Sulle rive dei nostri pensieri
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Sulle rive dei nostri pensieri - Cristiano Pedrini
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CAPITOLO PRIMO
Una tirata d'orecchi?
La prima azione che Lee riuscì a compiere una volta richiusa la porta della cabina alle sue spalle, fu quella di sbottonarsi il colletto della camicia e allentare il nodo della cravatta mentre si accomodava nella poltrona del salotto foderato di tessuto.
Chiuse gli occhi massaggiandosi le tempie.
Sperava di avere qualche ora per riposare prima del prossimo impegno e, fortunatamente, l’aver scelto per quella lunga visita alle contee del sud quel lento battello gli permetteva di potersi concedere, tra una tappa e l’altra, il tempo necessario per riacquistare le forze.
Un rapido bussare alla porta pose fine alle sue speranze. «Avanti» rispose senza minimamente preoccuparsi di voltarsi verso l’uscio che si stava aprendo.
Udì i passi risuonare decisi sul pavimento della suite, ricoperto di moquette beige.
Qualcosa cadde sulle sue gambe.
«I miei complimenti» sorrise la donna andando verso il rifornito mobile bar.
Versò del bourbon in due bicchieri e tornò verso il giovane che teneva ancora gli occhi chiusi, come se tutto ciò che stava accadendo non riscuotesse in lui alcun interesse.
«Se desideri riposare dovresti usare quel comodo letto» osservò lei indicando il grande matrimoniale che era alle sue spalle.
Lee respirò profondamente prima di decidersi a riaprire gli occhi sollevando il capo verso il caparbio ma zelante capo del suo staff.
Una scelta che avrebbe ripetuto all’infinto, nonostante quel suo discutibile senso dell’umorismo e l’età, un particolare che aveva suscitato non pochi mordaci commenti nei corridoi del Campidoglio a Jackson.
«Lo farei volentieri se mi lasciassi in pace» considerò prendendo il bicchiere che gli veniva offerto.
«I giornali ti adorano e già si spingono a chiamarti con il titolo di Vice Governatore Newman» osservò lei prendendo posto nell’altra poltrona e fissandolo mentre sorseggiava lentamente lo whiskey.
«Immagino che questo sia l’incarico più facile che tu abbia mai avuto, Katrine Olbright: far eleggere una persona data per vincente da subito.»
«Vero, ma non pensare che rinunci al mio compenso per questo.»
«Forse dovrei rendere questo viaggio come dire...» rise provocatoriamente fissando il liquido dorato che ondeggiava lentamente nel bicchiere «più movimentato, magari creando qualche finto scandalo.» Quell’affermazione provocò all’istante un'espressione di stizza sul volto della donna.
Si toccò i vistosi orecchini di perla, gesto che Lee sapeva essere il chiaro segnale del suo crescente disappunto, prima di rialzarsi terminando quel che aveva nel bicchiere.
«Davvero spiritoso. Tu provaci e io chiederò al comandante di legarti a uno dei fumaioli della nave!» minacciò chinandosi su di lui e ritrovandosi a fissare quello sguardo sicuro che sconfinava nella presunzione, accresciuta dalla profondità degli occhi tersi capaci di suscitare anche in lei, che ben lo conosceva, reazioni tanto contrastanti e ricche di molteplici sfumature. Quell’azzurro poteva trasformarsi e infondere la freddezza e la durezza del ghiaccio più impenetrabile e, al tempo stesso, mostrarsi lieve e infinito come il cielo più puro, sgombro da nuvole.
Egli si inumidì le labbra sottili piegando di poco il capo e volgendo lo sguardo verso la porta, passandosi intanto la mano tra i folti capelli corvini.
«Forse dovrei chiamare l’agente dei servizi che piantona la mia cabina e farti arrestare, dato che potrei prendere la tua minaccia come un pericolo reale.» «Temo che certe mie aspettative rimarranno confinate solo e unicamente nei miei sogni» ammise lei tornando verso il mobile bar.
«Sogni di torturarmi? Sei più pericolosa di quel che pensassi.»
Katrine si versò un secondo bicchiere osservando fuori dalla portafinestra il lento trascorrere del panorama. «Potresti concedermelo. In fondo è un piccolo prezzo da pagare per pararti le spalle ogni volta che la tua lingua decide, temerariamente, di battere dove il dente duole.» «Nascondere certe realtà non le farà scomparire e neppure modificare in meglio. E tu lo sai» gli rispose terminando l’ultimo sorso di bourbon.
«Avevamo detto che...»
«Avevamo detto che si doveva valutare come affrontate il problema e ho deciso di farlo davanti a quei giornalisti, come hai potuto vedere un’ora fa.»
La donna si appoggiò al mobiletto incrociando le braccia sul petto.
Ecco uno dei tratti che riusciva a malapena a sopportare in lui: quella sua tremenda ostinazione che, in taluni casi, spediva la sua obiettività lontana anni luce. Insistere avrebbe solo provocato altro risentimento che per ora non voleva alimentare.
«Resta il fatto che sai bene che il partito non ti seguirà su quelle proposte.» «È probabile, ma non intendo continuare a giocare usando i soliti sotterfugi» le rispose Lee aumentando il tono della propria voce mentre si rialzava.
«Dire apertamente che sei a favore di politiche di assistenza sociale così spinte vuol dire alienarsi tutta una parte del nostro elettorato» lo interruppe la donna. «Sono un conservatore anomalo...»
«Sì» annuì Katrine «e il mio peggior incubo» aggiunse prendendo un profondo respiro che pose fine a quel dialogo.
Diede un veloce sguardo al suo orologio prima lasciare il bicchiere, ormai vuoto, sul mobile.
«Sarà meglio che vada. Ci vediamo a cena più tardi» gli disse accostandosi. «Comunque, sebbene non lo dirò mai in pubblico» aggiunse massaggiandogli il braccio, «sei stato molto coraggioso nel pronunciare quelle parole.» Infine l’oltrepassò, lasciandolo incapace di replicare a quell’inaspettata attestazione di stima che in fondo non avrebbe dovuto stupirlo più di tanto. Era una delle motivazioni principali che l’avevano spinto a decidere di scegliere proprio lei per quel compito non certo facile. Sebbene fosse considerato uno degli astri nascenti del nuovo partito repubblicano, molti ancora non erano convinti della sua maturità politica che andava di pari passo con la sua età: ventisette anni da poco compiuti erano per molti un handicap, più che una risorsa da spendere davanti agli elettori, anche in uno stato come il Mississippi.
Si sfilò la giacca e la posò sul letto, si sgranchì le spalle, che sentiva ancora intorpidite, e si avviò verso il bagno con il desiderio di potersi concedere una doccia rinfrescante.
Nonostante l’aria condizionata avvertiva infatti la necessità di levarsi quella fastidiosa sensazione che, probabilmente, era dovuta più all’ansia che alle temperature reali. Sapeva che le parole che il suo capo dello staff gli aveva confessato erano vere. Pochi minuti prima di salire su quel podio per l’incontro programmato davanti alle maggiori autorità della città che avevano da poco lasciato era deciso ad attenersi al discorso ufficiale, ma davanti a quella platea attenta e silente proprio alla fine del suo intervento aveva avuto quell’intuizione che, per la verità, era il frutto di un seme che già nelle settimane passate aveva iniziato a crescere dentro di sé.
Aprì il rubinetto lasciando che il forte getto di acqua cadesse a poca distanza.
Si levò la camicia ma si accorse del persistente suono del suo cellulare, quasi coperto dallo scroscio.
Ritornò nella camera e prese il telefono dalla tasca interna della giacca. Un sorriso forzato apparve rapidamente sul viso del giovane prima che si decise a rispondere.
«Sì...»
La voce possente, che avrebbe riconosciuto tra mille, risuonò nelle sue orecchie: «Mi avevano avvertito che eri un ribelle ma la mia tradizionale ostinazione l’ha avuta vinta sulle non poche perplessità che ogni giorno mi sottoponevano su di te.»
«Grazie signore. Le spedirò un grosso tacchino per la festa del Ringraziamento» sorrise di nuovo Lee.
«Uno solo? Mi aspetto un intero allevamento. soprattutto dopo oggi.»
«La mia proposta immagino non sia piaciuta» osservò. «Immagini bene.»
Un leggero colpo di tosse, quasi a spazzare via ogni titubanza, fu l’esordio di un’assicurazione che sapeva di dover dare a quell’uomo, mentre il suo sguardo corse al tavolino che poco distante era ricoperto di documenti, tra i quali spiccava una cartelletta di colore rosso. «Governatore Stevenson, sa che la considero una persona attenta e pragmatica. io.»
«Hai lanciato un sasso nello stagno e ora puoi vedere il movimento delle acque irradiarsi ma, come ben saprai, presto scompariranno e tutto tornerà di nuovo tranquillo. D’altronde se non sono le nuove generazioni a muovere dubbi e interrogativi sul presente, chi dovrebbe farlo?»
Il tono rassicurante dell’uomo che aveva governato lo Stato per due mandati e si apprestava ad aggiungerne un terzo, di chi aveva scelto proprio lui come suo vice alimentando le voci che si stesse preparando, con quella scelta, a crearsi un discendente politico, fu accolto da Lee con un sospiro di sollievo.
«Quindi a coloro che le chiederanno come trattare la faccenda Newman...»
«Dirò che non esiste alcuna faccenda Newman.»
«La ringrazio infinitamente, signore.»
«Non c’è di che. Ma,» soggiunse, «per le prossime uscite eviterei di tornare sull’argomento.»
«Me ne ricorderò» assentì, sentendo la conversazione chiudersi.
Spense il cellulare posandolo sulla giacca.
Quella tirata d’orecchi in fondo non era stata così dolorosa come aveva immaginato. Ora poteva tornare alla sua doccia.
Tuttavia, non riuscì a evitare che i recenti ricordi giungessero ancora a rammentargli che la sua posizione era stata il frutto di un gioco di equilibri e che lui stesso, non appena aveva accettato quell’offerta, vi aveva preso parte.
Quel giorno.
Erano trascorsi tre mesi da allora.
Aveva fatto una lunga anticamera seduto su uno scomodo divanetto di pelle nera posto accanto alla grande porta che conduceva all’ufficio del Governatore.
Era stato convocato solo poco prima, direttamente dal capo dello staff, con una frase stringata e sibillina: «Stevenson desidera incontrarla oggi stesso»
Un invito che aveva scatenato una ridda di ipotesi tutte contrastanti tra loro. Cosa mai poteva volere il Governatore da un membro della Camera dei Rappresentanti, eletto da poco meno di un anno e subentrato dopo una elezione suppletiva?
Quando aveva ricevuto quella telefonata si trovava a casa. Si era precipitato indossando la prima giacca che aveva trovato nell’armadio, senza neppure preoccuparsi di mettersi una cravatta, cosa che aveva fatto storcere il naso all’assistente che lo aveva atteso all’ingresso del Campidoglio e lo aveva letteralmente scortato a destinazione.
«Che cosa desidera il Governatore?» Gli aveva chiesto non appena aveva ricevuto l’invito ad attendere in una stanza le cui pareti erano ricoperte di pannelli di legno scuro che rendevano lo spazio assai opprimente.
«Presto lo saprà» era stata la risposta che non era riuscito a soddisfarlo.
Era rimasto in silenzio, solo in quell’anticamera.
Si era accorto solo dopo di due enormi tele di Albert Bierstadt appese alle pareti. Quella era un’insolita ma piacevole distrazione perché quell’artista era uno dei suoi preferiti e da sempre gli spazi infiniti che aveva saputo rappresentare nelle sue opere riuscivano a concedergli una serenità da cui trarre ogni possibile beneficio.
Si era rimesso in piedi, osservando il dipinto che era posto sopra quello scomodo divanetto.
Si ricordava di quel paesaggio, La valle di Yosemite
, con le sue alte rocce che si immergevano in quello specchio d’acqua, il quale era in perfetta simbiosi con tutto l’ambiente circostante in cui si fondeva perfettamente.
Gli occhi di Lee si erano soffermati sui due cervi che il pittore aveva immortalato sotto alcuni alberi che si allungavano verso le acque.
Per alcuni attimi aveva provato il desiderio di trasformarsi in uno di loro e di precipitare in quel paesaggio incontaminato.
«È molto bello, vero?»
La voce aveva fatto trasalire il giovane che, voltandosi, si era ritrovato davanti al volto appuntito dell’uomo che aveva atteso con tanta ansia.
«Lieto di conoscerla deputato Newman» aveva pronunciato allungando la mano verso di lui. «Governatore» aveva contraccambiato stringendola. «È piacevole restare a contemplarlo» aveva annuito, alternando lo sguardo dal dipinto al suo interlocutore dalla folta capigliatura canuta che continuava a osservarlo.
«Cosa posso fare per lei?» si era deciso a chiedergli mentre si avvicinava alla tela.
«Il nostro era un grande Paese, e lo è ancora» aveva risposto l'uomo sollevando lo sguardo verso quell’immagine. «Ma tocca a ciascuno di noi lavorare per mantenerlo tale. Io, caro Lee, ho passato da poco i sessantacinque anni e credo che tra poco dovrò lasciare l’ufficio a qualcuno che possa proseguire quel che abbiamo iniziato.»
Il giovane non era riuscito ad aggiungere nulla, rimanendo in silenzio davanti a quella figura minuta dalla voce pacata che lasciava trasparire una forza che andava ben oltre questi aspetti; qualcosa che riusciva a trascinare verso di sé chiunque gli stesse accanto. E in fondo era proprio grazie alla sua provata esperienza e al suo modo di concepire la politica che si era iscritto al partito e aveva fatto la scelta di candidarsi.
«So che lei è vicepresidente della commissione affari sociali della Camera» aveva detto inaspettatamente Stevenson togliendosi le piccole lenti dopo averle tenute tra le mani.
«Sì... un compito molto appagante e stimolante.»
«E cosa ne direbbe di cambiare prospettiva?