Prigioniero dei sogni: romanzo
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Prigioniero dei sogni - Ramona Corrado
Prigioniero dei sogni
romanzo
Ramona Corrado
Published by Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2017
Copyright Ramona Corrado, 2017
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868152550
Immagine di copertina Giuseppe D’Emilio
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041
www.meligranaeditore.com
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Ramona Corrado
Ramona Corrado, infermiera con l’hobby della scrittura, ha vinto vari premi letterari, ricevuto diverse segnalazioni e si è classificata ai primi posti in molti altri concorsi letterari. Ha pubblicato racconti in numerose antologie di AA.VV., in riviste letterarie o riviste femminili. Dal 2006 fa parte della Carboneria Letteraria
, collettivo di scrittura con cui ha pubblicato molti racconti e nel 2014 il romanzo di fantascienza Maiden Voyage, scritto a 34 mani per Homo Scrivens. È stata redattrice e fondatrice di Vibrisselibri
, casa editrice online di Giulio Mozzi, e ha scritto per il lit-blog La Poesia
e Lo Spirito
. Attualmente cura delle rubriche per la web-magazine facciunsalto.it Nel 2012 ha pubblicato l’ebook Un golfino blu racconta, Abelbooks, recensito sul Sole 24Ore
e premiato al concorso Vedere oltre
del master Death Studies & the End of Life, Università di Padova. Nel 2015 esce il suo secondo libro, la raccolta di racconti Tela di ragno, Meligrana Editore. Prigioniero dei sogni è il suo primo romanzo.
Contattala: rammy.one@gmail.com
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www.puntapiedi.wordpress.com
https://www.facebook.com/ramona.corrado
Prigioniero dei sogni
Io vivo nei miei sogni.
Anche gli altri vivono nei sogni, ma non
nei loro, ecco la differenza.
Herman Hesse, Il coraggio di ogni giorno
I
Il 15 giugno 1973 Emilio Lanza compiva ventitré anni e quel giorno gli si presentò un mare di nuove opportunità. Era libero, poteva cominciare a muovere i primi passi di un’agognata indipendenza.
Il 15 giugno 1973 Emilio si apprestò a prendere possesso di quella che avrebbe chiamato casa da lì in avanti: una semplice camera in affitto a S., presso una famiglia che solo in tal modo, dato il periodo di magra, sarebbe riuscita ad arrotondare i modesti introiti. Gli Scopetti vivevano in un imponente palazzo d’epoca che richiedeva spese importanti: un’eredità preziosa e scomoda insieme. Il clima era di ristrettezze, vivere costava non poco, figurarsi mantenere una simile sanguisuga. Da ciò il bisogno impellente di condividere le numerose stanze e le altrettanto grasse uscite con estranei in prestito.
La facciata del palazzo, situato nell’antico centro di S. in piazzetta Garibaldi, incuteva soggezione e ancora di più ne suscitava il suo portone. Quando Emilio vi si trovò di fronte mancava poco al tramonto, il sole era fermamente deciso a tuffarsi nel mare e la sera faceva del suo meglio per dipingere una perfetta cartolina. Sembrava la scena di un film da Oscar. A fare da colonna sonora gli strilli delle rondini, quasi indistinguibili da quelli dei bambini che giocavano nella piazza: cinque o sei maschietti tiravano calci a un pallone e tre bambine saltellavano sulla campana disegnata col gesso sull’asfalto. A guardar bene però non si trattava di un film, non c’era un regista a dirigere con un ciack e gli attori erano persone comuni chiamate a recitare scene di vita dannatamente reali. Persone comuni come Emilio, che in quel momento navigava a vista, senza una rotta definita e senza qualcuno al timone a indicare una direzione. Emilio era solo. E gli tremavano le gambe.
La magnificenza del portone lo intimoriva, una barriera che separava l’avvilente conosciuto dall’ignoto possibilista. Esitava, non osava entrare, eppure lo desiderava fino allo spasimo; proprio da lì, da dentro quelle mura prestigiose doveva ripartire la sua vita, era lì che sarebbe avvenuto il cambiamento. Quando si decise a fare un timido tentativo trovò aperto: lo prese per un incoraggiamento.
***
Era stato il padre a trovare quella sistemazione. Il gesto avrebbe dovuto rappresentare la prova del suo sincero interesse per l’erede, ma Emilio non si faceva fregare dalle apparenze. Un padre come il suo era un egoista, interessato per costituzione genetica e impedito da qualche devianza emotiva nell’affetto verso il figlio.
La famiglia Scopetti, padre, madre e due figli, non aveva avuto niente in contrario ad accogliere il giovane nella propria abitazione. Con tutto quello spazio a disposizione nel palazzo di famiglia non ci sarebbero stati problemi nel far posto a un ospite che apportava una non disprezzabile entrata extra. Certo, le precauzioni le avevano prese, i tempi erano all’insegna del pericolo. Con quel che si sentiva dire alla televisione essere prudenti era legittimo. Pochissimi anni prima, nel 1969, c’era stata la strage di Piazza Fontana e da allora vivere non era stato più lo stesso. Era stato come risvegliarsi da un felice, grasso e pigro letargo per ritrovarsi di colpo alle prese con bombe e attentati, sequestri e omicidi. Solo un mese prima, a Milano, una bomba era esplosa davanti alla Questura facendo morti e feriti. Crescevano la paura e la diffidenza e si guardava con apprensione soprattutto verso i giovani.
Emilio non destava preoccupazione. I signori Scopetti avevano reperito accurate informazioni sulla famiglia di provenienza, con discrezione e senza difficoltà. S., città di mare di circa 30.000 anime, era provinciale e pettegola come un paesetto di campagna, gli affari personali non rimanevano segreti a lungo. Negli armadi di casa Lanza non dimoravano scheletri. Il papà Leonardo era impiegato di alto livello in banca, a garanzia di un certo benessere economico e di onestà.
Anche il parroco aveva garantito per Emilio.
«È un bravo ragazzo» aveva detto di lui don Mario. «Ha poco più di vent’anni e un bell’aspetto, che non è certo un peccato, anzi, è un marchio di fabbrica celeste, perchè tutte le cose belle vengono da Dio. Poi è di indole mite ed è stato educato in istituti religiosi. Non è un ribelle come i ragazzi di oggi. Vuole un po’ d’indipendenza, si capisce, ma è normale, anche noi alla sua età... Lavoro? No, ancora non lavora e no, non studia, ma presto troverà un’occupazione, ci sono dei discorsi aperti».
Quest’ultima affermazione, più delle altre, aveva suscitato un sospiro di sollievo negli Scopetti. Un giovanotto nullafacente era un potenziale anarchico, poteva facilmente finire in mezzo agli schieramenti estremisti tanto rossi che neri e diventare un pericolo. Essendo il giovanotto in questione cresciuto in ambito pio invece, c’era da sperare bene.
A dirla tutta don Mario, barcamenandosi da equilibrista sul filo spinato delle verità, aveva esposto un ritratto del soggetto rassicurante, ma non del tutto veritiero, senza tuttavia venire meno ai doveri della propria divisa, cioè senza mentire. Non troppo almeno.
Emilio era stato effettivamente in collegio, solo che aveva cambiato diversi istituti a causa di un carattere, come dire, controverso: da un lato timido all’estremo, dall’altro precoce e vivace. Il don non aveva ritenuto opportuno rivelare le scenate quotidiane che avvenivano in casa Lanza. Non era argomento che doveva interessare gli estranei. La causa era sempre Emilio, dicevano i suoi; Emilio dal canto suo ribadiva il proprio status di incompreso e il buon prete era d’accordo ora con gli uni ora con l’altro. Quanto ai contatti di lavoro millantati per il momento non ce n’era in giro neanche il sentore, ma nulla escludeva che ce ne sarebbero stati in futuro. Riuscì a essere sincero e convincente, tanto che alla fine i signori Scopetti furono soddisfatti delle referenze, don Mario era soddisfatto per aver compiuto un’opera buona, il signor Lanza era soddisfatto perché si sgravava di un peso e il ragazzo era soddisfatto per la libertà acquisita. Ci vuole così poco a soddisfare le pretese della gente. Basta una mezza verità.
E così Emilio si ritrovò adulto. Una sensazione nuova, che lo inorgogliva e impauriva.
***
Era entrato. Fermo davanti alle scale che dall’androne lo avrebbero portato al secondo piano avvertì un furioso batticuore e un vuoto allo stomaco. Le mani non si decidevano a starsene ferme, in preda a un tremore incontrollato come quelle di chi si trova sotto shock per un evento pauroso o di chi fa i conti in cronico con l’alcool. Era quello un luogo del tutto sconosciuto, che non aveva nemmeno voluto visitare in anteprima, cogliendo al volo la prima occasione che si era presentata. Gli bastava andarsene da casa, qualsiasi posto sarebbe stato meglio dell’inferno che gli regalava la famiglia.
Rimase per un po’ a guardarsi attorno, lì nell’ingres-so, pervaso da un timore reverenziale. Emilio, che non possedeva orologi, si dimenticò del momento presente per tuffarsi nel passato con un salto mortale all’indietro, mentre restava a bocca aperta in contemplazione come un bimbo davanti al giocattolo dei suoi sogni.
Il palazzo si ergeva su due piani. Anche se il giovane non s’intendeva molto di architettura gli era evidente che si trattava di una costruzione antica, forse sei o settecentesca. Ristrutturata in parte, con i lavori che parevano già datati, e adeguata in qualche modo alla vita moderna, ma con la patina dei secoli dignitosamente addosso e l’aria di languido abbandono tipico di una vecchia diva. Proprio per rispetto alla sua età era inevitabile provare un filo di soggezione. La scalinata in marmo forse aveva visto la discesa di belle signore in crinolina o le arrampicate di intrepidi cavalieri e girotondi di valzer, appuntamenti galanti e segreti… Forse ci aveva abitato un principe, o un nobile. Ora però le mura erano spoglie e fredde. Se mai avevano contenuto quadri, al momento si innalzavano nude e, quasi vergognose del proprio aspetto, regalavano soltanto brividi di sgomento. Il lampadario invece era bello e prezioso, realizzato con mille gocce scintillanti, adatto più a una sala da ballo che a un ingresso.
Dopo l’emozione del primo impatto con la solennità del palazzo e delle sue viscere venne l’ora di riscuotersi. Basta con le fantasie
, si disse infatti Emilio, era inutile perdere altro tempo. Gli parve di avere tutto sotto controllo, doveva decidersi ad affrontare questa benedetta, sospirata vita nuova.
Salì al secondo piano: al primo non aveva visto nomi sulla porta. In effetti, come gli fu confermato più tardi, non vi abitava ancora nessuno. Doveva prima essere restaurato e prima ancora erano da reperire i fondi necessari. Solo in seguito se ne sarebbe deciso il destino.
Suonò al campanello di una porta di legno chiaro, uguale a quella del piano sottostante, più innocua del grande portone che lo aveva accolto all’ingresso. Sulla targhetta era scritto Scopetti. I padroni di casa.
Ad aprire fu il capofamiglia in persona. Amilcare Scopetti, militare di Marina in congedo dallo sguardo truce, non si era ancora abituato alla pensione e tutto il suo aspetto denunciava la persona abituata a comandare, pervasa da un viscerale e perverso rispetto per leggi e regolamenti. Emilio, d’istinto, cercò di farsi più piccolo di quello che era e parve riuscirci. Lo Scopetti, dalla soglia, lanciò uno sguardo accigliato a destra e sinistra senza notare nessuno fino a che non scovò, in un cantuccio del pianerottolo, l’alieno che osava disturbare. Quello che vide non gli piacque. Cos’era quello? Lineamenti delicati, colorito quasi grigiastro, occhi neri, ciglia lunghissime. Un ragazzo fin troppo normale, altro che alieno, un sovversivo come tanti. Un viso passabile, anzi bello, troppo bello, che a suo parere avrebbe procurato guai a lui e alle femmine della sua specie. I capelli, neri anch’essi, erano lunghi sul collo e spettinati. Anche le basette erano leggermente fuori misura, come dettava la moda: chiunque non fosse un militare ormai le portava così. E poi quei pantaloni beige, con le gambe scampanate in fondo, poggiati a fatica sui fianchi magrissimi. E la camicia a quadri bianchi e rossi, così in disordine, fuori dai suddetti pantaloni. L’insieme parlava anche troppo bene di un giovane scapestrato. Troppo moderno, ecco.
In un solo colpo d’occhio l’ex milite aveva soppesato, giudicato e condannato l’alieno; si apprestò a respingerlo senza troppi complimenti al mittente, qualunque esso fosse,