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Cento di questi giorni: La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego
Cento di questi giorni: La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego
Cento di questi giorni: La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego
Ebook650 pages7 hours

Cento di questi giorni: La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego

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Il mondo, l'Europa, l'Italia, il Veneto, Padova, Albignasego, Sant'Agostino, casa Tommasin, la taverna, Luca. Se si fosse usato Google Earth per scrivere questo romanzo, sarebbe questa la zoommata che ci porterebbe nella vita del protagonista. Luca è un quasi quarantenne tornato a vivere a casa con i suoi, trovando rifugio nella taverna di famiglia dalla quale giudica il mondo, ma soprattutto i suoi familiari, che lottano per avere una vita dignitosa, forse rassegnati al loro ruolo di normali. Luca odia la normalità, ed è convinto di poterla sconfiggere per sempre, grazie a un super romanzo. La mediocrità e la follia della solitudine, l'incapacità a svelare se stessi, limitando anche i rapporti più intimi a poche battute sarcastiche, lasciano Luca a seguire le speranze della madre, le frustrazioni del padre, la sordità della nonna, la rassegnazione della sorella, l'amore impossibile della nipote, l'invidia del fratello Leo e la fuga dell'ultimogenito Marco. I colpi di scena che si susseguono in quella che all'inizio pare una periferia sonnacchiosa sembrano non scuotere il solo Luca, perché tanto tutto avrà un senso nel suo romanzo e forse sarebbe meglio per tutti che fosse così...
LanguageItaliano
Release dateOct 4, 2017
ISBN9788893780568
Cento di questi giorni: La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego

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    Cento di questi giorni - La prima e unica storia a Sant'Agostino di Albignasego

    soppresse

    L’idea

    Capitolo I

    Entra pure.

    Ciao.

    Oh! La mia sorellina, pensavo fosse la mamma.

    E invece sono io e sono venuta per te, volevo condividere con qualcuno l’idea che ho avuto!

    Sua sorella non si presentava mai in quella casa con tanta enfasi, di solito passava per recuperare i figli dai nonni, per prendere qualcosa che aveva cucinato la madre o poco più. Sua sorella correva sempre, anche dietro la vita, che sembrava accelerarle davanti ogni volta che sentiva di essere vicino alla serenità. Alla felicità non ci aveva mai nemmeno creduto. Almeno Luca pensava così, perciò vederla con quella carica lo fece sistemare sulla poltrona e gli fece aggiustare anche gli occhiali, giusto per dimostrare che era pronto a saperne di più. La pausa di Luca fu mal interpretata dalla sorella, che perse un po’ di convinzione, ma alla fine, dopo aver schiarito la voce, presentò la sua idea.

    Ho pensato che per il compleanno della nonna potremmo farle una festa a sorpresa. Sgranò gli occhi, desiderosa di un consenso che temeva da sempre.

    Una festa a sorpresa?… Ma la nonna è rincoglionita, è sorda, tutte le sue amiche sono morte, che cazzo di festa vuoi farle?

    Ascolta, non è che i cento anni si festeggino con le compagne di scuola, disse Sara. Luca rise e questo la rincuorò. Intendo una festa con la famiglia, ripescare qualche cugino che non sentiamo da un po’, chiamare lo zio e la zia, e magari invitare il sindaco.

    Il sindaco?

    Sì! Perché no? Be' non credo che ci siano tanti centenari qua in paese.

    Se viene il sindaco a me non mi vedi, per il resto cosa vuoi che ti dica, metterla lì in mezzo, senza che capisca un cazzo, a me farebbe solo pena.

    Sei il solito stronzo, non pensi mai a chi ti sta intorno, sarebbe qualcosa che ci rallegrerebbe un po’, darebbe un briciolo di brio anche al papà e alla mamma. Fece una pausa, sebbene la voce non fosse più limpida come prima, continuò: Magari permetterebbe di riavvicinare qualcuno di noi, ci farebbe sentire una famiglia.

    Lui la guardò, povera Sara, da sempre a fare da collante a quella famiglia scucita. Luca pensava che la sua fosse una famiglia made in China, c’era poco da fare, ne sfornavano a milioni nei laboratori di Shanghai e questa era difettosa, rattoppavi da una parte e si sfilacciava qualche rapporto da un’altra. Il silenzio, per quanto durasse da pochi secondi, cominciò a farsi pesante, ma siccome sua sorella non se ne andava, toccò a lui dire qualcosa, perché da sempre, di fronte a un impasse in una conversazione familiare, toccava a lui rilanciare.

    Va bene, Sara, ma non ti mettere a fare l’assistente sociale, se vuoi organizzare una festa per la nonna ok, ma lascia perdere cose del tipo «coinvolgo tutti» o cose del genere. Perché ti conosco, saresti capace di mandare me e Leo a comprarle il regalo, magari accompagnati da quel coglione di tuo marito.

    Ma perché sei sempre così acido, cosa c’entra adesso Achille, perché devi sempre esagerare… forzare… accendere una conversazione per litigare?

    No, ascolta bene, è proprio per evitare litigi o situazioni imbarazzanti che metto dei paletti, poi tu fai ciò che vuoi.

    E dare del coglione ad Achille che paletto era?

    Scusa, hai ragione però…

    Sara si alzò, si avvicinò e si chinò su di lui sussurrandogli all’orecchio un: Sei uno stronzo molto complice. Poi lo baciò sulla fronte e si avvicinò alla porta della taverna. In quel momento riecheggiò la voce della loro mamma che annunciava come fosse pronto in tavola, ma non sentendo rispondere scese due scalini e chiese a Luca se voleva mangiare giù o se saliva. Sara aprì la porta e rispose per il fratello: Ora viene, poi si voltò verso di lui e a bassa voce gli disse: Ma non ti vergogni a trattarla come una schiava? Hai quasi quarant’anni, tanta emancipazione, tanta emancipazione e poi, trattato come l’erede al trono.

    Sai che bel regno di merda mi toccherebbe governare. Sono il re di Sant’Agostino di Albignasego, non esisterà nemmeno nei navigatori.

    Lì c’è, Achille c’aveva provato quando comprammo il Tom Tom.

    Sennò non sapeva come arrivare qua.

    Che scemo che sei, ora vado e mi raccomando: non far scendere la mamma a portarti il pranzo, ché ti conosco, appena me ne vado, qua fai il padrone. Mangia con loro qualche volta.

    Vai ché fai tardi, rispose lui per liquidarla bonariamente. Poi le mandò un bacio in modo un po’ teatrale.

    Sara uscì dalla stanza e salì per le scale. Al quinto scalino incontrò sua madre che stava scendendo con un vassoio. Avrebbe voluto dire molto, come tante altre volte, ma come al solito era tardi, perciò non disse niente, salvo un ciao leggero come una farfalla.

    La madre di Luca, nonostante la porta fosse rimasta aperta, bussò, e per poco il piatto di pasta non le scivolò fuori dal vassoio. Luca era di fronte al computer come al solito e si voltò appena. C’erano dei fogli stropicciati sopra la scrivania e un paio appallottolati in un cestino alla sua sinistra. La madre si fermò accanto a lui con il vassoio in mano, pronta ad appoggiarlo dove gli avesse indicato, perché sebbene fosse evidente che si dovesse sgombrare la scrivania, Luca non l’aveva fatto mentre arrivava sua madre, facendola sostare quell’attimo in più, un’inezia a dir la verità, però necessaria, affinché si realizzino quei piccoli soprusi quotidiani che avvelenano i nostri rapporti affettivi. Il senso di superiorità e l’autostima si rafforzano, ma in maniera talmente superficiale e passeggera da dover ripetere continuamente quelle inutili e piccole vittorie che danno dipendenza, proprio come le droghe, e come succede con le droghe, o ti fermi subito o non ti fermi più.

    Ti ho fatto la pasta con il provolone, disse sua madre cercando di manifestare la sua presenza.

    Grazie mamma, ora ti libero subito la scrivania... aspetta un secondo. La gentilezza quasi formale di Luca seguiva ancora il canovaccio di prima, gli occhi rimanevano fissi sulle notizie del sito di Repubblica, mentre la madre sembrava una di quei ragazzetti che portano il cibo take-away negli uffici americani e che tante volte abbiamo visto nei film.

    Alla fine i fogli furono spostati con la mano, come spazzati via, e il dubbio che un capolavoro richiedesse più cura sarebbe venuto a tutti, ma non a sua madre.

    Suo figlio Luca stava scrivendo un capolavoro, ne era certa, doveva essere così. Lui era diverso da tutti i parenti, aveva questa passione per i libri, per l’arte, il cinema, la musica, una cultura esagerata che gli altri non capivano e invidiavano, ma lei lo proteggeva, fino alla vincita dello Strega l’avrebbe sostenuto.

    La madre di Luca uscì dalla taverna fiduciosa come ogni giorno, e a niente sarebbe valso mostrargli il nulla di quei fogli sulla scrivania e gli scarabocchi in quelli dentro al cestino. Niente di niente c’era scritto. Sembrava una storia ai limiti del paradosso, una di quelle tristi storie che sembrano impossibili e che ogni tanto però vengono fuori, di quelle persone che perdono il lavoro, ma non lo dicono a nessuno e fingono di andare a lavorare, finché i soldi prima o poi scarseggiano e il nodo viene al pettine. Ma nel caso di Luca il pericolo era che non essendoci nessuno stipendio di mezzo, il tutto si potesse reiterare all’infinito. Lui stava là, deluso dal mondo, dall’università che non era riuscito a finire, ma che ancora aleggiava là intorno, come qualcosa di possibile. Accanto al computer c’era ancora il libretto, ma era difficile capire se nel tenerlo lì ci fosse una sorta di autolesionismo psicologico o un piccolo tentativo di mantenere vivo un sogno, un obiettivo nella vita, via via che tutte le speranze venivano vanificate.

    Da poco più di due anni a questa parte, da quando era tornato a vivere con i suoi, la sua vita era diventata così, una specie di farsa a cui nessuno sapeva dare un cambio di rotta. Sua sorella era l’unica che con un po’ più di tempo a disposizione avrebbe potuto aprire una breccia, perché suo fratello Leo era preso dalle abbronzature e dal fisico, Marco se ne era scappato in Australia ed era troppo giovane, sua madre lo idolatrava... e suo padre? Suo padre che faceva? Chi era? Dov’era? Era sopra in cucina o in salotto, e siccome era ancora caldo stava di sicuro con i suoi pantaloncini corti, la canottiera dentro i pantaloni, i calzini bianchi e i sandali. Una visione penosa, così sembrava a Luca, e meno male che gli scambi tra i due fossero praticamente nulli, altrimenti si sarebbe arrivati a quegli imbarazzanti litigi tra padre e figlio che passata l’adolescenza risultano insanabili.

    Fortunatamente quando era tornato a casa c’era stata quella taverna ad accoglierlo. Doveva soltanto sostenere con sua madre quella particina dello scrittore in procinto di creare. Il lunedì prendeva due fogli, li appallottolava, e li buttava nel cestino con l’immancabile tiro a canestro, il martedì ne metteva uno, il mercoledì di nuovo due, e così via, poi quando sua madre il sabato puliva la taverna e gli chiedeva se poteva svuotare il cestino, lui faceva sempre una pausa come a dire fammi pensareoggi il Decamerone l’ho finito, gli appunti che mi sono serviti ormai sono inutili… sì butta pure.

    Ma in quei fogli non c’era mai scritto niente, a volte qualche pensiero, ma niente di più. Sua madre usciva convinta che fosse stato aggiunto un altro tassello al capolavoro e quindi saliva a cucinare, a preparare qualcosa per il suo genio. Forse, dato che la madre era come in perenne stato di ipnosi, sarebbe stato il caso che suo padre intervenisse. Ma anche suo padre Roberto era come tanti altri veneti della sua generazione, quando era fuori, al bar o in gruppo, aveva un maschilismo convinto e autoritario, ma in casa diventava impalpabile e, se qualche accesso d’ira quando erano più piccoli i figli lo aveva reso almeno esistente, adesso che i figli erano cresciuti e che le relazioni si svolgevano su altri binari, tutto veniva delegato alla moglie.

    Suo padre aveva da tempo il sospetto che con quel figlio qualcosa fosse andato storto, gli altri tre facevano la loro vita, due lavoravano, uno era andato a cercare fortuna all’estero come si faceva tanti anni prima. Sara aveva anche due figli, un marito lavoratore, insomma c’era della normalità, forse della felicità no, ma almeno normalità, e lui, che era stato un operaio per quasi quarant’anni, pensava che la normalità fosse il vero unico obiettivo per dire: Be' dai, la mia vita l’ho fatta, ora tocca agli altri, felice no, ma anche sì, mica ero il padrone io, quello coi soldi. Poi vagli a spiegare ai bambini a scuola che i soldi non sono tutto, quando per le altre venti ore fuori da un’aula tutti la pensano in maniera opposta, maestri e professori compresi.

    La pasta era buona, Luca si pulì la bocca sporca di sugo con il dorso della mano, poi mollò anche un sonoro rutto, ma essendo da solo nessuno protestò. Pensò a una frase che gli sembrò degna di un buon romanzo: «le convenzioni sociali si perdono velocemente se uno si isola dal resto del mondo.» Bevve l’ultimo mezzo bicchiere di vino che gli era rimasto, pochi secondi dopo svuotò anche quello d’acqua. Scostò il vassoio e recuperò i fogli, poi, siccome ancora gli riecheggiava in testa il rimprovero della sorella, decise di salire a riportare il vassoio. Appena arrivato di sopra sentì chiara la televisione, e pensò che fosse una fortuna che non dovesse pasteggiare con i suoi, perché ciò che lui riteneva il peggio del peggio, i suoi genitori se lo ciucciavano quotidianamente. Fosse venuta a casa una regina delle riviste rosa, probabilmente avrebbero avuto la stessa reazione di un’apparizione della Madonna, e dire che tutti e due i suoi genitori si dicevano credenti, sebbene non si capisca mai chi ci creda davvero e chi lo dica perché bisogna. Suo padre bofonchiò qualcosa, ma Luca non volle curarsi se quel tono lamentoso fosse rivolto a lui. Sua madre però fu lesta a sovrapporsi alla voce del marito, dicendo che sarebbe scesa lei. Luca disse che non si doveva preoccupare, ma mentre parlava pensava: Sarà intervenuta perché aveva intuito che suo padre si stava lamentando di lui oppure era solo prevenuta e con quel tentativo di anticipare ogni possibile attrito, non permetteva in realtà che delle cose banali si smontassero da subito prima di diventare delle muraglie invalicabili?

    Forse era il caso che lui sbattesse il vassoio a terra, richiamasse la loro attenzione e gli facesse notare che così non era normale, o lo sfogo isterico sarebbe stato più giustificato e comprensibile se fatto da uno dei genitori?

    La mente umana a volte ragiona così velocemente da mandare in confusione, da non permettere di agire, ma appena sentì la chiave sulla serratura, il suo stato catatonico svanì. Fu un fulmine a lasciare il vassoio sul tavolo di cucina e ad andare in bagno.

    La madre ebbe uno dei tanti dispiaceri delle sue giornate nel vedere che i due figli, cresciuti insieme, neanche avessero la forza di incrociarsi. Il padre non è che la vivesse meglio, ma era convinto che in quella famiglia il maschio dovesse essere uno, come nei branchi di lupi. D’altronde dopo che era morto suo padre, anche lui a un certo punto si era scontrato con il fratello, per motivi futili e prematuri per ragazzi di vent’anni eppure, se suo fratello Enrico non fosse emigrato in Germania, chissà come sarebbe andata a finire.

    Leo entrò in casa, perfetto come al solito, sembrava pronto a una sfilata di moda. In pochi avrebbero immaginato che di lì a dieci minuti sarebbe andato a lavorare dietro il banco dei salumi al supermercato in fondo alla via. Leo si era accorto con la coda dell’occhio che suo fratello era scappato, e rimase indeciso se esultare dentro di sé, per la sua capacità di far scappare il fratello maggiore o se chiedersi per una volta dove fosse cominciato tutto questo. Ma se per sua sorella il tempo per pensare non era mai sufficiente perché sempre in ritardo, per lui, che ancora non aveva famiglia, c’era un altro problema: il telefono. Appena salutati i suoi, l’immancabile suoneria sparata a mille riecheggiò per tutta la casa. Luca stava guardando allo specchio i pochi capelli che gli erano rimasti, ma sentendo la suoneria del fratello fu scosso da un impeto d’indignazione. Possibile che avesse delle suonerie del genere? Neanche a Napoli nei quartieri spagnoli esisteva qualcuno con la suoneria dell’ultima hit di Gigi D’Alessio. Appena il tono di suo fratello si abbassò un po’, Luca realizzò che anche per quella sera l’attività sessuale tra lui e Leo sarebbe stata ben diversa. Poco dopo sentì il fratello che stava portando i saluti da parte della signora Boscolo, che il giorno prima era andata al supermercato a prendere i soliti trenta grammi di prosciutto tagliato sottile. Sentì una risata di scherno in sottofondo, perché la signora Boscolo non era povera, ma tirchia, di lì a un minuto qualche commento del genere sarebbe arrivato, ne era sicuro. L’Italia marciva, il mondo marciva, e quelli erano a discutere ogni volta della quantità di prosciutto comprato dalla signora Boscolo. E se non era lei, c’era il signor Antonio, quello con il cane bianco, che da quando era rimasto vedovo mangiava solo porchetta, poaretto. Almeno però ridevano, il nulla delle loro discussioni era commentato da un riso frustrato, vendicativo, che chissà in quante case dei vicini era riecheggiato più volte riguardante la loro famiglia. Però era riso, c’era un po’ di leggerezza, mentre quei deficienti che parlavano in tv, con la De Filippi a menare le danze, parlavano anche loro del nulla, solo del nulla, ma con quell’aria seria, da far pensare che solo la violenza li avrebbe fermati. La violenza nasce così? Sempre davanti allo specchio, sempre suggerita dall’altro io. Luca pensò che in un romanzo dei pensieri del genere sarebbero stati di buon livello, doveva trovare la forma, ma soprattutto la storia giusta. Il problema era la storia giusta, ma tutto era stato scritto, dove poteva cercare lo spunto per metterci i suoi pensieri? Attendeva paziente e, un giorno, qualcosa di più di una frase o di un inizio, gli sarebbe venuto in mente. Una volta arrivato al successo, avrebbe poi scritto il suo capolavoro, anche quello con poche pagine già scritte, ma a differenza degli altri incipit questo l’aveva tutto in testa. Prima però aveva bisogno di un romanzo apripista, altrimenti la storia sulla sua famiglia sarebbe passata per il diarietto di uno sfigato-frustrato e non come il libro denuncia dell’intero Occidente. Prima un po’ di successo, poi il capolavoro. Quella era la strada.

    Quando dopo poco sentì la madre che augurava buon lavoro a Leo, tirò lo sciacquone, si lavò le mani e uscì dal bagno. Per evitare lo sguardo giudicante di sua madre, voltò la testa verso la poltrona dove era seduta sua nonna. Bella, nonna Gina, seduta in disparte, di fronte alla tivù, senza sentire niente, senza un lamento, con il suo rosario in mano, sempre bello stretto, che forse era l’unica cosa a cui teneva ancora, perciò lo stringeva tanto forte, per evitare che glielo portassero via. Chissà se nella sua testa, se glielo avessero strappato dalle mani, gli avrebbero strappato anche l’anima. Non aveva mai controllato, ma gli venne il dubbio che funzionasse come la catenella di qualche portachiavi, solo che in fondo c’era attaccata l’anima di sua nonna. E Sara che voleva fare la festa a quella povera nonna, gli avrebbero messo un patetico cappellino, tutti i parenti intorno a turno per fare la foto e poi quella torta enorme davanti con cento candeline. Avrebbe avuto il fiato per spegnerne più di dieci?

    Ciò che fregava Luca era che, ridiscendendo verso la sua tana, sarebbe stato capace di stare a pensare per ore a cazzate come quella del rosario e dell’anima, piccole fantasie che nelle persone adattate al mondo filano via veloci. Il problema è tutto nella relatività del tempo rispetto al mondo, ognuno avrebbe dovuto avere il suo mondo, con il proprio ritmo e, allora, la felicità sarebbe stata più diffusa, ma così, con sette miliardi di mondi fusi in uno solo, come si poteva non scontrarsi? E il bello era che l’uomo continuava a crescere di numero. L’unica soluzione era rintanarsi, chiudersi. Laggiù in taverna il tempo scorreva al giusto ritmo, scandito da Luca stesso. Se gli servivano tre ore per dissipare un piccolo dubbio, sarebbero servite tre ore, né più, ma soprattutto né meno.

    Era di nuovo seduto di fronte al computer e per un attimo ebbe la tentazione di andare a rileggere uno dei suoi tanti inizi. Ma a che pro? Lo sapeva quasi a memoria.

    Aveva provato a presentarlo ai familiari però, ognuno a suo modo, gli avevano dato tutti delle risposte poco convincenti. Deluso, aveva tentato di leggerlo anche alla nonna, ma lei, dopo aver alzato la testa in segno interrogativo, aveva ricominciato a stringere il suo rosario e a sussurrare le sue preghiere. Una sorda che parlava sempre a voce bassa. Anche la sorda mal funzionante avevano fatto a Shanghai. Era ossessionato dai cinesi, o forse lo erano tutti. ‘Sti disgraziati, che per andare alla conquista del mondo continuavano a soffocare loro stessi in casa propria. È pensando a loro, al loro cibo, alla loro cultura e a quante se ne raccontavano sul loro stile di vita che gli era venuto in mente di scrivere Take away cinese. Era un romanzo, almeno nella sua testa, ma poi oltre alla trama, all’idea geniale e a due paginette non c’era nient’altro.

    Una grande cucina sotterranea in quel di Prato, che attraverso dei tunnel distribuiva il cibo in tutta Italia. Quando si sentivano i rumori dalle cucine delle varie rosticcerie, in realtà era tutto finto. E questi ragazzetti che trasportavano le vaschette piene di cibo con moto superveloci e percorrendo a folle velocità i tunnel scavati in maniera capillare in tutta Italia. Per quello tutti i piatti cinesi sembrano avere un qualcosa in comune, un gusto quasi sempre uguale. Aveva trovato la cartella, l’aprì e lesse i caratteri più grandi e in grassetto del titolo: Take Away Cinese. Poi cominciò a scorrere:

    "La prima pietra era stata posata nel millenovecentonottantasei, questa, dopo tanti secoli, era la seconda vera grande opera della Cina. Una grande muraglia sotterranea, che questa volta non sarebbe servita per difendersi dalle invasioni mongole, ma sarebbe servita per distribuire il cibo in tutta Italia. L’idea di mister Chuan."

    La lettura s’interruppe all’improvviso perché gli era arrivato un messaggio sul cellulare. Era Asia, sua nipote. Lo avvertiva che l’avrebbe chiamato dopo pochi minuti, appena scesa dall’autobus. Luca pensò che forse quelle continue promozioni su messaggi gratuiti da spedire avevano l’unica funzione di rendere il mondo pieno di parole superflue. Chiuse il file, picchiettò le dita sulla scrivania e poco dopo arrivò la chiamata di Asia.

    Ciao Zione.

    Ciao Asia.

    Posso passare domani per farti leggere la relazione sul film che ci ha fatto vedere quello di italiano?

    Che film è?

    La grande bellezza, non ti ricordi che te l’avevo detto?

    Ehm… Sì, mi pare.

    Bugiardo, e rise.

    Ah! È così che tratti tuo zio? Falla leggere a tuo… S’interruppe in tempo, sebbene avesse capito il tono scherzoso di lei, sebbene volesse essere solo spiritoso e non sarcastico, stava per colpire Achille, il che non gli dispiaceva per niente, ma c’era bisogno di farlo con una ragazzina, che per di più era sua figlia?

    Asia intuì, ma neanche lei aveva voglia di avvelenare qualcuno, forse volle salvaguardare più se stessa dal rimorso per una cattiveria su suo padre, piuttosto che suo padre stesso. Perciò chiuse la conversazione, confermando l’appuntamento per il giorno dopo.

    Era un po’ più triste adesso, e pensare che aveva aspettato quella chiamata con grande ansia. Si toccò i capelli che arrivavano sulle spalle, ma che era difficile intuire se fossero corti o lunghi, erano indefiniti, come lei. La vetrina della panetteria, di fronte alla fermata dell’autobus, che di solito le serviva per uno sguardo di autoapprovazione, la evitò, perché ebbe paura di non vedersi. Nemmeno si soffermò a guardarsi il naso, che non era bello, leggermente curvo e piegato verso la destra com’era, però era identico a quello di suo zio, perciò l’apprezzava, per il resto era sputata a suo padre, stessi occhi, stessa forma del viso, stessa attaccatura dei capelli. Sembrava un ritratto in cui avevano voluto farle uno scherzo, mettendo quel naso che non c’entrava niente, ma invece le avevano fatto un regalo, così sentiva che non era identica a uno il cui unico vero interesse era solo che alla domenica funzionasse il decoder di Sky per vedere Del Piero.

    Luca si perse nel mare di internet. Quel film doveva essere bello, ma non l’aveva visto. Avrebbe estrapolato un giudizio da qualche sito, come ormai faceva per tutto. Poi, a ciò che la rete suggeriva, avrebbe mescolato il retaggio di ciò che era la sua formazione. Aveva visto molto di Sorrentino, e gli piaceva, ma ormai non aveva la forza di andare al cinema. Aveva un multisala vicino a casa, ma costava un occhio della testa, e poi, sebbene amasse vedere i film da solo, adesso era solo, perciò andare al cinema da solo non sarebbe più stata una scelta, ma un obbligo. E se avesse incontrato qualcuno? Magari anche la troia, che ora se la faceva con un ragazzino imbecille.

    Decise che era tempo di una sigaretta, ma aveva finito il tabacco. Sarebbe dovuto uscire, ma non ne aveva nessuna voglia. Non avrebbe neppure potuto chiedere a sua madre, perché dirle di andargli a comprare il tabacco lo metteva a disagio, dato che la storia del fumo o non fumo durava da secoli... Fumare e non fumare gli faceva vivere peggio il problema del fumo, perché quando sei un fumatore le sigarette sono sempre lì a portata di mano e non pensi che ti stai facendo del male. Le compri in automatico, ma quando invece cominci con il fumo/non fumo significa trovarsi spesso senza, e quel momento in cui devi andare a comprarle perché non le hai si dilata, quindi ti senti più spesso un tossico.

    Indossò dei pantaloni stirati alla perfezione pensando di andare dal tabacchino del centro commerciale, dove i venditori non avevano il tempo di perdersi nella chiacchiera familiare, e a lui non sarebbe toccato fare il solito sorriso tirato se qualcuno avesse fatto qualche riferimento alla sua professione di scrittore.

    Sua madre a volte si sentiva come se fosse stata la mamma di Hemingway, qualcuno l’avrebbe dovuta fermare, ma chi? Lui no di certo. Si sedette sul letto e si mise le scarpe da ginnastica, che rientravano più nello stile che per anni si era cucito addosso, rispetto a quei pantaloni da damerino, che poi a guardarli bene erano semplicemente stirati perfetti.

    Uscendo di casa salutò sua madre di sfuggita, dicendole un confuso torno subito. Sua madre era contenta nel vederlo uscire, perché per quanto convinta del valore di Luca, pensare che quel ragazzo non uscisse mai le sembrava strano. Anche in questo Leo era il contrario, con la casa aveva lo stesso rapporto di un turista in un hotel. E chissà laggiù, dall’altra parte del mondo, quanto usciva anche il suo piccolino. Poi prese l’aspirapolvere e lo passò in cucina.

    Luca s’incamminò. Aveva il passo calmo e stava riflettendo. La cosa buffa era che quel passo e quelle riflessioni non erano frutto dell’animo sensibile del poeta decadente in giro per Parigi, ma una decisione presa a tavolino. Camminando così piano cercava di carpire all’intorno un’ispirazione sincera e profonda, che lo avrebbe fatto andare sciolto per le prime cento pagine. Osservava quelle case nate vecchie, con quell’assenza di personalità che possono avere le caserme dismesse. Erano quattro mura, tirate su per dormire, e quei giardini, divisi a metà tra orto e fiori, ne facevano un incrocio che risultava un triste ripostiglio esterno. Quelle case avevano un giardino perché ci doveva essere, ma la mentalità della gente del posto, bramosa di sfruttare ogni minimo centimetro di terra, per non ritrovarsi in punto di morte a rimpiangere quella zolla non utilizzata a dovere che non aveva permesso una vita piena di agi, faceva creare quegli spazi né carne né pesce.

    Quella breve passeggiata, che avrebbe potuto provocare la scintilla tanto attesa, fu interrotta nel modo più spiacevole.

    Luca stava guardando i numerosi nuovi appartamenti che crescevano come funghi nel suo quartiere, e avendo la testa girata verso le case in costruzione, non si accorse di chi gli stava venendo incontro. Quando fu a un paio di metri dalla signora Tonelli, lei lo richiamò sulla terra.

    Luca attento, ché c’ho anche le uova.

    Mi scusi signora, buongiorno… e cercò di svicolare. Alla signora Tonelli? Lei con una mossa astuta gli appoggiò la borsa della spesa quasi davanti ai piedi e il carrellino semivuoto se lo appoggiò a un fianco, in diagonale, così da ridurre lo spazio per passare. Luca fu costretto a fermarsi. Aspettò un momento, poi decise che con una banalità sulle case forse in due secondi se la sarebbe cavata. Con la signora Tonelli?

    'Ste case sono spuntate come funghi. E con la crisi chissà quante ne compreranno. Non era una vera e propria banalità da liquidare in due secondi, ma la signora Tonelli lo fece, anche in un tempo minore: "Qualcuno che ga i schei, c’è sempre, rispose. Luca ebbe l’ingenuità di pensare che fosse finita lì, e mostrò il collo. Mostrare il collo alla signora Tonelli? Errore. Il tentativo di congedarsi con un innocuo (secondo lui): Ha fatto la spesa, non la trattengo perché con questo caldo…" Fallì miseramente. La signora Tonelli non chiosò benedicendo i frigoriferi o il progresso in generale, perché non aveva la minima intenzione di farsi sfuggire la preda. Loro vicina di casa da una vita, invidiosa quanto la madre di Luca, se non di più, aveva avuto un discreto sollievo quando aveva intuito che Luca non si sarebbe laureato e che quindi la triennale di un suo nipote sarebbe rimasta comunque inarrivabile ancora per anni. Aveva la possibilità di far male, perciò non avrebbe perso l’occasione per degli stupidi spinaci scongelati. Sapeva del rapporto rovinato tra i due fratelli, che erano sempre stati più brillanti dei suoi e più belli. Però ora c’era da godersela un po’.

    Ah non ho niente da mettere nel congelatore, mentendo sugli spinaci. Ho preso la mortadella e sai chi me l’ha servita?

    Leo? azzardò facilmente Luca.

    Eh sì! È sempre uguale, bello come il sole, sembra che non gli passino gli anni, ma quanti ne ha?

    Trentasei mi pare.

    Ma non sai l’età di tuo fratello?

    Sì… è che … mi confondo sempre, perché li compie tra poco. Ma il vero godimento di questo simpatico genere di signore che anima la campagna veneta non è l’umiliazione, ma il veleno altrui, il vero obiettivo non era quello di ferire Luca, ma di provocare in lui una reazione incattivita sul fratello.

    "Ha sempre la battuta pronta, e se una è giovane poi, a me sai, oramai so vecia, ma come fa a tenersi così? Deve fare qualche sport, e poi pare sempre abbronzato, anche a Natale."

    Esistono le lampade signora.

    Ah, si fa le lampade, ma dicono che facciano male, anche mia figlia se le faceva qualche anno fa, ma poche, lui per essere così scuro deve farne tante.

    Non lo so, non è che lo accompagni io. Il tono di Luca stava diventando più seccato, intuiva la malignità latente, anche perché erano tutte così là in campagna. Ma lui non ci sarebbe cascato, non era mica ingenuo come suo fratello.

    "Ah, ora vado caro, be', te sei più bianchiccio, ma ti sei sempre stato per i libri, mi sa che Leo mica tanto," fece finta di congedarsi la Tonelli.

    Eh con le lampade prendono fuoco, rispose Luca.

    La signora Tonelli contenne una risatina da strega e venne fuori solo un ihihihi, che però faceva intuire come avesse fatto centro. Luca pensò che c’era cascato, ma alla fine che avesse un fratello capra non era una grande rivelazione per nessuno. Gli bruciava solo di averla data vinta a quella vecchia campagnola, che sarebbe rientrata in casa e avrebbe detto: "Go visto el scritor, è sempre più strano, e poi con il fratello non si sopportano." E poi dieci minuti di commenti sulla famiglia Tommasin e tutte le loro disgrazie. Brutta vecchia malevola campagnola. Per Luca il rientro nel quartiere dov’era nato era stato una retrocessione al mondo dell’inciviltà, dell’ignoranza, cose che a Padova gli sembravano stemperate dal mondo dell’università. Peccato che il cartello di Padova, quello che indica l’inizio della città, distasse dal punto in cui aveva incontrato la signora Tonelli circa settecento metri. Il che rendeva la sua teoria alquanto forzata. È vero che prima che costruissero dappertutto lo stacco con Padova era maggiore, ma lui era pur sempre cresciuto a un quarto d’ora in bici dal centro. Pertanto la colpa era della città intera, più che della campagna padovana? O era del veneto bigotto? O di tutta l’Italia con la sua cultura ipocrito-cattolica? E il mondo occidentale? Probabilmente dipendeva dal genere umano in sé.

    Passò accanto alla chiesa nell’istante in cui rintoccarono le tre e mezza. C’era un assembramento di mamme, nonni e qualche raro padre che stavano aspettando l’uscita dei loro piccoli dall’asilo. Luca guardò quel bendiddio che era in mano alla curia: una scuola, un patronato, un campo da calcio, una chiesa, una moderna struttura per praticare altri sport e pensò che loro, che avevano dato una risposta a chi avesse creato la malignità nel mondo, ne avevano tratto numerosi benefici. Forse il suo romanzo avrebbe dovuto parlare di quello, preparare un bel libro per gli atei come lui, in cui ci fosse una risposta definitiva alla cattiveria. Se avesse avuto successo, se lo sarebbe comprato di sicuro anche la signora Tonelli. Magari sarebbe andata come in quel meraviglioso film sulla DDR, La vita degli altri, in cui alla fine il libro viene acquistato da colui a cui è stato dedicato. Lui avrebbe potuto scrivere nel frontespizio, alla cattiveria della mia vicina, e lei, andandolo a comprare, avrebbe risposto alla domanda del cassiere se dovesse incartarlo per un regalo: No è per me. Che spettacolo, forse ne avrebbero tratto un film.

    Luca continuava a camminare, ma l’ispirazione non gli venne, guardò se vedeva madri e padri suoi coetanei, che ronzavano attorno alle scuole per recuperare i figli. Gli era difficile intuire se li guardasse con una sorta d’invidia per essere riusciti ad accettare la normalità o se c’era una sorta di compassione per quei poveretti che si erano ritrovati in vite più grandi di loro, incapaci di gestire se stessi, figurarsi dei figli.

    Svoltato l’angolo, tra gli alberi e l’ennesima ruspa che andava su e giù, in quella coppia di vecchi spettatori, riconobbe la sagoma di suo padre. Come poteva scrivere di quello, come poteva trarre ispirazione dalla delusione per un padre? Solo lo scheletro lo teneva su, ma era l’evoluzione di una medusa che galleggiava intorno a quei lavori. E pensare che Roberto, suo padre, in realtà sarebbe voluto andare a giocare a carte al patronato, ma non si sentiva di andarci per colpa di quel figlio che ora, alle sue spalle, a distanza di poche decine di metri lo disprezzava. Gli aveva rovinato la vita da pensionato, il meritato riposo. Sembrava avesse aspettato il momento giusto, lui che aveva lavorato una vita per mandare tutti avanti. Disposto a fare i turni, gli straordinari, e poi trovarsi con suo figlio che aveva mandato tutto a carte quarantotto, proprio nel momento in cui sarebbe dovuta cominciare quella giusta routine di pace che lo avrebbe accompagnato fino alla fine. Niente da fare, tutto compromesso.

    Mancava pochissimo alla sua pensione, decisero di fare una vacanza con la moglie, e lasciarono l’impegno di andare ad annaffiare a Luca. «Magari accendi qualche luce ogni tanto, così per i ladri.» Suo fratello aveva invitato sua madre in Germania e miracolosamente l’avrebbe tenuta per due settimane. Povera santa, era andata controvoglia, ma capiva che un viaggio se lo meritavano, visto che praticamente non si erano mai mossi dal Veneto. Era tutto previsto, sia il viaggio sia quella torre di ferro da mettere sopra la tv, che sembrava una vecchia antenna come quelle che servivano alle prime televisioni. Leo era in vacanza con gli amici e Marco a casa di Sara, tutto perfetto. Ma al ritorno tutto era cambiato, tutti che lo guardavano con il sorriso, e chi da allora in poi aveva avuto il coraggio di andare a vedere le partite della squadra di quartiere? Chi aveva il coraggio di ritornare disinvolto sui tavoli del patronato? La chiesa ti lascia lì se sgarri, anzi ti consiglia di lasciarti lì da solo, senza che nessuno faccia niente, soprattutto a una certa età, bastano gli sguardi, i mezzi sorrisi, i commenti tirati via, perché improvvisamente si ha fretta per parlare del più o del meno, per discutere del tempo impazzito, delle magagne della salute, di figli e nipoti. A meno che non si voglia ammettere le proprie colpe per avere un figlio pazzo. Allora tutti avrebbero trovato il tempo di fermarsi, ma lui che colpe aveva? Un bel biglietto bianco fuori dal cancelletto, ben visibile a tutti i passanti, scritto con il pennarello. Se lo ricordava a memoria, l’aveva riletto decine di volte, ma per impararlo gliene era bastata una:

    CARO LADRO, SE SEI COSÌ RIDOTTO MALE DA VENIRE A RUBARE QUA DENTRO, SAPPI CHE STAI PERDENDO TEMPO. QUA NON CI SONO NÉ SOLDI NÉ GIOIELLI! I MIEI GENITORI SONO USCITI PER LA PRIMA VOLTA IN VITA LORO DA QUESTO BUCO DI QUARTIERE. SE HAI BISOGNO DI QUEI DUE SPICCIOLI

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