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L’Evangelizzatore
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L’Evangelizzatore

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About this ebook

Gli agenti FBI sono messi alla frusta da una serie di delitti efferati che sta insanguinando la città di New York. Le motivazioni dell'assassino non sono note, il modus operandi è originale.
Ma, malgrado tutto, non è questo il pericolo più grande che incombe sulla città: l'ombra del terrorismo si allunga di nuovo sulla Grande Mela, e ciò che resta di Hawkeye dovrà tornare in azione, stavolta sotto il nome di Sentinel.
Dopo "L'Androgino" e "Il Consulente", una nuova appassionante avventura firmata Marcello Rodi.
LanguageItaliano
Release dateNov 3, 2017
ISBN9788898555383
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    L’Evangelizzatore - Marcello Rodi

    sparire.

    1

    Kim

    C'è un luogo sulla faccia della terra dove vengono decisi i destini del mondo: si trova al 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C., dentro un edificio noto come the White House, la Casa Bianca. È uno studio dalla forma stravagante, che ha fatto dannare l'anima a moltissimi produttori di mobili negli Stati Uniti, perché ha un'unica parete senza angoli. È infatti conosciuto come lo Studio Ovale.

    Quella mattina l’inquilino della Casa Bianca, il Presidente degli Stati Uniti d'America, non avrebbe mai potuto immaginare cosa lo stesse aspettando quando entrò in quel centro di potere preceduto dai suoi due cani, due esemplari della razza cao de agua portugues scelti a causa del loro pelo anallergico.

    Le due bestiole venivano da una lunga scorrazzata nel parco antistante la residenza presidenziale, e come tutti i cani dopo una corsa puzzavano di selvatico. Il Presidente fece finta di nulla per non urtare la loro sensibilità, prese posto sulla poltrona che si trovava dietro la scrivania, e iniziò a consultare i numerosi rapporti – compilati dalle varie agenzie – contenuti nelle cartelle che la sua segretaria personale aveva disposto ordinatamente sul piano del tavolo. Durante tale consultazione uno di quei documenti colpì la sua attenzione più degli altri.

    Il rapporto proveniva dalla Central Intelligence Agency, e riguardava la Corea del Nord. Il Caro Leader era spirato da qualche anno, ed il suo successore – il suo terzo figlio – appena nominato Grande successore dalla pomposa macchina politica nord-coreana, non faceva altro che minacciare gli Stati Uniti di attacchi nucleari, guidare esercitazioni militari e organizzare lanci missilistici, come nel tentativo di voler provocare a tutti i costi una reazione da parte della NATO.

    La cosa aveva spiazzato oltremodo l’amministrazione americana che, dalle notizie in suo possesso, sapeva che il rampollo del Caro Leader aveva studiato alla Scuola Inglese Internazionale di Berna (Svizzera), fino al 1998, sotto pseudonimo. Secondo le fonti della CIA, il giovanotto sapeva parlare coreano, inglese, francese e tedesco (anche nella sua variante svizzera). Inoltre era un appassionato di pallacanestro e un amante della vita lussuosa. Il Presidente più volte aveva reagito con fermezza alle provocazioni di Pyongyang, ma ora questo rapporto cambiava tutto.

    Premette il tasto dell’interfono per parlare con la sua segretaria: - Carol, per favore convoca qui S.

    - Si, Signor Presidente.

    Passò un’ora buona prima che l’interfono annunciasse al Presidente l’arrivo del Segretario di Stato. Quando si aprì la porta dello studio ovale, la figura dinoccolata di S si materializzò nella stanza.

    - Bando ai convenevoli, Johnny: ho bisogno di un tuo parere su una questione piuttosto delicata – esordì il Presidente. – Leggi attentamente questo rapporto: viene da uno dei migliori analisti della CIA, ed è supportato anche da informatori che abbiamo in loco. Quello che mi interessa sapere è cosa ne pensi tu, e soprattutto come pensi si debba procedere per accertare la validità di queste ipotesi.

    S inforcò i suoi occhiali da lettura e si immerse nell’esame del documento che era classificato COSMIC. Restò assorto per un po’, poi emise un sospiro e si sfilò gli occhiali rivolgendo lo sguardo verso il suo Comandante.

    - Se quello che c’è scritto fosse vero, sarebbe una svolta epocale per la stabilità dell’Estremo Oriente, dopo la scelta capitalista dei Cinesi.

    Sospirò di nuovo.

    - Andare a fondo in questa storia può essere un’arma a doppio taglio! Se la cosa è falsa, è una trappola tremenda, perché uno dei nostri catturato laggiù darebbe una risonanza inaudita alla grancassa propagandistica del regime comunista: passeremmo più o meno per terroristi internazionali che sono andati lì per rovesciare il governo del popolo. D’altra parte, se la storia è vera, e non possiamo saperlo senza un riscontro sul campo, rischiamo di farci sfuggire un’opportunità senza precedenti.

    - Dunque? – incalzò il Presidente.

    - L’unica cosa da fare è verificarla utilizzando canali non ufficiali: in passato abbiamo usato questa strategia quando non volevamo restare invischiati in situazioni troppo calde. Ha pagato, per cui sarei propenso a seguire questa strada.

    C’è una persona estremamente capace, che gestisce – da quando è in pensione – una società che si occupa di sicurezza. Usa dei contractors che sono uomini di grande esperienza ed affidabilità. Fa base nelle Hawaii, a Honolulu e più precisamente nella zona di Waikiki. Si chiama Melvin Hartigan.

    Il Presidente restò qualche minuto in silenzio, con espressione pensosa, probabilmente vagliando tutti i possibili scenari di quella situazione; poi, si limitò ad annuire.

    Quando il telefono squillò nell’appartamento al decimo piano del lussuoso condominio al 1860 di Ala Moana Boulevard – a poche centinaia di metri dall’Hilton Hawaiian Village Waikiki Beach Resort – Melvin Hartigan stava sfogliando i quotidiani del giorno, mentre il suo laptop era collegato alle principali agenzie di stampa tramite Twitter. Hartigan udì il rumore metallico all’altro capo del filo, e premette un bottone sull’apparecchio collegato al telefono.

    - Ora la linea è sicura – disse. Poi ascoltò in silenzio per un tempo abbastanza lungo. E alla fine, prima di riagganciare, - Ho capito.

    Si volse allora verso il computer, attivò la rete virtuale privata (VPN) con i parametri che ben conosceva, aprì un client di posta molto particolare ed osservò il messaggio che gli era stato inviato. Scorse rapidamente gli allegati, un dossier piuttosto corposo, epurato dalle informazioni sensibili e declassificato. Infine iniziò a pensare a chi poter affidare quel compito. Di certo, non a un americano: sarebbe risaltato come un elefante tra i pulcini in Corea del Nord. Aveva bisogno di un Coreano.

    Poi, si ricordò di Naperville.

    Kim guardava fuori dal finestrino, attraverso il vetro unto di polvere impastata con l’umidità dell’aria: non era agitato, né ansioso, nemmeno preoccupato. Era in una sorta di animazione sospesa, di atarassia; benché sapesse di rischiare l’osso del collo con quell’incarico, era comunque incuriosito dal fatto di poter vedere la terra dei suoi antenati: come tutti gli orientali, aveva dentro di sé il germe del culto delle tradizioni, nonostante la sua storia fosse lontana migliaia di miglia dalla patria dei suoi avi.

    Di famiglia coreana, Kim era oramai cittadino americano da tre generazioni. Il suo cognome originale (Doo-Han) era stato involontariamente americanizzato da un distratto impiegato del municipio di Pacifica, in California, che aveva omesso il trattino nel suo certificato di nascita. I genitori di Kim, attenti alle tradizioni ma di mentalità illuminata, decisero che il figliolo avrebbe scelto al compimento della maggiore età se ripristinare o meno quel retaggio ancestrale. Kim era cresciuto davanti alla TV con i telefilm interpretati da Robert Loggia e David Foster, ed aveva deciso di diventare un Agente Federale. Ritenendo quel trattino troppo ingombrante decise di soprassedere, e così il suo nome era rimasto quello di Kim Doohan.

    Quando si era arruolato, mai avrebbe pensato di finire in una sorta di squadra di élite del Bureau: la squadra di Vincent Casertano e di Sean McKenny, la squadra che aveva aperto lo spiraglio decisivo nelle indagini sull’attentato alle Torri, e che ne aveva sventato un altro al futuro Presidente degli Stati Uniti. Anzi, proprio quell’operazione era stata il suo battesimo del fuoco sul campo, nel piccolo centro di Naperville dove si nascondeva un importante basista del terrorismo islamico.

    In realtà aveva compreso molto poco di quello che era successo in quei momenti: aveva un incarico abbastanza marginale, ed aveva assistito da lontano a quanto era accaduto in quei velocissimi e concitati istanti. Ricordava di aver segnalato il passaggio dell’automobile che era stata indicata come sospetta, aveva visto un’auto della polizia locale fermarsi davanti al negozio tenuto sotto sorveglianza: poi i primi spari, i due colpi del fucile di precisione sparati dal suo collega Jack Vitiello dal tetto di fronte, gli uomini della SWAT e la grande esplosione finale. Frammenti che avevano acquistato un significato solamente ore dopo, durante il normale debriefing successivo all’operazione.

    Da quel giorno era passato molto tempo, anni, e molte altre operazioni di successo sotto il comando di McKenny: il miglior capo che chiunque potesse augurarsi di avere. Grazie a lui, ed ai suoi compagni, sentiva di essere diventato un buon agente e un uomo migliore. Ed ora stava per spiccare un volo solitario sopra una terra sconosciuta, ma che non riusciva a percepire come aliena: la terra dei suoi antenati. Avrebbe dovuto contare solamente su sé stesso, non avrebbe avuto la guida saggia di McKenny o i consigli di Sherry Upton, né le battute di Jack e nemmeno il carisma di Rick Osborne. Quest’ultimo era diventato parte dell’unità nello stesso periodo in cui lui era arrivato da Quantico, ma aveva già una lunga esperienza maturata a Washington dove si era fatto le ossa in un ambiente ricco di scandali e malefatte che, spesso e volentieri, andavano a toccare le stanze della politica, e quindi necessitavano di attenzione e diplomazia durante lo svolgimento delle indagini. Proprio per questo Osborne aveva sviluppato una capacità analitica estremamente sottile e precisa: come un abile giocatore di scacchi, riusciva ad andare avanti di tre mosse rispetto al suo avversario, prevedendone pensieri e comportamenti anche grazie al tirocinio che aveva svolto presso il BAU, Behavioral Analysis Unit di Quantico, da dove uscivano i migliori profiler del FBI. Era lì che lo aveva incontrato per la prima volta, quando Kim era solamente una matricola, un allievo del primo anno: lo aveva scambiato per un giocatore di football per quanto imponente fosse la sua figura, ammirandolo in seguito quando aveva tenuto una delle prime lezioni propedeutiche al metodo FACS. Il FACS – Facial Action Coding System – analizza a livello anatomico i movimenti osservabili dei muscoli del volto correlati con l'espressione facciale delle emozioni. Il sistema identifica ogni minimo movimento che avviene in una unità di azione. È possibile imparare a leggere le emozioni di una persona, che vengono rappresentate dalle microespressioni facciali, attraverso la corretta interpretazione del movimento di ogni singola unità di azione. Il Metodo è stato sviluppato da Paul Ekman e Wallace Friesen, e il risultato del loro studio è un complesso manuale che descrive i criteri per l'osservazione e la codifica di ogni unità di azione e le sue combinazioni con le altre. Osborne era riuscito a spiegare un sistema così complesso a dei novellini con estrema leggerezza e semplicità, come riesce a fare solamente chi padroneggia perfettamente la sua materia. Da quel giorno la sua ammirazione per Richard Osborne era lievitata a dismisura: trovarselo come collega nelle indagini, e per di più in quella unità a New York, gli aveva praticamente mozzato il fiato.

    Non poteva deludere le loro aspettative. Non poteva deludere le aspettative del suo Paese. Realizzò in quel preciso momento di essere Americano fino al midollo.

    Il pullman su cui viaggiava Kim, dopo aver passato la frontiera militarizzata, percorse ancora qualche chilometro per poi fermarsi, con grande stridore di freni e sbuffi di pistoni idraulici, nella stazione di Kaesŏng, la più meridionale delle città nordcoreane, che fu capitale della Corea durante la dinastia Goryeo. È anche una zona a statuto speciale, dove sono presenti delle industrie della Corea del Sud, con lavoratori nordcoreani e sudcoreani. E proprio da lavoratore sudcoreano erano le credenziali in possesso dell’agente del FBI.

    Kim aveva istruzioni chiare: doveva scendere dalla corriera e recarsi al bar della stazione, sedersi al terzo tavolo a sinistra, rispetto all’entrata del locale, e ordinare un kimbap, uno degli snack e cibi da asporto più diffusi in Corea, dei rotoli di riso e verdure equivalenti del panino occidentale, e un bori cha, un thé fatto con orzo, che i ristoranti coreani servono spesso come bibita per accompagnare il pasto, invece dell’acqua, perché molto leggero. Così fece, e si mise in attesa.

    Passarono diverse ore, in cui Kim ebbe il tempo di considerare che le sue radici, in fondo, si erano oltremodo annacquate: osservava quel cibo coreano, per lui così alieno, rimpiangendo il Big Mac e la Coca Cola di accompagnamento, il vociare dei suoi coetanei nei locali, i colori e l’allegria della cultura occidentale. Si guardava attorno e vedeva solo persone chine sulle loro ordinazioni, silenziose e svuotate dalla gioia di vivere, in un locale che se non avesse avuto la fortuna di una giornata di sole che illuminava in tralice una parte dell’immenso stanzone, sarebbe stato grigio nella sua semioscurità. Provò a sbocconcellare un kimbap: non era malvagio in fondo, ma quella specie di thé era assolutamente imbevibile.

    Mentre era intento a questa operazione, una voce lo riscosse dai suoi pensieri: - Lei ama i kimbap?

    Si voltò verso il suo interlocutore: - Non particolarmente, ma devo mantenermi leggero – rispose. Il contatto era stabilito. L’uomo si sedette di fronte a lui: era di mezza età, apparentemente non agitato anche se il fazzoletto che stringeva tra le mani sudate tradivano lo stress che evidentemente stava provando. Inchinò cerimonioso il capo ed iniziò a parlare.

    - Il mio nome è So-Yon Hwangbo, lavoro come segretario al Ministero della Scienza a Pyongyang. Il mio è un lavoro umile, mi occupo di protocollare la posta in entrata e in uscita. Per questo motivo ho una certificazione di sicurezza al massimo livello, ma ho anche un segreto inconfessabile che potrebbe distruggere me e la mia famiglia: sono buddista. Qui vige l’ateismo di stato, e una cosa del genere potrebbe farmi guadagnare un esilio forzato nel campo di Yodok!

    Nel briefing che aveva preceduto la sua partenza, Hartigan aveva parlato a Kim del campo di Yodok. Il campo è situato 110 km a nordest di Pyongyang, precisamente nella contea di Yodŏk-gun della provincia Sud Hamgyong. Occupa un’area – di circa 378 km quadrati – che si estende in una valle solcata dal corso del fiume Ipsok e delimitata da alcune montagne, il cui accesso principale è il passo Chaebong, situato ad est. Il perimetro è fortificato con alti muri, recinzioni elettrificate e reti di filo spinato alte fino a 4 m, con torrette di sorveglianza a intervalli regolari. La struttura è presidiata da 1.000 guardie armate.

    Negli anni Novanta si stimava che nella zona a controllo totale fossero incarcerate più di 45.000 persone; le immagini satellitari catturate dopo il 2010 hanno evidenziato un considerevole ampliamento dell'area del campo, facendo supporre che la popolazione carceraria fosse aumentata di conseguenza. La maggior parte dei detenuti di Yodok non ha subìto un regolare processo e la loro deportazione si basa su confessioni estorte con la tortura. Non di rado i rei di crimini più gravi sono incarcerati con tutta la loro famiglia, inclusi anziani e bambini. Solo questo pensiero fece correre lungo la schiena di Kim un brivido di terrore: adesso capiva il perché di quelle mani sudate: la sua fede, e il fatto che stava per tradire confidando qualcosa ad un agente americano. Si veniva deportati a Yodok solo per aver ascoltato trasmissioni radiotelevisive estere o critiche alle politiche del regime, figuriamoci per lo spionaggio.

    - Come sa – proseguì l’uomo – il Buddismo, fra le altre cose, identifica anche la retta via, che risiede nella linea mediana di condotta di vita, evitando tanto gli eccessi quanto gli assolutismi. E fondamentalmente è una religione di pace. Ebbene, tutti noi abbiamo sperato che il nuovo leader potesse finalmente avvicinare il nostro Paese al resto del mondo, ma purtroppo non è stato così. Voci di corridoio lo raccontano ostaggio dei militari che, da quando lui è al potere, hanno aumentato le attività e stretto nuove alleanze sotterranee. Qualche mese fa ho protocollato una lettera che parlava di una relazione tecnica su un nuovo software, sviluppato dai nostri ingegneri e venduto a non meglio identificati acquirenti nel Golfo Persico. Ora, io non sono un esperto analista, ma non sono nemmeno stupido: quando sento di una relazione tra il nostro governo e il Golfo Persico, penso a organizzazioni terroristiche.

    Prese un respiro profondo: - La mia coscienza mi impone di fare qualcosa. Ho mentito alla persona che ha trasmesso il mio messaggio a voi, dicendogli che avevo le prove che il nostro attuale Leader stesse minacciando l’Occidente per ingraziarsi i militari, per poi ammorbidire la nostra politica una volta ottenuto il consenso popolare. Temo che questo non potrà mai accadere, anche se il leader lo volesse: i militari tengono la nazione sotto il tacco dei loro stivali. Mi scuso per la mia menzogna – disse chinando nuovamente il capo – ma dovevo fare qualcosa per impedire che l’ignominia di una strage globale potesse cadere sul mio popolo.

    Kim era colpito dal cordoglio di quell’uomo: rischiava l’osso del collo e la deportazione della sua famiglia, e si stava sinceramente vergognando della bugia detta a fin di bene. Rifletté sul fatto che l’Occidente probabilmente aveva perduto molte delle buone abitudini che fanno di una persona una persona onesta.

    L’irruzione rumorosa nel locale di un manipolo di militari lo riscosse dalle sue considerazioni, e gli fece aumentare considerevolmente le pulsazioni. - Dica che lei è mio cugino – sibilò velocemente So-Yon.

    I militari – un sottufficiale armato di pistola e due soldati con fucile automatico – giravano per i tavoli chiedendo i documenti, e mostrando a tutti una foto, confrontandola poi loro stessi con i volti dei pochi avventori presenti. Alla fine giunsero al loro tavolo.

    - Documenti prego – chiese il sottufficiale con un tono che non ammetteva repliche di nessun genere. Kim e So-Yon porsero i loro al militare, che li osservò e poi si rivolse all’impiegato ministeriale: - Come mai così lontano da Pyongyang?

    - Ho approfittato di qualche giorno di ferie per venire a salutare mio cugino che vive a sud e che lavora qui a Kaesŏng: mia zia è mancata la scorsa settimana, e sono venuto a porgergli le mie condoglianze di persona per la perdita della sua amata madre.

    L’aspetto familiare sembrò colpire il sottufficiale, che ignorò quasi completamente Kim, farfugliandogli solo delle veloci frasi di circostanza per il suo lutto. Poi mostrò ai due uomini una foto.

    - Conoscete o avete mai visto questa persona?

    Kim trasalì dentro di sé alla vista di quella foto, forzandosi di restare esternamente impassibile. Se al posto del sottufficiale ci fosse stato Rick Osborne, si sarebbe trovato ammanettato e gettato nel fondo di una sudicia cella perduta in qualche remoto posto della Corea del Nord: la foto era quella del suo tesserino del FBI, e la faccia era la sua. Era certo di aver anche impercettibilmente increspato la fronte, ma Hartigan, da spia navigata qual era stato, aveva messo in preventivo ogni possibilità. Così aveva preparato Doohan in modo che potesse sfuggire ad un controllo del genere: lo aveva obbligato a farsi crescere

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