Una squadra lunga dieci anni
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… quella “passionaccia” di preparare la borsa, gli scarpini, la tuta, i parastinchi e volare, nel tempo libero, a giocare la partita di pallone ci accompagna sempre, almeno fino quando il fisico ce lo consente.
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Chi lo fa per tirare solo due calci, per autoconvincersi che ci sa fare anche lui e che solo la sfortuna gli ha impedito una carriera da professionista, chi per cercare di salvare, dai trent’anni in su, quel che resta del fisico più o meno asciutto di un tempo.
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Così può accadere che dalla semplice sgambata nasca l’idea più ambiziosa, quella di formare una squadra vera, almeno nelle intenzioni. Con un nome, uno sponsor, una maglia uguale per tutti e che partecipi a un campionato nel quale, alla fine, si vinca qualcosa. Una coppa, per quanto altamente simbolica, che stia a certificare chi è riuscito a trionfare su tutte le altre nel torneo Amatori.
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Impresa praticamente impossibile per chi, come la squadra che viene narrata in questa storia (vera), ha raccattato un po’ di tutto: tre-quattro giocatori dal discreto passato, ma anche gente ferma da molti anni, altri abituati alla partitella della domenica mattina con i giubbini a fare da pali delle porte, o addirittura personaggi che non hanno mai calciato un pallone, o quasi. Un gruppo che comunque ha finito con il creare solide e durature amicizie.
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Qui si racconta di una delle tante formazioni amatoriali che popolano le nostre provincie e che scandiscono secondo i medesimi ritmi, quasi tribali, i loro percorsi settimanali: gli allenamenti fatti soprattutto solo per giocare, le cene in compagnia con l’illusione, poi, di fuggire dalla monotonia, con una concessione al peccato extra-coniugale, la partita del sabato, le sconfitte, le vittorie e le incazzature che il giorno dopo passano, perché la routine ci riassorbe.
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Però ci si sente calciatori veri, anche solo per qualche ora, dal momento in cui si posa per la fotografia, a quando si discute con l’arbitro per episodi dubbi, fino all’esultanza sotto l’esiguo manipolo di amici che ai nostri occhi assumono le sembianze di una Curva zeppa di tifosi vocianti. Per noi.
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Book preview
Una squadra lunga dieci anni - Alberto Sogliani
71
CAPITOLO PRIMO
Quanti sono dieci anni della nostra vita? Tanti, oppure pochi, a seconda dei punti di vista e dell’intensità con la quale si vivono. Oppure dipende da quando sono vissuti: nell’infanzia sembrano un’eternità, nell’adolescenza iniziano a correre più velocemente e spesso si vorrebbe fermare il tempo. In una vacanza indimenticabile o anche solo in una notte di passione. Da adulti e nella maturità volano come schegge impazzite ed i momenti, per assurdo, acquistano importanza quando sono già trascorsi. Soltanto dopo ci si rende conto di quanto hanno inciso nella storia di ciascuno di noi. Molto spesso è tardi, qualche volta invece ce ne accorgiamo quando è ora e riusciamo a vivere questa esperienza fino in fondo.
La nostra squadra nacque praticamente per caso e durò, tra alterne fortune, circa dieci anni. Ormai eravamo tutti nell’età in cui avevamo capito da un pezzo che non saremmo mai diventati calciatori veri. Per intenderci, tra i 25 ed i 35 anni. Lo avevamo capito al punto che non volevamo saperne più nemmeno di giocare tra i dilettanti, in Seconda o Terza Categoria. Un po’ perché gli allenamenti seri cominciavano a pesare, un po’ perché i dilettanti giocavano alla domenica e in quel giorno c’erano le morose o le mogli che reclamavano il loro spazio. La fase delle gare tra scapoli ed ammogliati o peggio, alla Fantozzi, per fortuna ci aveva preceduto: ai nostri tempi restavano dunque soltanto le partitelle con gli amici, qualche sfida tra compagnie o nei tornei interaziendali. Il massimo, il top, sarebbe stato andare in una squadra di Amatori: si giocava al sabato, gli allenamenti sarebbero stati certamente minori come numero e come intensità, in più le sedute mono o al massimo bisettimanali di sera erano una stupenda scusa per uscire di casa. Per dare i calci al pallone ma anche, il giovedì in particolare, per il classico post-allenamento: che si poteva tradurre in una cena oppure in una serata che spaziava tra la bevuta al bar (primo step) e la puntatina al night (per definizione, la seratona). Dove tutti, dai single, ai fidanzati e soprattutto, agli sposati con prole, si esprimevano molto meglio rispetto alle esibizioni sul rettangolo verde. Le motivazioni, in ogni caso, erano molto più alte.
Già, gli Amatori. Sarebbe stato il massimo, purtroppo c’erano parecchi problemi da superare. Spesso le squadre di quel tipo erano formate da gruppi consolidati, entrando nei quali occorreva bucare la cortina d’ombra che ti trascinavi appresso già dal momento del primo allenamento. Ero stato almeno cinque-sei volte in situazioni simili, sempre chiamato dall’amico di turno che ti diceva: dai, vieni, c’è bisogno di uno come te in mezzo al campo
. Sempre, inesorabilmente, al mio ingresso nello spogliatoio ero guardato dall’alto in basso, sezionato e radiografato da capo a piedi. Di fatto il clima sembrava sempre allegro, gioviale, atto a favorire la pronta integrazione nel gruppo. Niente di più falso: negli Amatori l’arrivo di un nuovo giocatore mina alle radici i fragili equilibri che si reggono sostanzialmente su una cosa molto semplice, ovvero avere il posto in squadra assicurato. In particolare se l’allenatore, che spesso è un amico oppure è destinato a diventarlo, ha già fatto le sue scelte che sono ormai ataviche e sclerotizzate. Ergo, giocano sempre e da sempre gli stessi undici, a meno che tu non sia un fenomeno che fa vincere la squadra quasi da solo. Nel qual caso, comunque, ti attiri le antipatie di chi giocava prima di te, il quale avvierà poi una sorta di tua denigrazione all’interno del gruppo che prima o poi esploderà in maniera deflagrante. Occhio che quello è bravo ma è una testa di cazzo
, oppure sì, ma sabato scorso cos’ha fatto, in fin dei conti…?
, o peggio vabbé, se gioca lui non vengo più io…se devo fare anche la panchina negli Amatori dove si gioca solo per divertirsi…
. Insomma, un campionario di frasi fatte, tipiche di questo mondo, pronte da essere usate alla prima occasione utile che si insinuano alle radici e ti mettono fuori causa. In definitiva, ammesso e non concesso che fossi stato accettato nel nuovo gruppo, io mi ero sempre accorto che dal ruolo di titolare fisso affibbiatomi le prime due o tre partite, a poco a poco rientravo nei ranghi. E quindi lasciavo la squadra prima ancora di essermi fatto tesserare restando in attesa di una nuova, ipotetica, occasione.
Io ero quasi il meno giovane ma non volevo saperne di mollare. Quel pallone per me continuava a rappresentare qualcosa di magico, non riuscivo a resistere al suo richiamo quando la vedevo rotolare. Era stato così da sempre, fin da bambino, e pensavo che prima o poi mi sarei stancato. Invece no, almeno per il momento. Facevo il giornalista sportivo anche per quello: mi piaceva andare al campo, sentire l’odore dell’erba e vedere da vicino i giocatori veri
che si contrastavano, come passavano il pallone di prima e l’abilità tecnica che più o meno possedevano. Quando schizzava fuori la sfera, tac, ero io il primo ad andare a prenderla e ributtarla in campo con i piedi. Per far vedere loro che un po’ di qualità ce l’avevo anch’io, che non scrivevo soltanto perché ero un represso che criticava senza aver mai giocato a calcio. E naturalmente quando qualcuno, in modo semiserio, mi diceva: però dai, mica male quel destro…
, la mia autostima raggiungeva vertici impensabili. Sostanzialmente inutili, ma sufficienti per sottolinearlo nella prima partitella tra amici.
CAPITOLO SECONDO
Quel gruppo nacque per caso, più o meno. Non era la classica squadra di amici da sempre, che passando dall’infanzia alla maturità insieme a un certo punto decidono di spendere le ultime cartucce sportive riassemblando il vecchio sodalizio Qui l’idea prese corpo passo dopo passo, prima c’era solo la voglia di giocare e, particolare molto importante, non c’erano preclusioni per nessuno. Se era forte meglio, ovviamente, ma non era un fattore decisivo per essere integrato. Anzi, se era bravo ma era un pallone gonfiato non lo si voleva. Si preferiva che fosse divertente, estroso, intelligente in campo e fuori. A un certo punto si può dire che quel gruppo nacque da solo, nel senso che chi veniva ad allenarsi la prima volta capiva abbastanza presto due cose: 1) se i potenziali nuovi compagni lo avrebbero accettato 2) se lui stesso si sarebbe trovato bene con loro. Dunque spesso non c’era nemmeno bisogno di dire …scusa, ci spiace ma in quel settore siamo a posto…
, che nascondeva un più sincero: …i rompiscatole come te non li vogliamo…
. La gente si tagliava fuori o si integrava da sola. E la cosa bella fu quando il gruppo diventò talmente coeso da non avere bisogno di altri. Ci bastavamo da soli. Indipendentemente dai risultati. Che all’inizio, naturalmente, arrivavano con il classico contagocce. Io entrai nel gruppo tramite il Voce. Lo avevo conosciuto qualche anno prima in un corso allenatori di calcio e mi colpì subito per la simpatia innata. Un vero genio, dalla battuta tagliente e con uno spiccato senso di autocritica. Oltretutto anche lui aveva delle velleità giornalistiche e mi fece entrare in contatto con una redazione di un periodico gratuito che, in pratica, fu la mia palestra per le esperienze professionali successive. In seguito infatti gli resi il favore quando, da cronista già integrato in un quotidiano locale, gli offrii una collaborazione retribuita. Che pure per lui fu poi l’anticamera del suo futuro da giornalista. Quella sera il Voce mi disse: Vieni ad allenarti con noi? Stiamo pensando di iscriverci al campionato Amatori
. Gli errori commessi in passato mi avrebbero fatto dire: No, grazie
, ma stavolta avvertivo qualcosa di diverso. Il Voce mi era simpatico a pelle e da come lo conoscevo, sapevo che di certo con lui non avrei litigato. Personalmente poi avevo ritrovato la voglia di giocare dopo un periodo difficile tra la fine di un lungo rapporto sentimentale e qualche delusione successiva. Gli anni cominciavano a correre sempre più veloci, ma ero in un periodo in cui non avrei dovuto rendere conto a nessuno delle mie decisioni. Dunque quella volta, malgrado si fosse già all’imbrunire di un tardo pomeriggio di settembre, dopo una giornata comunque lavorativa, non ebbi dubbi: Ma sì, dai
– gli dissi - Vado a casa, prendo la roba e poi ci troviamo là al campo. Intanto stasera vengo, poi ti farò sapere se continuerò". Classico finale con il quale mettevo le mani avanti, pensando che ben difficilmente avrei proseguito o, soprattutto, mi sarei fatto tesserare. E quella sera, per me, iniziò invece un percorso lungo dieci anni che non avrei mai più scordato per tutta la mia vita. Senza retorica.
Al campo mi accorsi subito di essere il meno giovane. Allora lo potevo ancora dire. Un po’ lo immaginavo, anche perché il Voce in effetti aveva qualche anno in meno di me e potevo presumere che i suoi amici fossero più o meno suoi coetanei. Ed oltretutto, particolare molto strano, non conoscevo praticamente nessuno, malgrado fossero tutti di Mantova e dintorni. Solo qualcuno di vista, ma davvero pochi. A eccezione del Tino. Il Tino lo avevo conosciuto qualche anno prima in un’altra squadra amatoriale, gestita e sponsorizzata da un conoscente, nella quale andavo ad allenarmi e basta. Almeno per le prime volte. Poi mi convinsero a farmi tesserare compiendo (io) un errore macroscopico: l’allenatore, per così dire, era un factotum. Era anche lo sponsor, bravissimo ragazzo, che però faceva giocare soprattutto i suoi