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Thomas More. La sobria allegria.:  Fantasie, scherzi e racconti
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Thomas More. La sobria allegria.: Fantasie, scherzi e racconti

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Un aspetto della personalità di Thomas More che manifesta continuità e coerenza di pensiero è indubbiamente la sua attitudine all’allegria. Un lato della sua anima poliedrica tutt’altro che minore, probabilmente il più indicato e rappresentativo per descrivere l’unicità del suo essere, quello che consente di dipingere il ritratto della sua reale interiorità. La traduzione italiana delle facezie moreane si inserisce in questo contesto e dibattito culturale nella misura in cui il More che si dilettava per puro piacere a prendere in giro la moglie è lo stesso che sul patibolo impartisce al boia consigli su come tagliargli la testa. Quanti conoscono la vita dell’illustre umanista inglese non possono ignorare quel suo inimitabile spirito ludico che divertiva tutti e attraverso il quale egli governava la casa e la nazione. Non c’è biografo che non si sia soffermato con piacere a descrivere questo particolare atteggiamento del suo spirito riportando episodi burleschi e battute canzonatorie che lo vedevano in azione. Indubbiamente le facezie nascono dall’importanza che More dava all’allegria e al buonumore nella conduzione dei rapporti umani, nonché dalla scoperta della loro capacità intrinseca di mitigare attraverso un piacere, derivante dal gioco e dallo scherzo, la fatica dell’anima. Ai riformatori protestanti inglesi che lo accusarono di mancanza di serietà rispose nella sua Apology che «un uomo può alle volte, in mezzo al gioco, dire grandi verità; e per chi è laico, come me, è forse più conveniente esporre il proprio pensiero allegramente che non predicare con solenne serietà».
LanguageItaliano
Release dateOct 5, 2017
ISBN9788838246012
Thomas More. La sobria allegria.:  Fantasie, scherzi e racconti

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    Thomas More. La sobria allegria. - Giuseppe Gangale

    http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

    Ritratto di Thomas More dopo Hans Holbein

    La lezione della moglie

    La cuffia di piselli

    L’arrivo degli anemolii nell’isola di Utopia

    Cure speciali nella cappella di san Valerico

    Il proclama di Henry Patenson a Bruges

    La moglie che voleva essere uccisa dal marito

    Il vecchio giudice e l’abile scippatore

    La contesa del cane

    Erasmo legge l’Elogio in casa di More

    La divertente storia dell’ufficiale che imparò a recitare

    la parte del frate

    L’esilarante contro lezione di astronomia

    La visita della moglie alla Torre

    Il collo corto

    OPERE DI TOMMASO MORO

    Complete Works, CW, di Thomas More edite dalla Yale University Press, New Haven-Londra (1963-1997).

    Vol. 1. English Poems, Life of Pico, Four Last Things (Le quattro cose ultime), eds. C.H. Miller, K.G. Rodgers, A.S.G. Edwards, 1997.

    Vol. 2. The History of King Richard III, ed. R.S. Sylvester, 1963.

    Vol. 3. Parte 1: Translations of Lucian, ed. C.R. Thompson, 1974.

    Vol, 3. Parte 2: Latin Poems (Epigrammi), eds. C.H. Miller, L. Bradner, C.A. Lynch e R.P. Oliver, 1984.

    Vol. 4. Utopia, eds. E. Surtz e J. H. Hexter, 1965; 1975.

    Vol. 5. Responsio ad Lutherum, ed. J.M. Headley; a cura di Suor Scholastica Mandeville, 1969, in due parti.

    Vol. 6. Parts I & II: Dialogue concerning Heresies, eds. T.M.C. Lawler, R.C. Marius, G. Marc’hadour, 1981.

    Vol. 7. Letter to Bugenhagen, Supplication of souls (La supplica delle anime), Letter against Frith, eds. F. Manley, R.C. Marius, C.H. Miller, 1990.

    Vol. 8. Parts I-III: The Confutation of Tyndale’s Answer, eds. L.A. Schuster, R.C. Marius, J.P. Lusardi, R.F. Schoeck, 1973.

    Vol. 9. The Apology, ed. J.B. Trapp, 1979.

    Vol. 10. Debellation of Salem and Bisance, eds. Hohn Guy, Ralph Keen, C.H. Miller, Ruth McGugan, 1988.

    Vol. 11. Answer to a Poisoned Book, eds. S. Merriam Foley, C.H. Miller, 1985.

    Vol. 12. Dialogue of Comfort (Dialogo del conforto nelle tribolazioni), eds. L.L. Martz e F. Manley, 1976.

    Vol. 13. Treatise on the Passion, Treatise on the Blessed Body, Instructions and Prayers, ed. G.E. Haupt, 1976.

    Vol. 14. De Tristitia Christi (Nell’orto degli ulivi), The Valencia Holograph, The manuscripts of 1565 Edition, ed. D. Kinney, 1976.

    Vol. 15. In defence of Humanism: Letter to Martin Dorp, Letter to the University of Oxford, Letter to Edward Lee, letter to a Monk. New Text and Translation of Historia Richardi Tertii, ed. D. Kinney, 1986.

    INTRODUZIONE

    Dopo quanto è stato scritto da Vittorio Gabrieli nell’introduzione a Fancies sports and merry tales [1] (Facezie di Thomas More) si potrebbe evitare qualsiasi altra forma di dissertazione in merito, se non fosse che a renderla necessaria si presenta la pubblicazione di questo volume con il quale s’intende continuare e integrare l’antologia proposta dall’illustre anglista e accademico dei lincei.

    Poiché la sua volontà di tradurre le facezie moreane per diverse ragioni non si è venuta a realizzare, abbiamo pensato di integrare quel volume con le traduzioni italiane e l’inserimento di nuovi testi [2] .

    Sull’importanza di quest’opera non ci sono dubbi. Già uno dei pronipoti di Thomas More non esitava ad affermare che « i suoi motti spiritosi e scherzi allegri riempirebbero un volume» [3] , sebbene la natura dell’idea che anima la pubblicazione sia ben lontana dal realizzare un testo di valore accademico.

    Di fatto sin dalla sua fondazione l’opera del Centro Internazionale Thomas More è quella di riproporre la memoria del grande statista inglese fondata su un’immagine autentica e possibilmente fedele alla realtà storica del personaggio. Un’iconografia che nella sua enfatica valorizzazione largamente diffusa gli attribuisca una serie di contraddizioni non è assolutamente convincente. Fra tutte quella di dualismo è sicuramente la più inaccettabile.

    Nelle angustie del carcere egli non pensa e non si comporta in maniera diversa che negli agi della sua bella casa o nei fasti di corte. La drammatica scelta che sovverte così radicalmente il corso della sua esistenza non è il portato di una conversione che segni una frattura tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo e porti al coinvolgimento dei valori e dei contenuti della sua vita spirituale. La docilità con cui, al momento della prova, egli si dispone pacatamente ai voleri di Dio ha il suo naturale presupposto in quell’apertura umana e in quel felice equilibrio che avevano improntato la sua vita familiare e civile [4] .

    Quasi non curante di ripetersi, in diversi contesti la grande studiosa moreana proponeva lo stesso tema a dimostrazione di quanto fosse necessario riproporlo, convinta com’era della continuità e coerenza di pensiero tra il More umanista e utopista e il More degli ultimi anni della sua vita [5] .

    Altro illustre studioso italiano di More al contrario della Bertagnoni afferma che: «Non si esce da questa impasse, a meno che non si voglia fare di More uno schizofrenico, se non formulando l’ipotesi più plausibile e verosimile: e cioè che, col passare degli anni egli abbia avuto dei ripensamenti, come spesso capita. Anche perché è possibile trovare le ragioni, storiche e personali, che possono averlo indotto a tale mutamento» [6] .

    Le ragioni di Cosimo Quarta, per quanto motivate, ci sembrano non corrispondenti alla personalità di More, soprattutto in quel tratto della disquisizione in cui presenta l’ultimo More come un umanista pentito.

    Le tesi di Marialisa Bertagnoni riconciliano invece la figura di More con se stesso, senza sdoppiarlo e senza, per questo, negare le contraddizioni della sua umanità.

    La traduzione italiana delle facezie moreane si inserisce sicuramente in questo contesto e dibattito culturale nella misura in cui il More che si dilettava per puro piacere a prendere in giro la moglie è lo stesso More che sul patibolo impartisce al boia consigli su come tagliargli la testa.

    Se c’è un aspetto della personalità moreana che manifesta la continuità e coerenza di pensiero quella è indubbiamente la sua attitudine all’allegria. Un aspetto della sua anima poliedrica tutt’altro che minore, probabilmente il più indicato e rappresentativo per descrivere l’unicità del suo essere, quello che consente di dipingere il ritratto della sua reale interiorità.

    Quanti conoscono la vita dell’illustre umanista inglese non possono ignorare quel suo inimitabile spirito ludico che divertiva tutti e attraverso il quale egli governava la casa e la nazione. Non c’è biografo che non si sia soffermato con piacere a descrivere questo particolare atteggiamento del suo spirito riportando episodi burleschi e battute canzonatorie che lo vedevano in azione.

    Erasmo che più di tutti ebbe modo di descrivere questo aspetto della sua personalità scrive:

    Quando è in compagnia, la sua squisita gentilezza e la sua capacità di piacere agli altri sono tali da rasserenare chiunque, anche chi per temperamento sia incline alla malinconia, non essendovi situazione penosa di cui egli non riesca ad allontanare il disagio. Fin da ragazzo traeva un tale piacere da battute e motti di spirito che sembrava fatto apposta per quel tipo di divertimento, pur senza mai scadere nella buffoneria scurrile e nel sarcasmo. Adolescente, scrisse e rappresentò anche piccole commedie. Godeva quando un giudizio, anche se diretto contro di lui, era espresso in modo spiritoso: anche adesso ama molto le battute, a patto che siano veramente salaci e scintillanti d’arguzia. Per questo in gioventù compose degli epigrammi e Luciano divenne uno dei suoi autori preferiti. C’è di più: fu lui a spingermi a scrivere l’ Elogio della Follia, che è come dire a far danzare un cammello! [7]

    Nella raccolta degli epigrammi è lo stesso Moro che ci lascia una testimonianza inconfutabile di questo aspetto del suo carattere. Per loro natura essi non sono che dei componimenti poetici, ma nelle mani di Moro sembra che assumono quasi una nuova veste letteraria, di tipo divertente e umoristico.

    Come ad esempio quello sulle mogli. Una cosa è fare un elogio alla propria moglie, altra cosa è scrivere che «una moglie è pesante da sopportare, ma può esserti utile: se, morendo alla svelta, ti lascia erede di tutto» [8] . O come quelle che dedica a un amico che aveva in casa una moglie cattiva, la quale «peggiora se la maltratti e diventa pessima se la tratti bene. Ma diventerebbe buona se morisse, migliore se lo facesse mentre sei ancora vivo, ottima se si sbrigasse a farlo presto» [9] .

    Evidentemente questi sonetti non li scriveva perché fossero pubblicati. Il loro naturale luogo di nascita era l’ambiente familiare dove Thomas insieme al buffone di casa Henry Patenson, che sicuramente doveva darsi molto da fare per non apparire troppo meno spiritoso del suo padrone, facevano a gara per divertire la famiglia.

    Indubbiamente l’ambiente domestico fu una palestra di largo respiro dove poter esercitare e rafforzare la sua attitudine all’allegria. Ma fu anche il luogo dove la sua carica di simpatia e di gaiezza, il suo gusto per gli scherzi, la passione per le battute caustiche ed ingegnose e, soprattutto, la sua autoironia, ebbero origine.

    Di fatto ciò che in un uomo è parte integrante la sua natura perché possa essere trasmesso in un ambiente adeguato a riceverlo è necessario che provenga da un ambiente altrettanto adeguato. La sua inclinazione all’allegria l’aveva conosciuta sicuramente dal padre.

    L’importanza che occupa sir John More nell’anima, nella vita, negli scritti e persino nello stile del suo primogenito è fondamentale. Se More non parla mai di sua madre, il padre è presente anche nelle sue opere letterarie: Riccardo III, Dialogo contro le eresie, (almeno quattro episodi) Apologia. Di lui scrive nell’epitaffio che era «un uomo affabile, piacevole, irreprensibile, gentile e pio, giusto e retto; fu vigoroso per l’età sua anche nella veneranda vecchiaia» [10] . Un uomo che quanto ad umorismo non aveva di che invidiare dal figlio.

    Tra le battute che suo figlio ha immortalato, la più famosa è certamente questa:

    Sposarsi è come ficcare a caso la mano in un sacco in cui brulicano dei rettili, nella proporzione di sette vipere per una sola anguilla: fortunato colui che riesce ad afferrare un’anguilla! [11]

    Sospettare il più piccolo indizio di misoginia in questo epigramma in prosa significherebbe dimenticare che l’autore, quando il figlio lo fece stampare (1529), viveva felice con la sua quarta moglie, e come testimonia Erasmo, in buona armonia anche con il figlio il quale amò le sue matrigne come pochi al mondo fanno con le proprie madri [12] .

    Un’altra battuta che ci è stata trasmessa dal figlio è sicuramente emblematica di questa equilibrata e accettata dimensione familiare.

    Vorrei che tutti ci comportassimo con i propri difetti come mio padre dice che ci comportiamo con le nostre mogli. Quando infatti sente qualcuno biasimare le mogli e dire che così tante tra di loro sono bisbetiche, afferma che vengono diffamate a torto. Dice infatti semplicemente che non c’è che una sola moglie scaltra nel mondo, ma sostiene anche che ogni uomo crede di averla, e che quella sola sia la sua [13] .

    È abbastanza evidente da questi due ricordi del padre quanto Thomas fosse devoto alla sua figura, quanto la sua stessa formazione culturale fu influenzata da quella paterna. Arricchito, perciò, di tutto quello che aveva ricevuto e appreso dal padre, quando si accorse che la sua casa poteva essere un terreno molto fertile alla giocondità, non ci pensò un istante a fare della sua attitudine all’allegria uno strumento finalizzato al piacere e al buon andamento delle relazioni familiari.

    In realtà il genio di Thomas More, la presenza, anche se discontinua del padre, quella del buffone e l’onnipresenza della moglie rallegravano quella casa come una sorta di piccolo teatro domestico, in cui le parti più divertenti erano rappresentate dai dialoghi e alterchi spontanei tra marito e moglie, che appaiono come delle perle incastonate nella sconfinata bibliografia moreana. Se la maggior parte delle merry tales sono ambientate in famiglia e hanno per protagonista la moglie è perché More, più che con qualsiasi altro personaggio della sua casa trovò in lei una spalla di grande efficacia al suo umorismo, altrettanto ironica e divertente.

    Come emerge dai testi i ritratti pungenti della moglie non erano delle ironiche prese di posizione nei confronti della personalità di Alice, ma facevano parte di un gioco a due portato avanti da entrambi con divertita complicità. In quell’allegra diatriba i due lasciavano sottintendere una recondita volontà: nell’umorismo di Alice si può leggere una estenuante ricerca di perfezione a danno del marito e dei figli. In Moro è come se si leggesse la sua risposta all’iniziativa della moglie.

    Non che lui non gradisse il desiderio di piacere della moglie, le sue continue premure e attenzioni verso gli interessi e le amicizie del marito, ma non erano queste le ragioni per cui l’aveva sposata. Egli voleva una madre per i suoi figli e, in questo la signora Alice adempirà pienamente la sua missione se nell’elogio funebre il marito la celebrerà come colei che è stata devota ai suoi figli (vanto raro per una matrigna) quanto poche madri ai loro propri.

    Ancora più sorprendente è osservare come il rapporto esilarante tra i due non viene meno neppure quando cambiano le condizioni della loro vita. Anche all’interno di una cella della Torre Londra, pur manifestando in quella circostanza sentimenti del tutto contrastanti, quel divertente gioco a due fu portato ugualmente avanti, senza che nulla delle loro parole o dei loro gesti lasciasse trasparire segni di tristezza o di disperazione.

    La famiglia fu indubbiamente il luogo dove ebbe origine e si fortificò la vena allegra di Thomas More, quella tendenza naturale alla gaiezza e all’umorismo che contrassegnò qualsiasi aspetto della sua esistenza. In realtà di qualsiasi cosa si parli nelle sue opere, che si tratti di legge, di costume o di religione, in qualsiasi ambiente lo si incontri, come dal cilindro di un illusionista riesce sempre a cavar fuori una facezia che ne rappresenta il pensiero.

    Verosimilmente More, uomo di grande ingegno e arguzia, quando si rese conto di essere in possesso di questa particolare abilità e della sua capacità educativa, nonché del consenso che riusciva a ottenere a livello pubblico e privato ne farà uso in qualsiasi campo del suo sapere e delle sue attività.

    Indubbiamente le facezie nascono dall’importanza che More dava all’allegria e al buonumore nella conduzione dei rapporti umani. Respingendo l’accusa di mancanza di serietà rivoltagli dai riformatori protestanti inglesi dichiarò nella sua Apology che «un uomo può alle volte, in mezzo al gioco, dire grandi verità; e per chi è laico, come me, è forse più conveniente esporre il proprio pensiero allegramente che non predicare con solenne serietà» [14] . E non solo per chi è laico se nel suo ultimo scritto dalla Torre racconta, citando una delle conferenze di Cassiano, che:

    un certo santo padre, durante una predica parlò del cielo e delle cose celesti tanto celestialmente che molti dei suoi ascoltatori per il dolce suono cominciarono a scordarsi di tutto il mondo, e s’addormentarono. Quando il padre se n’avvide, fece finta di non accorgersi del loro sonno, e subitamente disse: Vi narrerò una bella storiella, allegra. Al che essi alzarono il capo per ascoltare; ed essendo poi il sonno interrotto, continuarono ad ascoltarlo anche quando riprese a parlare del cielo. In qual modo il buon padre riprendesse il loro sciocco intelletto, ottuso nei riguardi di ciò per cui fatichiamo tutta la vita, tanto svelto e voglioso, invece, quando si tratta di sciocchezze, né mi ricordo, né è necessario ripeterlo qui. Ma, per concludere il nostro punto, ci basti dire che, quando mi chiedi se, tribolati, si può talvolta cercar sollievo nell’allegria e nelle ricreazioni mondane, non posso rispondere se non che per colui il quale non sa tener sollevata la testa per lungo tempo quando sente parlare del cielo, a meno che ogni tanto (come se udir parlare del cielo fosse cosa pesante) non venga ristorato con un racconto leggero ed allegro, non v’è altro rimedio se non di lasciargli fare così. Vorrei qualcosa di meglio, ma non posso fare altrimenti [15] .

    In questi pensieri More dimostra di avere una profonda conoscenza dell’animo umano, quella stessa che grandi maestri dello spirito, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, hanno inteso definire nei termini di affabilità ed eutrapelia.

    Aristotele si domanda se l’uomo colto possa cercare riposo anche attraverso lo scherzo e il gioco, e risponde affermativamente, precisando che non si deve però esagerare mantenendosi nel giusto mezzo. Nella vita sono necessari il riposo e lo scherzo, evitando però l’eccesso sia di chi è homolochos (pagliaccio) sia di chi è agroikos (rozzo). L’eutrapelia è pertanto il giusto mezzo tra il ridanciano e il rozzo, nell’uso del gioco e dello scherzo; eutrapeloi sono coloro che sanno scherzare con misura, per essere più preparati alle cose serie della vita, e non tralasciare la ricreazione necessaria anche quando si devono sostenere pesanti carichi di lavoro [16] .

    Allo stesso modo san Tommaso definisce la virtù che regola gli atti umani nel gioco e nello scherzo, ricordando che per lenire la fatica dell’anima bisogna ricorrere a un piacere, interrompendo la fatica delle occupazioni razionali, avvertendo però di non cercare il piacere nelle cose turpi e che il divertimento sia adatto alle varie circostanze della vita.

    Ora, con nostra grande sorpresa l’Aquinate per spiegare come l’anima abbia bisogno di riposo narra un apologo che ricava da una delle Conferenze di Cassiano [17] , e che ci permette di stabilire una straordinaria corrispondenza di pensiero tra More e il Dottore Angelico, sebbene la caratteristica tipicamente moreana fu quella di saper cogliere la virtù dell’eutrapelia in condizioni esistenziali tali da condurre altri spiriti alla disperazione piuttosto che al buonumore [18] .

    Scriveva infatti nel Dialogo contro le tribolazioni per confortare se stesso:

    Una lieta storiella reca molto ristoro, e senza danno alcuno allevia la mente e cura lo spirito e lo stomaco. Sembra dunque ben fatto prendersi una ricreazione del genere. Mi pare che Salomone dica che nella tristezza si dovrebbe offrire vino a chi soffre, per fargli dimenticare il dolore. E san Tommaso dice che il parlare piacevole e appropriato, chiamato eutrapelia, è una buona virtù, che serve a ricreare la mente, e a farla svelta e vogliosa alla fatica e allo studio, mentre il continuo sfacchinare la renderebbe ottusa e le sarebbe fatale [19] .

    Sulla virtù dell’allegria e della giocondità il nostro autore, seppur nella diversità di pensieri e situazioni, subì decisamente l’influenza di quel filone della tradizione patristica e scolastica che non considerò un errore o uno scandalo il collegamento all’ideale dell’umanesimo greco, dimostrando che questo nuovo ideale di vita non necessariamente doveva avvertire la contrapposizione con l’immediato passato e con le forze che lo avevano animato: ossia, in contrasto con il Medioevo, con tutte le arretratezze e le carenze dominanti nella Scolastica, nello Stato e nella Chiesa, come comunemente gli umanisti sostenevano. Oltre questo passato che in parte appariva cupo, opprimente e artificioso si cercava un’umanità più libera, più bella, più armonica in cui il valore dell’umanità veniva affermato anzitutto nel suo essere umano e in quello che l’uomo sapeva fare di buono piuttosto che nel legame con Dio.

    In questo contesto niente di più facile, poiché è parte integrante la natura umana, fu l’affermazione, per uomini come More, della virtù del buonumore. Non c’è libro, non c’è genere di argomentazione in cui More non usi la facezia per divertire, insegnare, polemizzare [20] . La sua vita privata come marito, padre, padrone di casa, la sua attività professionale come avvocato prima e poi come magistrato, la sua vita pubblica come vicesindaco, consigliere del Re, ambasciatore e Cancelliere del regno, la sua dimensione religiosa come uomo di fede autentica contro la superstizione e la falsa religiosità, il suo impegno come apologista contro la sedizione dei primi riformatori protestanti, la sua maniera tipicamente cristiana di affrontare la sofferenza, la persecuzione e la morte sono imbevuti, per dirla alla Erasmo, della sua carica di simpatia e di gaiezza, del suo gusto per gli scherzi.

    Se doveva confutare una tediosa questione teologica non ci pensava due volte ad interrompere la pesantezza della trattazione riportando un racconto allegro di un episodio che gli veniva in mente e che si adattava ottimamente come strumento apologetico. Emblematico in merito l’episodio del folle proclama di Henry Patenson a Bruges, il buffone di More, che di per sé non ha nulla a che fare con le tesi del riformatore inglese Robert Barnes, ma in quel contesto sembra che sia Patenson stesso a confutarle. Oppure l’episodio che abbiamo intitolato [21] l’esilarante controlezione della moglie, il ricordo di uno dei più divertenti racconti che si trovi nella bibliografia moreana. In realtà la natura comica del personaggio fu proprio quella di servirsi di questa sorta di letteratura per dare gusto e forma alla sua pesante e a volte tediosa trattazione apologetica.

    Le merry tales non sono soltanto ricordi di fatti o episodi divertenti che riguardano personaggi di sua conoscenza e che vengono usati da More secondo i propri scopi, sono anche i suoi motti di spirito, le sue canzonature rivolte alla moglie, ai figli, ai mariti delle figlie, ai suoi servi, le sue ironie e risposte argute verso uomini importanti del regno come il Cardinale Wolsey [22] .

    Esse ci permettono di rilevare con ammirazione e stupore come determinate situazioni, che nascevano in maniera occasionale e che richiedevano il suo intervento, si trasformavano nelle sue mani in soluzioni divertenti. Una fra tutte è la contesa del cane, una diatriba tra due donne, di cui una era la moglie. Anche altre come la questione di Davy l’olandese, la difesa che si assume della lingua inglese, la sonante lezione di diritto impartita a un personaggio vanaglorioso, la risposta che fornisce alla maliziosa richiesta del genero William o il dono di Capodanno restituito, manifestano la sua abilità ad affrontare serenamente ciò che in altri avrebbe generato una certa dose di turbamento interiore. Al contrario More con il suo umorismo e la sua allegria riportava all’ordine e alla ragione la complessità dei fatti e delle questioni delicate che si presentavano al suo cospetto.

    Ecco come il suo più severo biografo descrive questo particolare atteggiamento dello spirito.

    Anche alle questioni più serie inframmezzò degli scherzi, mantenendo tuttavia assolutamente immutata la serietà esterna del volto e dell’intero corpo, così da sembrare giocoso non certo per intero, ma sempre, mai dissoluto o superficiale, ma sempre serio e impassibile, al punto che anche quando diceva semplici scherzi, persino le persone a lui più intime pensavano che parlasse sul serio. Infatti, anche quando ribatte con durezza a un avversario, la risposta stessa, spesso, è uno scherzo. Tuttavia nei suoi scritti non potresti mai trovare battute sarcastiche, espressioni mordaci o battute feroci. Scherzando confuta l’eretico, smonta l’accusa, reagisce a un’obiezione. E così, mentre combatte o è combattuto con massimo ardore, porta o schiva il colpo con una certa ironia, e questo con un’intelligenza tanto acuta da non sapere che cosa ammirare di più, se la riuscita della trovata o l’affabilità dei modi, se l’arguzia o l’eleganza [23] .

    La sua predisposizione naturale a volgere il dramma in una commedia, come largamente dimostrano tutte le fonti contemporanee, era indubbiamente corroborata dalla conoscenza che aveva della natura umana e delle cose del mondo. «Come uomo esperto della realtà sociale ed avvezzo per la sua professione forense e giudiziaria ad ascoltare, interrogare, contestare testimoni, imputati e litiganti, egli ebbe viva consapevolezza della commedia della vita. Le sue facezie ne colgono la intrinseca mancanza di classiche proporzioni, le irrazionali deformità sottese alla epidermica compostezza e misura. Per quanto More fra i suoi modelli riconobbe Pico della Mirandola, esse, in una parola, sono specchio della indignitas hominis» [24] .

    Incontriamo poi nella bibliografia moreana delle tales che definirle opere d’arte sarebbe certamente riduttivo. Sono delle vere e proprie creazioni: situazioni pensate e organizzate da More appositamente per divertire e nello stesso tempo trasmettere un messaggio educativo. Si veda in proposito quelli della sposa abbindolata, del

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