Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Appunti dalle tenebre
Appunti dalle tenebre
Appunti dalle tenebre
Ebook513 pages6 hours

Appunti dalle tenebre

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Quando Calliope "Callie" D'Uva, titolare di una cattedra all'Università di Torino, va a Praga per ritrovare l'amica perduta dieci anni prima, visita un'insolita biblioteca e trafuga un libro che sembra molto antico.
È l'inizio di una tribolazione che la porterà a un passo dalla morte fra Gesuiti, studiosi e un'oscura setta di anziani che tramano alle sue spalle.
Il libro è stato creato nel XIII secolo da un abate colpevole di eresia Catara. In esso vi sono le chiavi per l'esecuzione di un rito che minaccia l'intera umanità.

 
LanguageItaliano
Release dateOct 5, 2017
ISBN9788826091839
Appunti dalle tenebre

Related to Appunti dalle tenebre

Related ebooks

Fantasy For You

View More

Related articles

Reviews for Appunti dalle tenebre

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Appunti dalle tenebre - Ciro Iodice Napodano

    TENEBRE

    Prologo

    Inverno 1229 - Podlažice, distretto di Chrast, Chrudim, Boemia

    Manca poco più di un’ora all’alba e sulla collina innevata la notte è ancora nera e fredda. Scheletri di alberi brulli stormiscono senza sosta al soffio dell’implacabile tramontana. Il vento gelido flagella case e valli, sibila lungo le mura di pietra e porta con sé il latrato di un cane in lontananza. Il verso dell’animale, dapprima rabbioso, diventa un ululato e poi un guaito di sofferenza.

    Vista da lontano, con le sue linee imponenti, l’abbazia sembra un enorme animale assopito. Una bestia caduta in un lungo letargo, che si è raccolta su sé stessa per difendersi dal freddo.

    Non una voce, non un segno di vita, nessun cenno di esistenza umana.

    D’un tratto il grande animale sembra riprendere vita, come risvegliato dal suo torpore. Due occhi luminosi, piccoli e ravvicinati, si aprono in alto, su uno dei suoi fianchi. Sono le due finestrelle di una cella, in cui, qualcuno, trasgredendo il voto del buio, ha acceso una candela.

    «Fratello Ermanno, ti prego, desisti dalla tua eresia.» dice il giovane fraticello.

    «Non posso, figlio mio» risponde Ermanno, il più anziano, con voce isterica «l’ispirazione da cui sono illuminato è la più dolce e la più sublime che noi, piccole cose di Dio, possiamo avere la gioia di ricevere.»

    «Ma l’abate ha detto…»

    «Lo so cosa ha detto, ma si sbaglia. Il demonio non è invisibile. Egli non si nasconde mai, non ha timore di mostrarsi, anzi.» Ermanno ride scompostamente come se fosse ubriaco «La materia è corruttibile e tutto ciò che vediamo è uno scherzo del Maligno che serve ad ammaliare gli uomini, ad attrarli verso le cose materiali e terrene.» dice «Solo l’anima, essenza incorporea del nostro Spirito è opera di Dio e in quanto tale, sacra. L’abate non è stato illuminato dall’umiltà per capire tutto ciò. E io sono stato indotto nell’errore dalla mia carne.»

    «Ma stamattina, o al più tardi domani tornerà. La crociata contro gli eretici Albigesi è terminata più di un mese fa e l’abate non sarà solo. Porterà con sé…»

    «Si, lo so. È per questo che non devi farti trovare qui quando arriveranno.» risponde ancora il frate anziano con voce sommessa «Se no, all’accusa di eresia per me, aggiungeranno quella di sodomia per me e per te. E nessuno di noi due avrebbe scampo.» Ermanno ride ancora, poi quando i suoi occhi si velano di lacrime, indica al giovane novizio la porta della cella, mentre un soffio più forte della tramontana, fa oscillare la fiammella della candela. «Non preoccuparti per me, non mi toccheranno.»

    Quando il ragazzo si allontana nel corridoio buio, il viso di Ermanno assume per un istante un’espressione grave, poi sorride di nuovo e accenna un passo di danza al suono di una musica, che risuona solo nella sua testa.

    Il frate richiude a chiave la porta della cella e prende ad armeggiare con il pagliericcio su cui è solito riposare. Ne estrae un enorme libro, rilegato in pelle, alto quasi un metro. Sulle pagine di pergamena pregiata del pesantissimo volume, Ermanno ha già trascritto in latino e miniato a mano, un’intera versione della Bibbia tratta dalla Vulgata e dalla Vetus latina, la Chronica BoÎmorum di Cosma Praghese. Vi ha poi aggiunto un elenco di santi con relativo calendario e vi ha vergato, con estrema cura, una lunga lista di formule magiche, apprese dai Catari, durante la frequentazione con la loro comunità, insediatasi da poco in Boemia.

    A metà del gigantesco libro, le cui pagine sono fatte del miglior vellum, vi è una pagina che è stata insolitamente lasciata bianca. Ermanno avvicina il piccolo vaso di terracotta che sorregge il mozzicone di candela, poi trae dalla propria veste monacale, un astuccio contenente diversi bastoncini colorati. Ne sceglie uno e, continuando a ridere e a fare gesti come se dirigesse un coro di voci bianche, comincia febbrilmente a tracciare a tutta pagina la sagoma grottesca di un essere infernale. Si sofferma sugli zoccoli caprini, la coda serpeggiante, le unghie lunghissime e minacciose, la lingua biforcuta e gli occhi spiritati, a cui conferisce uno sguardo sorridente, come di scherno. Infine, quando le prime luci dell’alba fanno capolino dalle due finestrelle, veste il Diavolo del disegno con il simbolo riconosciuto del potere temporale: una veste di ermellino.

    Appena ritiene di aver terminato il disegno del demone vestito da papa, sfoglia a ritroso le pagine dell’enorme libro fino a giungere a un gruppo di esse dal colore più scuro e che emanano un odore pungente come di muffa o di marcio. Sono vergate con un inchiostro rossastro, ma la grafia non è quella di Ermanno e, anzi, le iscrizioni sembrano molto più antiche del libro stesso. Ermanno le osserva estasiato, ne scorre con lo sguardo avido il tratto minuto, le sfiora con la punta delle dita, ma senza osare di toccarle veramente, quasi come se temesse di disturbarle e muove le braccia al tempo della sua musica immaginaria.

    Raccoglie un pendaglio che tiene attaccato al collo e se lo porta dapprima alle labbra e poi, nell’ordine, sulla fronte, sul petto, sulla spalla sinistra e, infine, su quella destra.

    Nello stesso istante in cui si segna con la Croce, uno scalpiccio di zoccoli sui ciottoli della stradina che conduce alla valle lo distoglie dalla sua contemplazione. Dalle due finestrelle arriva l’odore nauseante dello strame appena gettato nella scarpata, segno che i confratelli, da basso, hanno iniziato la loro mattutina attività nelle stalle.

    Dal rumore che proviene dall’esterno, Ermanno stima che si tratta di una trentina di uomini a cavallo e di un paio di carrozze. È l’abate che ritorna dal suo viaggio da Meaux Paris, accompagnato dai ministri della Santa Inquisizione, dopo la fine della Crociata contro i fratelli Albigesi. Vengono per lui, per la sua eresia e per l’affronto che ha fatto all’alto prelato durante le lodi mattutine di una settimana prima. Ci sarà un processo. Lui sorride con la luce della follia negli occhi.

    «Peccato» esclama sottovoce «Non ci sarà più tempo per questo.» e, pronunciate queste parole, ripone il libro, nascondendolo di nuovo nel pagliericcio. Poi, si denuda completamente, scoprendo un corpo vizzo, martoriato dal cilicio e dalle astinenze. Il braccio sinistro dell’uomo è segnato da una profonda ferita mal curata che trasuda materiale purulento e maleodorante.

    Ermanno si lascia indosso unicamente una collana il cui pendente arriva all’altezza del cuore, si inginocchia sul freddo pavimento di pietra, rivolto verso il giaciglio, unisce le mani davanti al petto in cenno di preghiera e, con lo sguardo fisso in direzione del suo prezioso, gigantesco manoscritto, resta in attesa della sua pena.

    Ride.

    ***

    Primavera 1295 - Podlažice distretto di Chrast, Chrudim, Boemia

    «È questo il muro dietro il quale si dice che sia stato murato vivo Ermanno il Recluso?»

    «Si Abate. Fu condannato dal Tribunale dell’Inquisizione alla Pena del Muro Strettissimo quasi settanta…»

    «Conosco la storia, fratello Venceslao.» lo interrompe bruscamente l’Abate «Settanta anni fa, Ermanno fu giudicato colpevole di eresia Catara e condannato a morire di sete e di fame nella sua cella, senza che nessuno gli rivolgesse mai più la parola. Ho letto tutte le cronache del tempo, in dai tempi dal mio noviziato, e adesso che sono stato nominato Abate, voglio saperne di più.»

    «Si dice che fosse impazzito e che sopravvisse cinque anni senza né mangiare né bere, Abate. Grazie ai riti che aveva appreso dai Catari...» l’abate a queste parole ha un moto di disappunto, ma il fraticello continua a parlare «Tra i gentili c’è chi dice che durante certe notti, vedevano la luce della sua candela attraverso le finestre della cella e…»

    «Sciocchezze. Sono solo dicerie popolari, alimentate dal vino di cui questi zotici fanno largo uso, da quando avete permesso loro di coltivare la vite. Era pieno inverno ed Ermanno non aveva né cibo né acqua con sé. Anche la fede più profonda non lascia vivere a lungo un uomo in quelle condizioni.»

    «Io non voglio dire nulla che vi possa contrariare, Abate, ma voi siete nuovo dell’Abazia e…»

    «Bene Fra’ Venceslao. Abbattete questo muro.» taglia corto il superiore.

    Dopo diverse ore di estenuante lavoro di piccone, sotto l’occhio vigile dell’abate appena eletto, Venceslao riesce ad avere ragione di quel muro. Quando le mani del monaco sono coperte di vesciche, una piccola breccia si apre finalmente nella spessa parete di pietre e cemento.

    L’abate, arso dalla frenesia, che il frate cataloga come curiosità, lo sposta di lato con malagrazia e sbircia nella cella. Sembra trasalire, è meravigliato o forse scosso. Venceslao, però, non riesce a decifrarne l’espressione.

    L’abate gli concede un sorso di vino, gli lascia mangiare una mela e gli permette di distendersi sul pavimento per qualche minuto per riposare. Poi lo esorta a continuare il lavoro.

    Dopo un’altra ora e più, quando il piccone gronda del sangue delle mani di Venceslao, l’apertura è diventata sufficientemente ampia, da lasciar passare un uomo dalla corporatura esile. L’abate con finta compassione per le ferite del frate muratore, gli consegna una fiaschetta di cuoio che tiene appesa al fianco e gliene lascia bere - come premio - l’intero contenuto.

    È un rosolio dolcissimo e forte che rinfranca il monaco stremato. Prima ancora che finisca il contenuto della fiaschetta di cuoio, l’abate lo congeda e lo manda dallo speziale perché si faccia curare le ferite nelle mani. Quando Venceslao si allontana, già ebbro di quella bevanda speziata dal retrogusto amarognolo, l’abate si infila nella cella polverosa di Ermanno il Recluso.

    Al centro della stanzetta buia, il corpo dell’eretico, ormai mummificato, è posto in ginocchio, in posizione di preghiera, con le mani giunte davanti al petto.

    L’abate accende la candela che ha portato con sé e osserva meglio la povera, piccolissima dimora. Ermanno è stato lasciato a morire in una cella larga poco più di un metro e mezzo e lunga due. Il frate ha accettato supinamente la condanna, poiché non si è raccolto su sé stesso per ripararsi dal freddo e, addirittura si è svestito, privandosi dell’unica, labile protezione rappresentata dal proprio saio.

    L’abate ne è affascinato, la forza di quell’uomo, della nuova fede che ha abbracciato settanta anni prima, si percepisce, palpabile, nell’aria della cella impolverata. Nella sua mente conclude che Ermanno, sentendo l’arrivo della morte, si è pentito e si è raccolto in preghiera durante gli ultimi istanti della propria vita.

    Il tremolio della candela, illumina per un attimo il pavimento intorno al corpo mummificato e l’abate si accorge dei residui di numerose deiezioni che vi si sono raccolte. Il prelato ha un sussulto e fa un balzo indietro dalla sorpresa, spaventato.

    La luce della candela, con un altro tremolio, illumina il volto rinsecchito di Ermanno, il frate eretico, condannato a morte dal Tribunale dell’Inquisizione settanta anni prima.

    Nelle sue orbite prive di palpebre, ormai diventate due fosse oscure, i globi oculari, intatti, sembrano fissare l’abate. Qualcosa, all’altezza del petto della mummia, riflette la fioca luce della candela. È il pendente lucidissimo, dall’insolita foggia, di una collana che Ermanno ha tenuto indosso fino alla fine.

    L’abate lo osserva con espressione amorevole, fa per toccarlo, ma non osa sfiorarlo per il senso di profondo rispetto che nutre per quell’oggetto. Dopo un attimo di smarrimento, l’uomo si guarda intorno, osserva con sguardo deluso le pareti spoglie e torna col pensiero al motivo di quella che ormai percepisce come una profanazione necessaria.

    Sembra quasi rassegnato a uscire di là a mani vuote, quando la sua attenzione è richiamata dal pagliericcio che è stato il giaciglio di Ermanno. Getta via senza cura la leggera coperta impolverata e tasta febbrilmente con le mani la paglia del sottile materasso. Dopo pochi tentativi, quando il suono attutito del suo frugare diventa più deciso, il suo viso si illumina, estrae della tasca della veste un piccolo coltello e con esso squarcia la stoffa, rivelando al suo interno l’enorme volume rilegato di Ermanno.

    La pelle della rilegatura, mal conciata, è coperta di affioramenti, di macchie di muffa e perfino di una sorta di muschio, le cui ramificazioni si sono intricate nella paglia del povero materasso. Alla fioca luce della candela, l’abate strappa via tutte le escrescenze vegetali e la paglia, libera il gigantesco volume dal debole nascondiglio e lo pulisce sommariamente con il dorso della mano.

    Quando, finalmente, riesce a sfogliarne alcune pagine, prova una sorta di orgasmo che lo fa sentire grottescamente colpevole, in condizione di peccato. Scorre in velocità disegni e raffigurazioni officinali, i versi della Vulgata, le pagine di storia, fino a che non giunge al gruppo di pagine più grosse e scure, le cui parole, settanta anni prima, avevano commosso Ermanno.

    Sono otto pagine, anch’esse di vellum pregiatissimo, ma molto più antiche delle altre che compongono il resto dell’enorme libro. L’Abate in preda a una febbre irrefrenabile, fa per strapparle via malamente, ma, un istante prima che le sue dita violino cuoio, vellum e fili di lana, gli occhi di Ermanno cadono dalle orbite scheletrite e rotolano sul pavimento con le pupille puntate sul profanatore.

    L’abate è percorso da un brivido di terrore, accenna a segnarsi con il segno della croce, ma sente che ciò che sta facendo è contro tutti gli insegnamenti di Madre Chiesa e ferma sul nascere il proprio gesto, per non macchiarsi anche di blasfemia, oltre che di eresia.

    Ancor più determinato, prende un coltellino dalla veste, lo affonda delicatamente nella spessa rilegatura, stacca via le pagine scure dal libro, le arrotola con cura e le ripone in una tasca interna della veste. Poi richiude frettolosamente il libro e lo ripone nuovamente all’interno del pagliericcio. Gli occhi dell’abate si riempiono di lacrime. Delicatamente, con un gesto di pietà, sfila via dal corpo senza vita il pendaglio  con la croce catara, lo indossa e si infila nel foro della parete.

    Una volta fuoriuscito dalla buia e stretta cella, che è stata dimora e tomba di Ermanno il Recluso, l’abate prende a percorrere a passo velocissimo l’antico corridoio di guardia del monastero, lungo la merlatura superiore. Ha il sorriso sulle labbra, è estasiato, raggiante.

    Quando è giunto quasi a metà di esso, nel buio rischiarato unicamente dalla candela che reca in mano, vede una specie di fagotto abbandonato sul pavimento. L’ampio sorriso sul suo volto diventa il ghigno di un felino quando avvicinandosi a quell’oggetto si avvede che si tratta del corpo senza vita di un uomo magrissimo che stringe in una mano insanguinata, una fiaschetta di cuoio.

    Dopo aver chiuso gli occhi del morto con un ultimo gesto di pietà, cerca tra le pieghe della veste il monile della collana che tiene nascosta e appesa al collo e lo porta alle labbra. È la Croce Catara¹, uguale a quella appesa al collo di Ermanno.

    Oggi

    «Dai che non sarà così male!»

    «Invece si! E specie se tu ricomincerai a fare il cascamorto provolone. Sarei andata anche da sola se…»

    «...se avessi trovato un volo a buon mercato. Un giorno prima della partenza, però. Non potevo lasciarti andare da sola a bordo di quella caffettiera fin laggiù, dai Callie! Vedrai che perfino tu ti divertirai, musona!»

    «Si, hai ragione, scusami. Però, dico davvero, non ricominciare con i tuoi discorsi sentimentali, ti prego!»

    «Okay, ricevuto. L’innamorato e sdolcinato Nicola Galante cederà il posto al glaciale e disinteressato Nick l’Ischitano. Va bene.»

    «Adesso non cominciare a tirartela, Nick l’Ischitano!» la ragazza enfatizzò il nome da playboy da strapazzo che il suo amico di sempre si era autoassegnato, al punto da farlo sembrare ancora più ridicolo di quanto già non fosse. «Però un grosso GRAZIE voglio dirtelo.»

    «E dimmelo!»

    Il ragazzo si chinò verso di lei con gli occhi chiusi e la bocca a culo di gallina, come lei definiva la posa di chi, nel tentativo di apparire seducente, sporgeva le labbra in fuori accennando un bacio. Lei sorridendo, assunse un’espressione tollerante, annuì leggermente a sé stessa e, dopo aver incrociato le braccia sul petto, si chinò verso di lui, accennando solamente a un bacio e poggiandoglielo sulla guancia.

    «E questo sarebbe il tuo modo di dire grazie? Aaazzzz!» disse lui con finto disappunto.

    «Il tuo modo, invece, prevedeva che mi togliessi le mutandine, vero?»

    «Quello potevo farlo anche da solo» rispose sghignazzando Nicola.

    «Non rompere e guida bene, piano e con prudenza. Abbiamo più di mille chilometri da percorrere. E la mia bellissima macchina non è una caffettiera!»

    Nel concludere la frase con il tono da maestrina, gli diede un buffetto nella nuca come si fa con un figlio discolo. Lui sorrise, le rivolse uno sguardo tenero, e le strizzò l’occhio. Poi rivolse la propria attenzione al centro città, a quell’ora del mattino quasi deserto e alla strada che stavano percorrendo, in direzione dell’autostrada che li avrebbe condotti alla loro destinazione: Praga.

    Era un viaggio imprevisto per tutti e due. Calliope, detta Callie e Nicola, detto Nick, fino alla sera precedente non avevano minimamente in programma di percorrere gli oltre mille chilometri che separano Praga da Torino e nemmeno i loro genitori. Nick che viveva con il padre e la madre in una villetta intorno a Superga, sulle colline di Torino, dovette faticare non poco per tranquillizzarli circa l’opportunità di usare la loro macchina invece dell’aereo, su quella di partire di fretta e furia e su quella - la peggiore di tutte - di fare un così lungo viaggio, condividendo tutto con la donna che gli aveva spezzato il cuore. Elena, la madre di Callie, invece sembrava più preoccupata sul motivo del viaggio e sulla persona che avrebbero dovuto incontrare nella capitale Ceca.

    «Cosa voleva da te quella?»

    «Chi? La professoressa Rosmutti?» la voce di Callie si incrinò per un istante «Mi ha detto che una mia cara amica dell’università diventa direttrice di un’importante istituto d’arte di Praga nella Repubblica Ceca e mi ha chiesto se vado ad assistere alla nomina. È stata una vera sorpresa. Voglio andarci.»

    «Vai da quella, eh? Ancora quella anche dopo venti anni?» le chiese Elena con il tono sprezzante.

    «Mamma, ma cosa ti sei messa in testa? Stai tranquilla.»

    «Io sono tranquillissima, ma quella non mi piace, non mi è mai piaciuta, non è una ragazza normale. E quella vecchia tra di voi lo è ancora meno!»

    «Ancora con questa storia? Ma cos’è per te una ragazza normale

    «Una che si veste da donna. Una a cui piacciono i ragazzi, che esce con i ragazzi, che si accompagna con un ragazzo e che dorme con un ragazzo, non con un’altra donna! Tu l’hai mai vista insieme a un uomo?»

    «Certo! Ma te l’ho spiegato mille volte, mamma! Ha un’insofferenza verso il genere maschile perché, secondo lei, gli uomini sono per lo più grossolani e volgari e pensano ad una cosa sola. Per lei che è cresciuta nella campagna della Cecoslovacchia post-comunista, questa generalizzazione è ancora più forte e, nel corso degli anni, si è chiusa un po’.»

    «"Un po’" dici? Ma se non ha mai avuto un ragazzo per tutto il tempo che siete state coinquiline! All’università e quando faceva la gallerista qui a Torino! E si che non sarebbe nemmeno un rospo se si desse una ripulita!»

    «Oh, insomma! Cinthia è la più bella ragazza che io abbia mai conosciuto e non è né sporca né lesbica!»

    «E tu?»

    «Mamma! Non voglio parlare di questo argomento e, soprattutto, non con te. Non sono affari tuoi!»

    «E quella vecchia storpia, allora? Cosa c’entra ancora quella con voi? Era sempre tra le scatole. Non credevo nemmeno che fosse ancora viva.»

    «Ascolta, sono solo passata a salutarti, non a farmi fare la predica o a discutere con mia madre della mia vita sessuale.» il fiato diventò un po’ più corto e una leggera e ben conosciuta agitazione cominciò a farsi strada dentro il suo petto «A quasi quarant’anni, poi!»

    Diede un bacio frettoloso sulla guancia dell’anziana genitrice e usci con gli occhi lucidi dalla casa dei propri genitori. A metà delle scale si fermò e, estratto un flaconcino di gocce dalla borsa, ne succhiò un numero imprecisato direttamente dall’imboccatura. Poi, richiusa e riposta la boccetta, prese una bottiglietta d’acqua e ne ingoiò avidamente un paio di sorsate. Il sapore dolciastro sembrò calmarla quasi istantaneamente e, benché sapesse benissimo che si trattava dell’effetto placebo, se lo fece bastare e decise che si sentiva già meglio.

    Calliope D’Uva, trentanovenne nativa di Torino presso la cui università era titolare di una cattedra in storia dell’arte, figlia di Elena e di Ugo, militare di carriera nativo del Molise, era diventata furente alle parole di sua madre e per questo era uscita dalla casa dei suoi genitori, sbattendo la porta.

    Ora, dieci anni dopo che Cinthia Tormor se n’era andata per tornare a vivere nella sua terra natia, a Praga, per il suo dottorato in Storia dell’Arte Europea, quelle parole le sembravano più vere che mai. Erano trascorsi dieci anni da quel litigio che le aveva separate per una parola di troppo e un’attenzione di meno, e in tutto quel tempo, nemmeno una volta, aveva risentito la voce della sua amica del cuore, la donna che le sembrava di amare e che sembrava la amasse, la sprovveduta ragazza che le era stata vicino per dieci anni e che le aveva insegnato tante cose.

    L’amicizia con Cinthia era iniziata ai tempi del liceo ed era proseguita durante gli anni dell’università, evolvendo in un legame più profondo e più intimo di quanto Callie stessa fosse disposta ad ammettere. Agli occhi di sua madre, Cinthia doveva essere una degenerata, che preferiva le donne agli uomini, non avendo mai saputo, in tanti anni di frequentazione delle due ragazze, di qualche sua relazione. Ma era solo una visione parziale che Callie si guardava bene dal completare.

    Anche lei aveva notato la totale assenza di ragazzi nella vita della pur attraente Cinthia, che, invece, preferiva accompagnarsi per filarini, avventure di letto e storie più o meno serie, con uomini ben più vecchi di lei, facendo altresì attenzione a tenere nascoste le proprie relazioni sbilanciate agli occhi di tutti.

    Insomma, una ragazza dai gusti particolari, estremamente riservata riguardo alla propria vita privata, verso la quale, Callie si era data un sacco di spiegazioni più o meno risibili. L’attenzione, per lei e la sua vita, da parte di quella ragazza Ceca, così insolita, che allora sembrava invadente e opportuna, a tratti anche morbosa, adesso le mancava come l’aria stessa.

    Ai tempi del liceo, la loro insegnante di storia dell’arte, un’anziana donna di origini irlandesi, Geis Rosmutti, aveva colto con estremo favore l’inclinazione per l’arte e le materie umanistiche delle due amiche. La vecchia aveva poi curato personalmente e con passione - quasi maniacale - il percorso di studi delle due allieve - nel frattempo diventate donne - anche durante il periodo degli studi universitari.

    L’inattesa telefonata della vecchia insegnante, che era già tanto anziana ai tempi del liceo, aveva suscitato nella mente di Callie un uragano di ricordi e di sensazioni dimenticate. Durante il periodo universitario, i loro contatti erano andati diradandosi sempre più, per divenire sempre più sporadici e limitati a qualche rara telefonata. L’ultima conversazione che si erano scambiate, prima della di quella della sera precedente, risaliva a più di dieci anni prima.

    «...non preoccuparti piccola mia, non ci perderemo. Io ci sarò sempre. Ci sarò per Cinthia e per te e vi condurrò ancora per mano, mille e mille volte, ancor di più quando vi sarete dimenticate di me. Sarete per sempre dentro di me e sarete le mie gambe.»

    Il tono di voce della vecchia, drammatico e fatale come in un addio, le tornò alla mente, vivido e attuale e strideva come un’unghia sulla lavagna. Quelle parole suonavano come i rintocchi di una campana stonata.

    Calliope Callie D’Uva e Cinthia Tormor si erano incontrate sui banchi della IV ginnasio e subito si erano detestate a causa di Dario, un ragazzo dai capelli nerissimi e i baffetti radi e sottili con cui Callie intratteneva un filarino e con il quale era sempre assieme. Cinthia, come presa da una gelosia implacabile, li guardava con disprezzo passeggiare nei corridoi del liceo, faceva un’espressione di disgusto quando si baciavano in pubblico, detestava la mania di Dario di lisciarsi continuamente quel baffetto alla D’Artagnan e non rivolse mai loro la parola quando, durante la gita scolastica dell’ultimo anno, Calliui restarono seduti nell’ultima fila di sedili dell’autobus, fra moine e risolini, isolandosi dal resto della compagnia.

    Un giorno, però, inaspettatamente, Dario si allontanò da Callie che perse l’allegria e il suo consueto sorriso e Cinthia sentì quella gelosia trasformarsi dapprima in una grande pena e poi in affetto. Si ritrovarono così, per la prima volta, a parlare di cose femminili e cominciarono a scoprire, una ad una, le affinità che le caratterizzavano.

    Erano nate lo stesso giorno il 24 giugno, i loro rispettivi genitori erano cugini tra di loro, nessuno di essi praticava la religione, avevano lo stesso gruppo sanguigno, erano entrambe figlie di militari, entrambi i loro nomi erano di origine greca. Una serie di coincidenze che servì alle due ragazze per sentirsi parte di una squadra, composta solo da loro stesse.

    Il legame tra Callie e Cinthia si rafforzò ulteriormente alla fine del liceo, in occasione del periodo universitario e del coincidente temporaneo spostamento per ragioni di carriera dei loro genitori militari in altre città.

    Le due ragazze ottennero di andare a vivere insieme in un appartamentino del centro di Torino e così iniziarono una vera e propria convivenza. Callie sempre assediata da ragazzi più o meno affettuosi che qualche volta portava a casa e Cinthia sempre sulle sue e con gli atteggiamenti da maschiaccio che riuscivano a dissuadere anche il più accanito corteggiatore e che guardava sempre di traverso l’amica che considerava troppo libertina.

    Presto, a Callie non sembrò più opportuno contrariare l’amica che diventava ogni giorno più cara e premurosa e, senza rendersene conto, smise ogni frequentazione maschile.

    Con il passare del tempo e lo svolgersi del percorso universitario, presero a dormire nello stesso letto sempre più spesso. Il letto di Cinthia sapeva di vaniglia, come la sua pelle.

    La professoressa Rosmutti, durante la telefonata della sera precedente, le aveva dato anche il numero di telefono al quale contattare Cinthia a Praga. Callie, però, aveva preso in mano il cellulare una decina di volte, aveva formulato il numero, e poi aveva sempre riagganciato, in preda all’ansia di risentire la tanto amata amica del cuore così all’improvviso. Decise allora che l’avrebbe chiamata una volta arrivati nella capitale Ceca, quando il litigio che le aveva separate sarebbe stato un ostacolo irrisorio e lontano.

    Sorrise.

    «Si può sapere a cosa pensi?» la voce di Nick la fece sobbalzare. «Hai lo sguardo perso nel vuoto!»

    «Scusa ero sovrappensiero.»

    «E me ne sono accorto! Avevi un sorrisetto ebete sulla faccia.» la canzonò il ragazzo.

    «E allora? Guarda che fai sempre in tempo a…»

    «…a mandarti a Praga da sola, lo so. Ma io non mollo. Io ci sono sempre. A che ora ci vediamo domani mattina?»

    «Alle sette, puntuale. Odio i ritardatari.»

    «O capitano, mio capitano. Il nostromo ha preso nota della rotta e sarà qua sotto, alle sette in punto, domani mattina.»

    «Adesso lasciami andare a dormire se no col cavolo che mi alzo.»

    «Okay! Ah, Callie…»

    «Si?»

    «Vaffanculo.»

    Si salutarono. Appena Nick sbatté la porta d’ingresso del monolocale, Callie spense la luce, si tolse velocemente gli abiti, li lasciò cadere sul pavimento in parquet senza curarsene e si precipitò alla scrivania dove il suo computer portatile, un MacBook Pro, rischiarava il suo posto di lavoro. E di svago.

    Senza nemmeno sedersi, aprì il browser e digitò alcuni caratteri nella barra degli indirizzi. Non fece in tempo ad arrivare nemmeno alla terza lettera che il programma le mostrò gli ultimi siti visitati, tra i quali Callie intravide ciò che stava cercando

    Fece scorrere le dita sul touchpad e fece clic. Pochi istanti dopo, un sito di annunci per adulti si aprì con la richiesta delle credenziali d’accesso. Le dita volarono sula tastiera e, dopo aver immesso "CinthiaFormeBSX nel campo del nome utente e erosBi" in quello della password, lo schermo si riempì di foto di uomini e donne seminudi in pose esplicite.

    Una vampata di calore le gonfiò le vene del collo, e un intenso formicolio le solleticò il ventre quando vide la notifica in rosso, in alto sullo schermo che le preannunciava che c’erano alcuni messaggi in attesa di essere letti. Sorrise mentre il cuore accelerava. Lo pseudonimo che si era scelto CinthiaFormeBSX era stato quanto mai indovinato. Attraeva e incuriosiva visitatori e visitatrici che non si risparmiavano mai nell’inviarle foto e richieste fantasiose.

    Il nuovo messaggio era di una coppia della provincia di Roma, che le chiedeva foto più eloquenti dell’unica pubblicata, che la ritraeva sì nuda, ma con le braccia incrociate sull’abbondante seno, a nasconderlo. Per essere più convincenti, l’uomo e la donna le avevano inviato alcune immagini di loro due insieme con un’amica, che non lasciavano nulla all’immaginazione.

    Una nuova, piacevole vampata di calore le imperlò la fronte di sudore. Le piaceva osare in quella trasgressione e le piaceva farlo completamente nuda.

    Corse in bagno. Accese le poche candele che aveva, fece partire l’impianto stereo e saltò in piedi nella vasca. Dopo aver fissato il soffione al muro, lasciò che il getto caldo della doccia scorresse lungo il suo corpo, da capo a piedi. Infilò il guanto di crine, ci versò una generosa dose di olio profumato e prese a strofinare accuratamente tutta la pelle del proprio corpo. L’abbondante schiuma la avvolse e, mentre levigava la sua pelle come se si preparasse al primo appuntamento con un uomo, i profumi di mandorla e di vaniglia le riportarono alla mente malinconie dolci e vecchi ricordi. Le spaghettate a tarda notte, il rum alla venezuelana, i cuscini sul prezioso tappeto regalatole da Cinthia.

    La luce delle candele bianche e il brano «Nostalgia» di David Sylvian le diedero un’improvvisa stretta al cuore e per un attimo, una nuvola di tristezza attraversò il suo cielo. Poi, un altro ricordo, più violento e più vivido si fece strada nella sua mente e spazzò via quella tristezza effimera, trasformandola in qualcosa di meno cupo e di più bruciante.

    Cercò inutilmente di distogliere il pensiero, di cancellare il ricordo, di fare il vuoto nella mente, di pensare alle foto della coppia, alle due donne che si baciavano voluttuosamente, ma, per quanto facesse, l’immagine di Cinthia non accennava a sbiadire dalla sua mente. Si arrese senza nemmeno provare a combattere quel ricordo così dirompente.

    Quando capì che non ce l’avrebbe fatta, lasciò cadere il guanto di crine e, con le mani scivolose di schiuma, si accarezzò dalla testa ai piedi. Dapprima con gesti delicati, poi, via via sempre più vigorosamente. Le mani stringevano, tormentavano, strizzavano, cercavano luoghi inesplorati del suo corpo, zone nascoste, lati oscuri. Si lasciò scivolare pigramente nella vasca, mentre la pioggia calda le martellava la pelle e la risacca dei ricordi si infrangeva sulle coste della sua mente e sulle irte scogliere del suo desiderio.

    Quando la voce di David Sylvian cominciò a cantare «Surrender», Callie era completamente distesa con le gambe aperte e con le dita che la dilaniavano.

    ***

    «Sei stato puntuale, bravo.» disse a Nick giunto in perfetto orario a bordo della Skoda dei suoi genitori. Callie aveva indossato un abito lungo in jeans senza maniche, chiuso da una lunga fila di bottoni sul

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1