vestita di nero, con borchie, collane e bracciali, appassionata per il mio stesso genere musicale. Esattamente il tipo di ragazza che stavo cercando in quel momento, nella speranza, neanche tanto inconscia, di riuscire a sostituire Anna, la mia ex, anche lei metallara, dalla quale ero ancora pesantemente ossessionato, dopo la fine della nostra breve e travagliata relazione. In tutto era durata poco più di un mese e mezzo, durante il quale, dopo i primi pochi giorni di sintonia e passione, si era trasformata in una inesorabile parabola discendente, alla fine della quale ci separammo in malo modo. Fu lei a lasciarmi per essere più precisi, giustificandosi con il fatto di essersi sbagliata e che non provasse niente nei miei confronti oltre a un’attrazione fisica e a un sentimento di semplice amicizia.

    Ci soffrii parecchio, nonostante razionalmente sapevo che bisognasse farsene una ragione, che le cose si fanno in due, e che se è uno solo ad amare non può funzionare, ma magari fosse così facile quietare i propri sentimenti. Di sicuro avrebbe potuto essere più delicata nei miei confronti, ma quando si è distaccati emotivamente spesso non ci si rende neanche conto di far soffrire gli altri, salvo quando poi ci si trova a ricoprire il ruolo opposto, come del resto era capitato a me stesso in precedenza. Per fortuna la ruota gira. Eppure più era scorretta nei miei confronti, più mi feriva, più non riuscivo a rassegnarmi all'idea di perderla, confermando l'istintiva tendenza dell'essere umano a essere attratto maggiormente da ciò che sentiamo essere più difficile da raggiungere. In fondo è anche logico, proprio perché accende in noi il desiderio, acquisendo il fascino dell'irraggiungibile, della meta verso la quale protendersi con tutte le proprie forze ed energie.

    *

    Dopo la fine della relazione con Anna, per riprendermi dallo stato di malessere e abbattimento nel quale ero caduto, e dal quale facevo molta fatica a uscire, provai, come estremo tentativo, a rivolgermi a una psicologa, sintomo evidente del fatto che ormai non avessi più niente da perdere. L'ipotesi di rivolgermi a uno strizzacervelli l'avevo infatti sempre scartata a priori, fermamente convinto di potercela fare da solo. Ogni volta che mi ero trovato a prenderla in considerazione, o che mi era stata suggerita, puntualmente l'avevo rifiutata o rinviata, relegandola come l'ultimo dei tentativi a cui fare ricorso. Ma ormai anche quella remora era crollata di fronte a qualcosa che non riuscivo più assolutamente a gestire né fronteggiare.

    In realtà la fine della storia con Anna rappresentava solo l'aggravante di una condizione nella quale ero purtroppo caduto da anni, peggiorando sempre di più nel corso del tempo, e dalla quale avrei fatto di tutto pur di uscire, o quanto meno per riuscire a trovare un po' di sollievo. Mi sentivo come sospeso nel vuoto, sballottato di qua e di là, con la mente annebbiata. Una sorta di tentativo del mio stesso corpo, evidentemente, di narcotizzarsi per vivere protetto dal mio stato d'animo cupo e depresso. Decisi così di provare.

    A suggerirmi il nome della dottoressa fu Giovanni stesso, il mio caro amico, che già tante volte mi era stato vicino nei momenti più difficili. Quando si dice un amico si vede nel momento del bisogno. Lui me lo ha sempre dimostrato ed è grazie a lui se posso affermare con cognizione di causa che la vera amicizia esiste. Può capitare che non ci vediamo e sentiamo per mesi, anni, ma basta anche solo una telefonata o il semplice pensiero dell’altro per farci sentire vicini. 

    La dottoressa, una donna dall'aspetto poco più che quarantenne, robusta di costituzione ma in linea, con i capelli castani lisci raccolti dietro la nuca e gli occhi chiari, lavorava allo sportello per donne immigrate del Don Orione, istituto religioso che già conoscevo per altri motivi legati alla mia esperienza lavorativa, ospitando, tra l’altro, anche un semiconvitto per persone con disabilità psico-fisica. Siccome di persone alle quali era dovuta la sua presenza se ne presentavano generalmente poche, sia per paura di essere denunciate come clandestine che per motivi culturali, riusciva a seguire anche altri casi, in maniera gratuita. Decisi così di approfittare dell'occasione, anche perché a pagamento, con quello che guadagnavo, non avrei potuto di certo permettermelo.

    Al di là di tutto, si trattava anche di una questione di principio. A spingermi ad andarci, più che una reale convinzione che potesse servire a qualcosa, fu infatti la ferma volontà di essere preso in carico e certificare, soprattutto a me stesso, il mio stato di malessere. Sentivo la necessità che fosse riconosciuto, confermato ufficialmente, affinché non rimanesse una sensazione invisibile all'esterno, o che addirittura qualcuno pensasse che facessi finta, anche se nei confronti di molti, soprattutto amici e familiari, continuavo a nasconderlo. Per una questione di orgoglio e pudore nei confronti dei primi e per non dare dispiaceri e preoccupazioni ai secondi, soprattutto ai miei genitori che, pur con tutti i propri limiti, non lo meritavano, non fosse altro che per tutto quello che mi avevano dato e trasmesso nei miei trent'anni di vita.   

    La dottoressa mi mise subito a mio agio, trasmettendomi fin dall'inizio la sensazione di interessarsi veramente a quello che dicevo e di volermi realmente aiutare a stare meglio. Quell'atteggiamento favorì una mia completa apertura nei suoi confronti, facendo emergere in me la voglia di rispondere alle sue domande, con il chiaro intento di cercare di risalire alle cause della mia condizione, in maniera quanto più sincera ed esaustiva possibile.

    Fu l'occasione per ripercorrere il passato, ricostruire la mia esistenza, mettendo insieme i pezzi e approfittando per tracciare un bilancio di quello che era accaduto fino a quel momento.

    Nel farlo non potei che iniziare dall'episodio dal quale tutto aveva avuto origine. Dall'evento che aveva stravolto la mia vita, immettendola su binari completamente diversi da quelli sui quali avevo viaggiato fino a quel momento, dando il via a un lungo percorso di esperienze e riflessione che, altrimenti, non so se avrei mai solcato.

    *

    Non è mia intenzione adesso annoiarvi e angosciarvi con la storia strappalacrime di quello che mi è accaduto. Già ognuno ha i suoi problemi e non credo sia il caso di far pesare anche i propri sugli altri, ma ai fini della storia non posso omettere che, all'età di sedici anni, una mattina mi svegliai scoprendo di avere la vitiligine. Per chi non lo sapesse, si tratta di una manifestazione cutanea dovuta a mancanza di melanina, il pigmento che permette alla pelle di abbronzarsi e assumere il classico colorito più scuro, dando vita a chiazze chiare sparse sul corpo, circondate da zone iperpigmentate e quindi più scure.

    Oggi, a distanza di tanti anni, ne parlo con una certa serenità. Il trascorrere del tempo ci aiuta ad abituarci a tutto, o almeno a imparare a conviverci, facendo sì che, gradualmente, anche nel mio caso, divenisse una parte di me alla pari di tutte le altre.

    All'epoca, al contrario, come si può facilmente intuire, rappresentò un vero e proprio trauma. Soprattutto considerando la delicata fase della vita che stavo attraversando, durante la quale, considerata l'importanza che si dà al proprio aspetto fisico e alla propria identità, un problema estetico rappresenta la cosa peggiore che possa capitare. Uno scossone improvviso che contribuì a modificare completamente, da un giorno all'altro, tutte le mie abitudini, ma soprattutto il mio modo di essere e pensare.

    Per evitare di espormi agli sguardi e ai commenti altrui, avvertendo un certo imbarazzo a mostrarmi con le macchie che mi erano spuntate su varie parti del corpo, iniziai a trascorrere sempre più tempo in casa, chiuso in camera. Lì mi sentivo protetto, al riparo. Mi rifugiavo soprattutto nella musica, ricercando suoni tristi che mi dessero forti sensazioni e in cui lasciarmi trascinare, dimenticando per qualche attimo di essere rinchiuso in un corpo. Almeno voci e note non mi chiedevano cosa avessi, a differenza di come stavano iniziando a fare tutti quelli che mi conoscevano e che notavano i cambiamenti. Non mi giudicavano. In un certo senso creavano un'atmosfera in cui stavo anche bene. Era come se mi compiacessi del fatto di provare pena, beneficiando della sensazione che suscita la compassione pur essendo io stesso il destinatario di quei sentimenti.

    Mi avvicinai molto all'ascolto di cantanti quali Marco Masini, Paolo Vallesi, considerati da molti una sorta di iettatori dai quali stare alla larga, ma nei cui testi io mi riconoscevo, facendosi portavoce dei più sfortunati, i cosiddetti ultimi, come mi sentivo io in quel momento.

    Tra una canzone e l'altra mi chiedevo Perché? Perché proprio a me?. Avevo sempre fatto il mio dovere, molto più di tanti ragazzi della mia età a cui invece andava tutto bene. Al contrario, sembrava addirittura che il comportamento deviante e spaccone di alcuni di essi, oltre ad assicurare loro il rispetto da parte degli altri e l’attenzione delle ragazze, li rendesse anche immuni da vicende quali quella che era capitata a me.

    Tutto quel pensare provocò nella mia testa l’insidiarsi di mille interrogativi che mai mi ero posto fino a quel momento. Avevo sempre considerato la diversità come qualcosa di estraneo e lontano da me, come se potesse riguardare solo gli altri. Nelle mie preghiere i diversi trovavano spazio e considerazione, ma non avrei mai immaginato che un giorno anch'io ne avrei fatto parte. Non riuscivo a capire come mi fosse potuta capitare una cosa del genere, a farmene una ragione. Si trattava solo di un problema estetico, senza conseguenze per la salute, se si escludeva l’accentuazione del rischio di scottature durante l’esposizione al sole, da evitare con l’uso di creme protettive. Ma per quel motivo ancora più assurdo da giustificare.

    Mi sforzavo di pensare che non me ne dovevo vergognare. In fondo non ne avevo nessuna colpa, ma non ci riuscivo lo stesso. Ero solo un adolescente, alle prese già con i miei problemi di autostima per poter fronteggiare un problema del genere. L’avrei scambiato con qualsiasi altro, anche con una grave malattia. Almeno me ne sarei fatto una ragione, pensavo, invece di stare lì a ripetermi che non era poi la fine del mondo, ma che intanto ce l’avevo e mi stava condizionando l’esistenza. Il proprio problema è sempre il peggiore, il più terribile e doloroso, anche se è si è perfettamente consapevoli che ne esistano di molto più gravi. Ma del resto ognuno ha la propria vita e non è facile consolarsi pensando che c’è chi sta peggio.

    *

    La dottoressa restava ad ascoltarmi paziente e interessata, senza mostrare alcun segno di compassione e condivisione della mia sofferenza, come impone il ruolo che ricopriva e come io stesso preferivo facesse, per non avere la sensazione di essere compatito.

    Nelle sedute successive alla prima continuai a parlarle dell'episodio della comparsa della vitiligine, anche perché temevo che se avessi esordito o dirottato il discorso parlandole di Anna, nonostante in realtà fosse il principale motivo di sofferenza in quel periodo, avrebbe potuto ridurre tutto a quell'episodio, senza prendere sul serio tutto quello che mi era accaduto prima.

    Di sicuro l'aspetto sentimentale aveva sempre esercitato un ruolo fondamentale nella definizione del mio stato d'animo, rappresentando spesso l'ago della bilancia, fonte di gioia, sofferenza, causa, in un senso o nell'altro, di forti emozioni e turbamenti che arrivavano a squilibrare la mia già precaria stabilità emotiva. Tuttavia identificare nei rapporti con l'altro sesso l'unica fonte del mio malessere mi sembrava estremamente riduttivo. Piuttosto poteva rappresentare una conseguenza, rispecchiando il mio forte bisogno di essere apprezzato, sia come persona che esteticamente, in modo particolare dopo il processo di svalutazione e caduta di autostima che avevo subito successivamente alla comparsa della vitiligine.

    Nel tempo, in assenza di situazioni traumatiche, avevo sviluppato la capacità di trovare un certo equilibrio, seppur fragile, ma che mi consentiva almeno di vivere senza grossi scossoni, in una posizione di mezzo tra quello a cui aspiravo e quello che realmente ero. Ma proprio perché fragile e precario bastava un niente per farlo rompere e crollare, costringendomi ogni volta a ricominciare una lenta e faticosa risalita, per poi puntualmente ricadere, come se rinchiuso in una vasca ovale di vetro dalla quale sembrava impossibile poter uscire una volta per tutte.

    Nonostante tutto non potevo sicuramente, per evitare di soffrire ancora, pensare di accontentarmi, di rinunciare a vivere la vita a pieno, soprattutto in amore, aspetto dell'esistenza di cui proprio non si può fare a meno. Era come aver iniziato un gioco che mi aveva dato tanto ma anche tolto, nel quale volevo a tutti i costi andare avanti nella speranza di recuperare le perdite e aumentare le gioie, pur con la consapevolezza che le prime avrebbero potuto aumentare e le seconde, tanto auspicate e sospirate, non arrivare mai.

    *

    Con l'andare avanti della terapia a crescere, dentro di me, nonostante le buone premesse, era sempre di più la sensazione che probabilmente non sarebbe servita a risolvere il mio problema e che, al contrario, avrei dovuto probabilmente mettermi l’anima in pace e abituarmi a convivere con quelle sensazioni e quello stato d'animo per il resto della mia vita. Non mi pareva possibile poter pensare che con quelle chiacchierate la mia condizione avrebbe potuto cambiare più di tanto, pur risultando estremamente piacevoli, soprattutto perché mi facevano sentire ascoltato, preso in considerazione. In molti casi il rischio è che depressione e stati di umore basso, termini dei quali talvolta si abusa impropriamente, vengano considerati una sorta di scusa, di giustificazione da parte di chi non vorrebbe assumersi le proprie responsabilità. O, in alternativa, legati a una mancanza o difficoltà specifica, e non come un ostacolo allo svolgimento di una vita serena e attiva, come in realtà purtroppo avviene.

    Almeno inizialmente fu quello l'unico aiuto e sostegno che ne trassi, in particolar modo a causa del fatto di non riuscire a lasciarmi andare come avrei dovuto e voluto fare. Al punto che spesso finivo io stesso per gestire e manovrare la terapia, nel senso di indirizzare la discussione dove e come volevo, finendo per privarla della sua potenziale efficacia. 

    Al di là di tutto rappresentò indubbiamente un'occasione, non preventivata, per scavare più a fondo di quanto avessi mai fatto fino a quel momento nel mio passato, alla ricerca dell'origine della mia sofferenza, approfittando della stimolante presenza della donna. L'interazione con l'altro agevola lo scavalcare di quelle barriere che i meccanismi psicologici ergono a difesa della nostra stabilità emotiva, quando messa a rischio dai ricordi e dalla memoria, sostituendole con la presenza di qualcuno che possa accoglierci e sostenerci. 

    A distanza di anni, con occhi più distaccati, in seguito anche allo sviluppo delle mie opinioni al riguardo, mi sembrava chiaro che la comparsa della vitiligine non potesse rappresentare altro che la somatizzazione di una sofferenza latente, nel mio caso manifestatasi attraverso un problema estetico, pur non riuscendo ancora a risalire alla causa scatenante. Decisi così di sfruttare quell'occasione per provare a individuarla, sperando che fosse localizzata in un'epoca della mia vita della quale mantenevo ancora il ricordo, e dunque dai tre anni in su. In caso contrario solo mia madre o qualcuno che mi era stato vicino nei primi anni di vita avrebbe potuto aiutarmi.

    Tra gli episodi possibili focalizzai la mia attenzione su due di essi in particolare: la perdita di mio nonno, il padre di mio padre, e le tante delusioni avute in campo sentimentale. Al di fuori di esse non mi sembrava di ricordarne altri tali da giustificare una conseguenza del genere.

    *

    Quando morì mio nonno ero molto piccolo, al punto che i ricordi che conservo di lui sono piuttosto sfocati. Tranne proprio la scena in cui era steso sul letto, con le mani incrociate sul petto, come se dormisse, nella casa in cui viveva insieme a mia zia Assunta, la sorella di mio padre, l'unica figlia non sposata. Mia nonna, la moglie, era già morta da qualche anno.

    Nella stanza, attorno a noi, c'erano anche altre persone, familiari e conoscenti presumo, ma non ne ricordo nessuno in particolare oltre a mia zia stessa e a mia cugina Monica, che mi erano accanto.

    Fu la prima volta in cui mi interrogai profondamente sul significato della morte. Non che prima non ci avessi mai pensato. Mi avevano spiegato cosa fosse, quando e come avvenisse, ma in effetti mai fino a quel momento l’avevo vissuta così da vicino. Era come se non ci avessi mai pensato davvero, né considerato che avrebbe potuto riguardare qualcuno che ero abituato a vedere ogni giorno e che da un momento all’altro non avrei più visto. Mi avevano raccontato che a una certa età le persone si addormentano di un sonno profondo, così che il corpo viene sotterrato al cimitero mentre l’anima vola in cielo. Questo mi era chiaro, ma solo quando accadde a mio nonno mi resi veramente conto di cosa significasse. Fu anche la prima volta che vidi mio padre piangere, circostanza che mi turbò non poco, visto l’immagine che ne avevo di persona forte che niente e nessuno avrebbe mai potuto scalfire.

    Non riuscivo a distogliere il pensiero dall’idea che un giorno anche io sarei morto. Chiesi a mia zia dove fosse andato il nonno e lei, con le lacrime agli occhi, mi rispose che era salito in cielo, ma che da lassù avrebbe continuato a osservarci e a vegliare su di noi. Ma allora perché piangeva? Mia cugina disse addirittura di avergli sentito contare le scale del paradiso.

    A quelle parole fui assalito da una sensazione mai provata prima, che crebbe ancora di più nei giorni successivi, come se in quel momento stesse solo incubando quello che ancora doveva venire. Ogni tanto scoppiavo in lacrime e non c’era modo di farmi smettere. Mi aggrappavo a mia madre, dicendole che non volevo morire e lei, con un sorriso imbarazzato, non sapendo cosa rispondermi, per cercare di tranquillizzarmi rispondeva che mi avrebbe messo sotto un albero di fichi. Evidentemente così si usava dire ironicamente in riferimento a chi volesse vivere in eterno. Era un modo per farmi distrarre e sorridere, ne ero consapevole, ma non sortiva alcun effetto, ed anzi mi sentivo sempre peggio, nonostante il sorriso e il modo in cui mia madre me ne parlava fossero la testimonianza che si potesse vivere serenamente anche con quella consapevolezza.

    Non sapendo più cosa fare, mia madre mi spiegò che se nessuno fosse più morto, come io avrei desiderato, il mondo si sarebbe popolato sempre di più, fino a costringere tutti a mangiarsi a vicenda. Questo lo capivo, anche se l'eventualità era alquanto spaventosa. Quello che non capivo era perché le cose dovessero andare in quel modo. Perché gli uomini non erano stati creati senza la necessità di dover un giorno morire e far nascere altre persone.

    Pensai alla storia di Adamo ed Eva, spesso raccontata in chiesa, secondo cui quest'ultima, mangiando la mela, aveva condannato il genere umano alla morte, inizialmente non concepita da Dio. Fino a quel momento non l’avevo mai presa seriamente, considerandola una semplice storiella, senza neanche soffermarmi a rifletterci su più di tanto. Ma adesso non riuscivo più a darmi pace. Quella z… , pensavo. Per colpa sua adesso tutti quanti dobbiamo morire. Non potevo accettare di dover pagare per una colpa commessa da altri, senza aver fatto nulla per meritarmelo. Senza la possibilità di essere messo alla prova. Tutto mi appariva inutile se un giorno sarei morto. Cercavo di distrarmi e pensare ad altro ma non ci riuscivo. La sera avevo difficoltà ad addormentarmi e facevo brutti sogni.

    Quelle sensazioni continuarono ad accompagnarmi per molti giorni, durante i quali vissi completamente condizionato da quell'idea. Solo molto gradualmente, con il passare del tempo, riuscii pian piano a ritornare a una certa normalità, pur se con una consapevolezza del tutto diversa. Forse si trattava del prezzo che bisognava pagare per il fatto che stessi crescendo, pensai. Una tappa obbligata che tutti dovevano superare.

    Soltanto un paio di episodi, capitati proprio in quei giorni, mi diedero la forza di riprendermi, facendomi riflettere, ma soprattutto capacitarmi del fatto che, nonostante tutto, ci fossero tante cose belle per cui valeva la pena vivere e andare avanti: un racconto divertente da parte di mio fratello e la vista dello zio di un mio amico che camminava felice tenendo per mano la donna amata.

    *

    Nonostante il trauma vero che vissi in quei giorni, e dal quale in qualche modo mi sento ancora oggi condizionato nel modo in cui a volte mi capita di pensare alla morte, come causa del manifestarsi della vitiligine ritengo molto più probabile sicuramente la seconda ipotesi, e cioè le tante delusioni avute in campo sentimentale. I sistematici rifiuti ricevuti da parte delle ragazze delle quali mi ero invaghito e innamorato prima della sua comparsa, come se il mio corpo, con il comparire delle chiazze, avesse voluto dimostrare veramente di essere brutto e non piacente, al fine di giustificare il fatto di non essere mai ricambiato. Può sembrare banale, ma ci ho riflettuto a lungo e alla fine sono convinto che sia stata proprio questa la causa scatenante, considerata la reale sofferenza che ne derivò, relazionata ovviamente all'età che avevo.

    Questo non significa ovviamente che si possa stabilire un rapporto di causa effetto, così che ogni persona che si trovi a vivere un'esperienza simile debba sviluppare necessariamente la vitiligine. Se così fosse i casi dovrebbero essere molti di più del circa un per cento della popolazione mondiale. Essendo tutti diversi dagli altri, ognuno somatizza in maniera diversa, chi con la vitiligine, chi con la psoriasi, chi con la gastrite, chi per niente (beato lui) e così via. Nel mio caso a influire credo sia stata sicuramente anche una spiccata sensibilità, che tuttora mi condiziona, portandomi a farmi coinvolgere più del dovuto anche in situazioni che non mi riguardano direttamente, e a subire, come in quel caso, una sofferenza sproporzionata rispetto alla causa scatenante. Di sicuro le persone insensibili e menefreghiste vivono molto di più e meglio, proprio perché essendo più forti psicologicamente lo sono anche fisicamente, non somatizzando e anzi rafforzando le proprie difese immunitarie. Si potrebbero fare tanti esempi a conforto di questa tesi, a partire da capi mafia come Toto Riina, ma anche politici del calibro di Giulio Andreotti, e così via.

    Detto questo risalire alla causa non significa assolutamente aver trovato la soluzione. Magari fosse così semplice. Al momento sono convinto che si tratti di due cose distinte e separate, almeno in casi come il mio, nel senso che una volta che la causa scatenante si somatizza, manifestandosi concretamente, difficilmente si può tornare indietro ed eliminarla. O comunque anche se esiste un modo non sono riuscito ancora a individuarlo, ma ci sto lavorando. Diverso è il caso di disturbi più lievi, passeggeri o che si manifestano principalmente dal punto di vista organico, quali coliti, stitichezza, dolori e sintomi vari, che invece possono essere sicuramente affrontati in maniera diversa.

    Ritornando alla mia ipotesi sulla comparsa della vitiligine, esteticamente non è che fossi peggio di tanti altri ragazzi della mia età. Diciamo che mi attestavo nella media, così come oggi del resto, anche se qualcuno negli anni successivi mi ha definito e mi definisce addirittura bello. Punti di vista. Probabilmente era più un problema di carattere, di personalità, di scelta delle ragazze sbagliate, o semplicemente di sfortuna. Fatto sta che avevo un curriculum da far invidia a personaggi del calibro di Giacomo Leopardi: due rifiuti su altrettante dichiarazioni, dopo anni di innamoramento, più altre infatuazioni sfumate senza neanche riuscire a conoscere la persona interessata. Morale della favola ero arrivato a sedici anni senza aver ancora dato il mio primo bacio, a differenza di tanti altri miei coetanei che ne avevano già di cose da raccontare sull'argomento.

    *

    E pensare che non era iniziata poi tanto male. Verso i quattro cinque anni mi sentivo addirittura bello. Pettinavo i capelli con una sorta di ciuffo sulla fronte, e ogni tanto con uno scatto della testa cercavo di aggiustarmelo senza usare le mani, quasi a voler ostentare la mia bellezza. Peccato che fossero talmente crespi da non muoversi per niente, tipo quelli attaccati sulla testa di Big Gym, una versione maschile di Barbie che possedevo, divertendomi a fargli fare i tuffi nella vasca mentre facevo il bagno.

    Mi classificavo come uno dei bambini più belli tra quelli che conoscevo, secondo solo a un altro, Alessandro, di poco più grande di me, che avevo visto qualche volta passare sotto casa di mia zia Assunta.

    La prima cotta per una ragazzina la presi in seconda elementare. Frequentava la sezione a fianco alla mia. Di lei mi attiravano soprattutto i capelli rossi, ricci e lunghi. Era adorabile. Sembrava una bambolina. La guardavo e provavo una grande tenerezza. Era la prima volta che mi succedeva. Fino a quel momento non avevo mai provato niente del genere nei confronti dell’altro sesso.

    Ogni volta che la vedevo ero colto da una piacevole sensazione, mista a un filo di timore, quasi paura, e quando passavo davanti alla sua classe lanciavo sempre un’occhiata nella speranza di scorgerla, stando attento però a non farle notare che la stessi osservando. Ero troppo timido e non sapevo come avrebbe potuto reagire. In fondo mi bastava anche solo osservarla.

    Le nostre maestre spesso collaboravano, così che di tanto in tanto riunivano le nostre classi nella stessa aula. Era un'ottima occasione per vederla più da vicino e per più tempo, ma non mi sognavo neanche di avvicinarmi e dirle qualcosa.

    Continuai in quel modo per molti mesi, ma non ebbi mai modo di conoscerla. Se non si agisce subito in certe circostanze diventa sempre più difficile farlo. Mi ponevo il problema che avesse potuto pensare Ma come, finora perché non ti sei fatto avanti? e più i giorni passavano più propendevo per l’idea di rinunciare, come se a ognuno di essi corrispondesse una graduale diminuzione delle possibilità di riuscita che avevo. Di pari passo anche la simpatia che avevo nei suoi confronti iniziò a scemare, fino a sfumare quasi del tutto. Anche perché, nel frattempo, non era più la sola a suscitarmi un certo tipo di sensazioni.

    *

    A prendere il suo posto era subentrata un'altra bambina, da poco arrivata nella mia classe, Rossella. Aveva i capelli ricci, biondi, legati sempre con un ciuffetto dietro la nuca proiettato verso l’alto. Indossava vestitini interi, con fantasie a fiori, che le arrivavano fino alle ginocchia, bombati sulle spalle e sugli avambracci. I suoi modi di fare denotavano l’appartenenza a una famiglia per bene, che nella mia immaginazione voleva dire ricca e di alto livello socio-culturale. Diversa da quelle come la mia, caratterizzate, pur se con differenti posizioni economiche e sociali, da usi e costumi molto più semplici e provinciali.

    Fin dal primo giorno che la vidi entrare e prendere posto in classe ne fui immediatamente colpito. Era diversa da tutte

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