Nevica poco e male
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Incontrando la donna picchiata dal marito, il giornalista viscido e asservito, il ferroviere innamorato delle piccole, insignificanti inserzioni della vita, l’uomo abbandonato dalla speranza e la signora che ha lasciato i sogni in un punto imprecisato del suo passato, incontriamo noi stessi, la nostra quotidianità ripetitiva e pure rassicurante, che costruisce un possibile orizzonte di senso.
La voce del narratore che racconta un’indagine fuori dal comune, si trasforma nella voce di ciascuno di noi, nelle parole del viaggio che percorriamo a ritroso nel tempo, nella curiosa ricerca mai conclusa e sempre rinnovata di noi stessi. E il palazzo si trasforma in uno spicchio di mondo. Mentre fuori, le stagioni si succedono e la neve scende lentamente a coprire le ferite della terra.
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Nevica poco e male - Antonella Presutti
madre
La vita degli altri
La vita degli altri. Il mio lavoro. Giorni, mesi, anni a seguire la vita degli altri, fino all’ultimo istante in cui la luce si è chiusa sulla mia testa e l’aria si è strozzata in gola. Quando sono rinato con un cuore semi nuovo, mi sono accorto che la vita degli altri stava diventando la mia, così ho cominciato a fare economia di sentimenti inutili, eccessivi e mi sono concentrato su quelli positivi, li ho isolati, guardati, riconosciuti, liberi da scorie, liberi da polvere. Ora sono sistemati in vetrina, nella penombra della mia casa con vista sulla stazione, avvolta nel silenzio irreale, in un quartiere antico e démodé, ma affascinante. A volte li sposto nell’archivio del mio studio, Investigazioni De Nisio…cell….tel…massima discrezione
, due strade più in là, vicolo cieco e ancora più silenzioso, dove si arriva di rado e con intenzione.
La notte piomba rapida sul vicolo e il giorno non esplode mai, se non nelle torride giornate di agosto, quando l’aria si sospende nei rumori delle case spaccate, allora mi siedo alla scrivania, accendo la luce fioca anni Cinquanta, aspetto, riordino, ricordo e spero che la porta non si apra.
Prima che l’aria si strozzasse in gola, aspettavo che qualcuno arrivasse. Sono bravo, con una solida reputazione conquistata con la vita degli altri, ho guadagnato abbastanza per vivere serenamente e anticipare la pensione. L’investigatore è una figura defunta, immagine in controluce che si annebbia ogni giorno, perché i tradimenti non fanno più paura e i segreti viaggiano in rete con la rapidità di una folata di vento.
Aspetto che non arrivi nessuno. Riprendo contatto con la mia vita bevendo un pessimo caffè tiepido nel thermos a tenuta dubbia. Nella mia economia di sentimenti le cose hanno acquistato contorni nitidi, ma i ricordi sono liberi, alcuni oscillano al ritmo di un metronomo, altri vanno e vengono e giocano da bastardi con la mia mente. Il mio corpo è una camera in trasloco: sporcizia, scatole, oggetti ammassati, penetra una luce fioca che si sposta da un punto all’altro: non ha la forza di rendere visibile gli oggetti. Lavoro di piccone e di pala sulle intuizioni, sposto detriti, incrocio calcinacci e mi lascio intrappolare dalla polvere. Forse un giorno l’ordine si farà e tornerò a respirare aria pura, profumata di lavanda. Sarà un bel giorno, quello.
Un pomeriggio di una settimana qualunque, nel mio studio di investigazioni, la pioggia pungeva sul vetro con ritmo ipnotico e trapanava le mie fragili difese, il palazzo oscillava sotto il peso dei tuoni, la luce dei lampi sfiorava appena l’interno della stanza. Novembre, il mese che mi sospende verso la fine dell’arroganza estiva, un novembre freddo e piovoso, accartocciato sotto la luce della nebbia spessa. Non ci abbandonava neppure un attimo la caliginosa fetta di vapori che sembrava burro spalmato sulle mie ossa doloranti, sul mio cuore semi nuovo, sulla confezione di cardio aspirine che mi porto sempre dietro, neanche fosse un amuleto, sul thermos aperto che lascia svaporare il pessimo caffè, su una batteria di medicine alle quali, pare, lego la mia vita, perché il sangue non pulsi in fretta e non si coaguli o non sia troppo liquido e il rene filtri e depuri.
Una macchina inceppata il mio corpo al quale tento di togliere ogni possibilità di fermarsi. Abbandonato sulla poltrona in simil pelle bordeaux, che mi accompagna da una vita, da più tempo del cuore semi nuovo, mi divertivo a riflettere sul fatto che gli oggetti esterni esistono con me e per me da prima di quelli interni, così la poltrona bordeaux è il mio vero cuore. Ho aperto il terzo cassetto dal basso, lato sinistro. La precisione è conseguenza del mio lavoro. C’era una foto, una di quelle foto a colori sbiadite non tanto dal tempo, ma dall’incuria del fotografo, che ha fissato, con mano incerta, un palazzo rosso sinuoso, senza nessuna didascalia, il che non è da me.
Riconosco il palazzo. Ingresso del centro storico, antico e imponente, tra casupole di edilizia spontanea cresciute nei secoli con materiale di risulta e sopravissute, non si sa come, ai terremoti che ammazzano questa terra. Ma poi la mia mente annega.
Non mi risulta che ci sia un nesso tra un cuore semi nuovo e la memoria, ma per me è così e nei momenti di ostinato ottimismo, mi convinco che oltre al cuore si è inceppato il cervello, rosicchiato da una forma di demenza senile. Non saprei e non lo sa neppure il medico, che, brancolando nel buio, attribuisce la mia smemoratezza all’ipocondria. Sia chiaro, io non sono ipocondrico.
Della malattia e della morte me ne fotto mediamente quanto l’umanità intera.
Qualcuno mi aveva dato quella foto perché indagassi sul palazzo, sulla vita del palazzo. Nella mente, per lampi, arriva l’immagine di un uomo alto e ben vestito, sessantenne distinto e viveur, attaccato con i denti alla giovinezza. Poi, più nulla.
Ci sono fatti, lettere, carte perfettamente incasellate nella mia mente, altre buie, che appartengono ad un’altra vita, ma quella foto mi chiama, mi parla, non so perché, o forse io leggo il linguaggio degli oggetti, più preciso di quello degli uomini, senza meschinità, inganni, manipolazioni. A volte penso che perdere la memoria sia un’eccellente ragione di vita, perdere la memoria, trovarsi senza cuore, come è capitato a me per qualche frazione di minuto, nell’abisso dell’anestesia, nella finta morte che si muove in assenza di cuore. Può bastare tutto ciò a costruire l’idea dell’immortalità libera da complicazioni, oscillando in un presente senza fine e senza inizio. Nel buio che ora avvolge la casa, nel quale sono calate le luci dei lampioni arancioni, aggrappati gli uni agli altri, ho cominciato a ricordare, ma i ricordi sono confusi e, per la prima volta, la cosa mi piace, direi che mi rassicura.
So perfettamente dov’è quel palazzo e la richiesta del signore danza nella mia mente e si sovrappone a qualche cosa che arriva dall’infanzia. Sento il profumo di violetta che mia madre metteva a goccia dietro l’orecchio, un profumo raffinato, ma passato di moda, perché lei aspettava che le cose passassero di moda per farle sue come una scelta.
Così, con la foto in mano, sono andato davanti a quel palazzo, il giorno dopo, mentre dal cielo pioveva la luce dell’alba mescolata a quella dei lampioni. È un’abitudine arrivare sul posto dell’investigazione all’alba, nel momento in cui le cose diventano intatte, pulite, non sono frastornate dai rumori, dalle presenze inutili, che confondono la purezza dei luoghi, nel momento in cui si ascolta il passo della piazza, di una strada, lo scricchiolio del palazzo. Tutto diventa chiaro. Sono rimasto lì, una mezz’ora, credo. L’aria aveva la consistenza delle mattine autunnali che hanno conosciuto temporali furiosi. Il palazzo ha un cortile interno, che ricorda quello della mia casa di bambino. Basta un triangolo, un colore perché il vuoto si popoli di presenze. Nel cortile dell’infanzia si affacciava il compagno Michael e il ciabattino, Cristo, da dove arrivano questi ricordi, ricordi o fantasie? Troppo nitidi per essere reali e troppo lontani per avere la consistenza di spigoli vivi. Le invenzioni sono precise, le cose che sono esistite, incerte. Rileggo rapidamente quello che ho scritto. Accendo una sigaretta. Sputo sgarbatamente il fumo, ma mi regalo cinque minuti di sospensione del pensiero. Qual è la sua preferita? Faccia un po’ lei, rispondo al tabaccaio, un omino sui sessant’anni che tiene la vita con i denti, quando non è impegnato a caricare e scaricare la macchina dei trenta pacchetti che mette in esposizione ogni mattina all’alba sulle mensole dello stanzino, tre per ogni tipo, di fianco a quattro quaderni, due bottiglie di alcol, due di acqua minerale da 500 cc, due scatole di accendini e una di Diavolina per l’arrosto, tutto il suo mondo che scompare la sera risucchiato dalla macchina, Uno blu anni Novanta.
Ho messo insieme un cerchio di luoghi comuni, mi rendo conto, perché la memoria è fatta di luoghi comuni, basta prenderne atto. Il cuore semi nuovo mi è servito anche a questo. Per ragioni mie, una volta tanto, senza committenti, senza assegni da incassare ho cominciato ad indagare e ad inventare, per il gusto di sapere, per il desiderio di seguire un filo sottile che non so dove mi porterà.
L’anima del palazzo vaga in un punto imprecisato, si nasconde nelle fondamenta.
Anche la mia anima si è staccata. Ci sono sensazioni che assomigliano al destino, inevitabile, semplicemente da seguire.
Comincio a scrivere in una giornata d’agosto, fredda e limpida. La notte ha portato la pioggia furiosa del temporale estivo, non una finzione di tempesta che accende l’aria nella calura dell’umidità pastosa. Mi sono svegliato all’alba e ho camminato in campagna, in una strada che abbraccia la città dall’alto. Il cielo era di un azzurro uniforme, come una certezza non scalfita ed è rimasto così, anche ora che il sole si è fatto alto all’orizzonte e la campagna è lontana. Ho preso a camminare a lungo in campagna, all’alba. Esco dalla città, libero. Gli alberi, i sentieri, gli animali, la stessa luce che è un’altra luce e il pensiero si mette in movimento. La conquista delle abitudini è un percorso meraviglioso e faticoso, all’inizio obbliga al coraggio, poi alla tenace persistenza.
Del palazzo conosco ormai tutto, ma quello che conosco più e meglio di prima è la mia vita. In questo intersecarsi di storie, in questo intrecciarsi di geometrie dalle regole riscritte di foto e intuizioni, sono certo di aver ritrovato il mio cuore di prima; il nuovo mi serve a sopravvivere, il vecchio a vivere. Cosa ne farò di queste storie non lo so, ma so con precisione a cosa mi sono servite, scandite, raccontate nella forma precisa, visionaria e poetica, che da investigatore per gli altri non mi sono mai potuto permettere, ora sono la chiave d’accesso ad un mondo ignoto che sto imparando a conoscere.
C’è la foto in prima pagina
C’è la foto in prima pagina. Metà novembre.
È sera, non ci sono ombre, ma la luce dei lampioni cola dall’alto e lascia tracce nei colori incupiti delle pareti e nel chiarore aurorale che attraversa una finestra laterale con vista sul niente.
Le foto non si scelgono quasi mai in queste situazioni di concitazione.
Il paese sta lì in alto, mille metri, chiazzato di terra e pietre tra una frana e una crepa a coronare le ferite della terra, tra il nulla e il nulla, sulla linea di confine della montagna e il mare. Quando le stagioni erano le stagioni, arrivava il freddo e quando il fiume era un fiume, arrivava il rumore sontuoso dell’acqua impazzita.
Ora c’è silenzio.
Come un adagio andrebbe letto il fiume che scorre sotto di me. Mi viene in mente questo mentre salgo verso la cima.
Quel palazzo sul quale indago, traccia linee invisibili. Una arriva fin qui sopra, dall’appartamento al terzo piano, sempre chiuso, casa di proprietà di Giuseppe e per questo sono salito fin qui, che la storia non è bella, una di quelle storie che danno il senso dell’imponderabilità della vita, che non comprendiamo, mai.
Sull’elenco telefonico gli abitanti di questo paese si esauriscono in una colonna, compreso la guardia medica e i cognomi ripetuti che fanno comunità.
Avvicino la foto agli occhi, in basso la macchia bianca del cane, di fianco alla foto un trafiletto, una mezza colonna dedicata al paese. Un piccolo borgo arrampicato sulla collina
, nulla di significativo.
La casa del palazzo che sto saccheggiando porta in facciata il volto dell’uomo o, forse, è una mia costruzione bizzarra; chiuse le finestre come era chiuso lui, così raccontano, ma non tutte le case serrate mantengono lo stesso mistero di silenzio; alcune hanno la precarietà della vita che presto cambierà e si sistemerà, una specie di parentesi, altre non aprono gli occhi su niente e non li apriranno mai più, allora tutto intristisce, perde le parole e i gesti possibili, se non fosse che c’è una pianta che sopravvive di stagione in stagione, bevendo la pioggia quando arriva e tu ti chiedi quale miracolo si rinnovi ogni volta e quale miracolo si faccia per una sola, fottutissima volta.
Giuseppe, una madre di settantuno anni, Adelina, due sorelle fuori regione, lui rimasto figlio unico con la dedizione sulle spalle della quotidiana necessità. Ma procediamo per ordine. Di Giuseppe sappiamo che avrebbe voluto studiare, laurearsi in lettere, ma poi sono piombati i problemi, si dice sempre così, e i lavori nei campi, quelli che si impongono solo per la possibilità di dire che uno i grilli per la testa se li è tolti.
E invece Giuseppe di grilli nella testa ne aveva un coro rumoroso, nella casa che in fotografia fa la figura di un quadrato. In questi paesi tra il nulla e il nulla sembra davvero che non si possa vivere che di una pensione modesta, il massimo del privilegio e così