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Ponsacco - Los Angeles: Sulle tracce di Bruce Springsteen
Ponsacco - Los Angeles: Sulle tracce di Bruce Springsteen
Ponsacco - Los Angeles: Sulle tracce di Bruce Springsteen
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Ponsacco - Los Angeles: Sulle tracce di Bruce Springsteen

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About this ebook

Un paesino di provincia, quattro amici, quattro sogni e due grandi passioni comuni: Bruce Springsteen e le serate alcoliche.
"La nostra amicizia profuma di erba fresca, di campi in fiore, di primavera. Dentro è soffice come il pelo di un gatto, ma fuori ha una corazza croccante come la crosta del pane caldo appena sfornato” - Marisa
“L’ultima cosa che ricorderanno di questa scena è ciò che più mi rappresenta: la chitarra con su appiccicato un adesivo di Bruce Springsteen e il saluto di una che sta andando a costruire il proprio futuro a Los Angeles” - Valeria
“Tra di noi non ci sono mai stati tabù o segreti, o quasi. Loro sono la mia parte femminile, mi fanno vedere sempre l’altra faccia della medaglia e riescono a farmi entrare nella mente delle ragazze” - Giulio
“Ho smesso di bere ogni sera perché tanto al domani ci si penserà domani. No, adesso al domani ci penso oggi e bevo solo se domani non ho niente da fare. Questo, ne sono convinta, vuol dire crescere” - Fabiana 
LanguageItaliano
Release dateOct 27, 2017
ISBN9788826098920
Ponsacco - Los Angeles: Sulle tracce di Bruce Springsteen

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    Ponsacco - Los Angeles - Valentina Gerini

    dedico.

    LUGLIO

    Valeria

    La voce di quel figo di Bruce Springsteen echeggia nelle mia testa con le parole di Waitin’ on a sunny day. Mi sono addormentata con le cuffie nelle orecchie, il lettore è incantato su questa canzone da chissà quanto tempo. Mi giro dall'altra parte, immersa in un sonno che non è un sonno ma un riposo travagliato a causa dei fiumi di alcol che scorrono dentro le mie vene. Ieri abbiamo fatto serata con il mio gruppo di amici. Amici che per me sono come fratelli tanto che mia madre li considera proprio come figli. Si fa in quattro per farli sentire a loro agio quando vengono a casa nostra e le piace che loro la considerino una di famiglia. Rompe un po’ le scatole, come tutte le mamme, ma è così gentile e carina che non si può non amarla. Si chiama Sirvana, con la erre al posto della elle. I miei amici all’inizio non ci credevano. E invece si chiama proprio così. Il suo nome è la versione pisana del classico Silvana. Probabilmente quando venne registrata all’anagrafe era presente una persona che scriveva proprio come parlava: in ponsacchino [1]. Lei non se ne è mai fatta un problema. Firma e porta questo suo nome con grande orgoglio. Mio padre invece si chiama Claudio, ma tutti in paese lo conoscono come il figliolo di Sego. Sego era suo padre, così chiamato perché magro come un grissino. Dunque quando nacque lui, in automatico gli fu affibbiato il soprannome il figliolo di Sego. Se invece di nascere a Ponsacco fosse nato in America sarebbe probabilmente stato chiamato Sego Junior. Ma torniamo a ieri. Con Giulio, Fabiana e Marisa abbiamo trascorso la serata in macchina a bere e ascoltare musica. Ci siamo diplomati da poco e siamo di fronte al grande bivio. Le nostre strade presto si divideranno perché abbiamo scelto scuole diverse in città diverse. Io, a dir la verità, non ho scelto nessuna scuola. Voglio trovare un lavoro a Ponsacco, il paesino in cui sono cresciuta, nella provincia di Pisa, e intraprendere il viaggio della ma vita. Ieri dovevamo festeggiare il compleanno di Marisa e lasciarci alle spalle il passato, le scuole superiori, gli amori, le delusioni. Volevamo accogliere il futuro che ci sta aspettando, quel futuro tanto sognato, ma che ci dividerà per sempre. Il grande salto lo abbiamo appena fatto: gli esami di maturità si sono conclusi e li abbiamo passati tutti. Abbiamo ottenuto voti differenti, ma ciò che importa è che siamo stati tutti e quattro promossi. Per tutto l’anno scolastico abbiamo fantasticato su come sarebbe stata la nostra vita dopo la scuola, come sarebbe stato non vedersi ogni giorno, non veder sbucare la macchina rossa di Giulio dal fondo della strada pronta a portarci tutte a scuola, come avremmo fatto ad abituarci al cambiamento. Saremmo rimasti amici? Ci saremmo dimenticati gli uni degli altri? Ci saremmo visti ogni tanto? Siamo terrorizzati al pensiero di perderci. Ma una cosa sappiamo essere certa: siamo così uniti e ci conosciamo da così tanto tempo che, qualsiasi cosa succederà nelle nostre vite d'ora in avanti, non perderemo mai definitivamente i contatti. Ci siamo ripromessi che almeno una volta l’anno, per ogni Natale, ci ritroveremo a cena per trascorrere una serata come ai vecchi tempi, raccontandoci tutto ciò che durante quell’anno abbiamo vissuto. Quindi ieri sera, schiavi dei festeggiamenti, siamo passati dal rum e pera al Long Island senza rendercene conto e la concezione del tempo si è distorta. Io ho iniziato a strimpellare la mia chitarra e abbiamo cantato a squarcia gola qualche pezzo di Springsteen finché non riuscivo più ad azzeccare una nota. Ero davvero troppo ubriaca per pizzicare le corde. Il punto di non ritorno l’ho raggiunto quando, cosciente di essere talmente ubriaca da vedere due Fabiana, tre Marisa e un Giulio e mezzo, ho continuato a ingurgitare tutto ciò che transitava davanti ai miei occhi. Ricordo che una bottiglia di Martini è terminata in maniera tanto rapida da chiederci se fosse mai esistita! Ero così ubriaca che quando sono tornata a casa non mi ero resa conto fossero già le sei del mattino. Appena arrivata, mi ero seduta sullo scalino davanti alla porta in meditazione. Avevo le gambe che mi tremavano e, con la testa tra le mani, me ne stavo accovacciata sul gradino, pensando a come avrei potuto tirarmi su, mettermi in piedi e comportarmi come se niente fosse. Se i miei mi avessero beccata ubriaca mi avrebbero massacrata questa volta! Nella mia mente scorrevano immagini sconnesse, senza un filo logico si susseguivano pensieri dedicati ai miei amici, brevi flash della serata appena passata, il fighissimo zaino che avevo comprato pochi giorni prima per il mio viaggio d’avventura, quel bastardo di Pepe… Pepe è il soprannome di Giuseppe, il ragazzo con il quale la travagliata storia si è conclusa tra grida e calci. Mi ha tradita, anche se continua a sostenere il contrario. Lui e quella sua musica di merda! È convinto che prima o poi diventerà un chitarrista affermato e, quando stavamo insieme, preferiva suonare nello scantinato di Paolo con tutta la sua band invece che uscire con me. Poi ci si sono messi di mezzo dei messaggini. Fino a pochi anni fa si viveva tutti una vita tranquilla, senza cellulare. E se ce lo avevamo lo usavamo solo per telefonare. Poi sono arrivati i messaggi di testo: 160 caratteri in cui concentrare un pensiero, una frase, a volte importante, decisiva, altre volte una semplice domanda. Quante volte ho cancellato ciò che stavo scrivendo per paura di non aver espresso bene il concetto? E quante volte, da quando anche Pepe si è comprato il cellulare, gli ho controllato i messaggini di soppiatto! Lui andava un attimo al bagno, io prendevo il suo telefono, scorrevo alla sezione messaggi e tac, potevo leggere tutto. Di solito non c’era niente di preoccupante, solo stupidi messaggi dei suoi amici musicisti per organizzare le serate musicali. Fin quando, un pomeriggio, ho trovato i messaggi di una certa Erica che diceva quanto fosse stato bello passare del tempo con lui. Pepe aveva negato. Non era successo niente, lui diceva, niente di niente. Era solo un'invasata che seguiva il suo gruppo e si era fissata su di lui. Mah... Io non gli ho creduto. Perché conservare il messaggio di una che non conta niente? Che fosse vero o meno io due sberle gliele avevo date, a Pepe. Nel dubbio è sempre meglio agire. Quindi per me il tradimento c’era stato. Donna o musica, faceva poca differenza perché sceglieva sempre l’altra invece che me! D’altronde Pepe era di Pontedera e i miei amici mi avevano avvertita fin dall’inizio: tra ponsacchini e pontederesi non scorre buon sangue e una storia d'amore non poteva funzionare. Ma io, testarda come sono, ci ho voluto provare lo stesso. Col risultato che adesso possiedo due belle corna da alce sulla testa. Lui ha tentato di convincermi del suo amore immacolato, ma non gli ho creduto. A niente è servito anche l’album di Bruce Springsteen appena uscito, Devil and dust, con un mazzo di rose rosse. Non bastava regalarmi l’album del Boss per farmi dimenticare l’accaduto. Ci sarebbe voluto ben altro. Forse, e dico forse, se insieme al cd di Bruce avesse reperito anche un suo contatto, un suo numero di telefono, una sua email, allora avrei potuto pensare al perdono. Bruce è il mio mito e io sogno di incontrarlo. Devo incontrarlo prima di morire. È un profeta, un poeta e un gran pezzo di gnocco. Più passano gli anni e più diventa bello. Lui non invecchia, stagiona come il formaggio, decanta come il vino. Tutto nacque due anni fa, nel 2003, quando andai, con Marisa, Fabiana e Giulio, ad un suo concerto a Firenze. Ci capitammo per caso, l’estate stava aprendo le sue porte, su Ponsacco era planata una cappa d’afa già da qualche settimana e noi, per ovviare alle solite serate di chiacchiere seduti in terra al parcheggio del supermercato, andammo al concerto. Avevamo sentito dire che sarebbe stato un evento stupendo e che era molto atteso dai fan più sfegatati. Noi conoscevamo, sì e no, tre o quattro canzoni. Beh, fu amore a prima vista per me. Un turbinio di emozioni mi ribaltarono lo stomaco, proprio come lo svolazzo delle farfalle al primo innamoramento. La sua carica, la sua grinta, il suo modo di parlare al pubblico così diretto e quasi personale che alla fine, anche se stava guardando un punto indefinito nella massa, a me venne da pensare: cavolo, sta dicendo proprio a me!. Improvvisamente avevo avuto un’illuminazione: lui era il mio dio e l’avrei, d’ora in poi, seguito e ascoltato. Nei secoli dei secoli. Amen. Quella stessa sera, in mezzo a quell’ondata di gente mossa dal vento delle canzoni del Boss, incontrai Pepe. Anche lui era andato al concerto. A differenza nostra però lui era un grande esperto di Springsteen. Era un musicista, lo si capiva guardandolo da lontano e, in quanto tale, era un vero appassionato di qualsiasi genere musicale. Nel bel mezzo di tutti questi pensieri io ero ancora seduta sui gradini del portone. Pensare a Bruce mi aveva aiutata. Lui, da due anni a questa parte ormai, mi dava la carica ogni mattina. Pensare a Pepe mi aveva innervosita, l’immagine del suo ciuffo ribelle e dei suoi occhioni, leggermente ravvicinati tra loro, mi avevano regalato una certa rabbia che mi aveva, finalmente, spinta ad alzarmi e, con tutta la nonchalance che solo l’alcol può donare, mi ero eretta barcollando e avevo cercato di aprire la porta. Finalmente spalancata, avevo prontamente sfilato le chiavi dalla toppa, senza fare il minimo rumore, per poi inserirle in quella interna. Avevo tentato di centrare con la chiave il buco della serratura ma la vista era doppia, di serrature ne vedevo almeno due e non ne volevano sapere di stare ferme. Armeggiando con la porta mio papà si era svegliato, o forse era già sveglio per fumare la sua sigaretta della notte. Avevo alzato lo sguardo perché un rumore di passi sospetti aveva attirato la mia attenzione. Mio padre era in piedi, in cima alle scale, che mi guardava meravigliato e forse anche un po' divertito.

    «Vale, ma che fai?».

    «Niente babbo, vai a letto, vai. Ora chiudo e vado a letto anch’io».

    Le parole suonavano meglio nella mia testa di come in realtà uscivano quando le pronunciavo, un po’ biascicate.

    «Si, ma se vuoi chiude’ la porta devi sbattila bene. A me sembra che l'hai lasciata spalancata».

    Mi ero voltata e avevo visto la porta completamente aperta. In effetti avevo chiuso la faccenda in maniera sbrigativa. La chiave non voleva entrare nella serratura e io avevo lasciato tutto spalancato. Barcollando ero arrivata fino all'attaccapanni, avevo appeso la giacca e salito le scale fino al pianerottolo dove mio padre, ancora in piedi con un fare da soldato, attendeva il mio passaggio. Lui non aveva ancora detto niente e io avevo pensato di averla scampata. Poi si era avvicinato leggermente per annusarmi e si era ritratto. Quando ormai pensavo davvero di averla fatta franca ed ero alla fine del corridoio, aveva gridato: «Oh, se vuoi c'è un po' di grappa lì nel mobile».

    Dovevo avere un aspetto orribile, mi prendeva per il culo anche mio papà. Non avevo la forza di rispondere, ogni cellula del mio corpo stava seguendo il richiamo del letto. Poi, sorridendo come un cane che ha adocchiato il cuscino migliore sul quale appisolarsi, ero entrata nella mia stanza scorgendo una figura nella penombra. Sembrava un ninja e mi stava aspettando ai piedi del letto.

    «Disgraziata! Dove sei stata fin ora? Ma ti sembra l'ora di rientra’?».

    «Mamma, dai lasciami dormi’, se ne riparla domani».

    «Nessun domani, sciagurata! Ora te le do così forti che ti metti a piange’ come una bimbetta. Guarda che come t’ho fatto... io ti sfaccio, capito?».

    Questa frase racchiude il vero potere di una madre: come ti ho messa al mondo, io dal mondo ti ci posso anche togliere. Non fa una piega. In quel momento di confusione, non avevo nemmeno fatto in tempo a sentire la fine del discorso che una ciabatta era volata in direzione della mia testa e io, seppur ubriaca fradicia, ero riuscita magicamente a scansarla. Mia mamma, resasi conto di aver fatto cilecca, si era avvicinata bella agguerrita e determinata per darmi uno schiaffone epico. La luce filtrava dalla finestra, ma l'ombra la faceva ancora da padrona e non era facile distinguere le figure. Adesso era proprio lì davanti a me, come un cowboy pronto alla grande sfida sul terreno arido di un vecchio centro abitato del Far West. Con la mano aveva preso la rincorsa e l’aveva scagliata verso di me. Io mi ero spostata come fossi Jean Claude Van Damme nella sua migliore delle interpretazioni e mi ero catapultata sul letto. Così la sua sberla era finita nel vuoto e lei per un attimo sembrava aver perso l'equilibrio, dondolava per essersi sporta in avanti e non aver trovato materia su cui sbattere. Si era resa conto del fallimento e senza nemmeno voltarsi aveva detto: «Dormi adesso, vai. Domani ti faccio una bella ripassata».

    E io avevo dormito, ne avevo davvero bisogno. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti, le palpebre pesavano come macigni e la lingua era tutta impastata da non riuscire a proferire parola.

    Così stamani mi sono sveglaita con la testa in una bolla e con un martello pneumatico che sbatte sulle mie tempie. La prima cosa che vedo è mia madre. Ecco che è venuta a terminare quel che ha iniziato, quella questione della sberla rimasta in sospeso poche ore fa. Non ho proprio l’animo di sostenere una conversazione, seppur di poche parole. Tanto meno di affrontare una lotta all’ultimo sangue. A tastoni cerco il cellulare. Deve essere qui da qualche parte, sotto il cuscino. Ecco, l’ho trovato. Lo avvicino agli occhi per vedere che ore sono ma mi accorgo che non ha la forma di un telefono. È un regolabarba o qualcosa di simile. Che ci fa un regolabarba nel mio letto? Non lo so proprio, come non so dove sia finito il mio telefono. Guardo mia mamma, con l’aria di una che si arrende ancora prima di iniziare. Sventolo bandiera bianca di prima mattina. Ma lei se ne sta seduta vicino al letto con un vassoio tra le mani. Mi ha portato la colazione: tè e biscotti. Tira su la coperta, mi guarda e scuote il capo.

    «Mangia, che ce n’hai bisogno. Ti metto qua pure una ciotola se ti venisse da rimette’. Eri uno schifo poco fa, anzi... sei uno schifo anche stamattina. Non c'è bisogno che io ti meni per mortificarti più di quanto ti mortificherai tu stessa quando guarderai la tu’ faccia allo specchio». Fa una pausa, poi continua: «Sai, da giovane anch’io mi sono ubriacata, un paio di volte. E una di queste volte ho conosciuto tu’ pa’. Pensa te in che condizioni m’ha vista! Comunque... La mi’ mamma una volta me le ha suonate belle forti quando mi sono ubriacata e non sono riuscita ad alzarmi per anda’ a lavoro nel calzaturificio. Lì ho capito che lei aveva ragione, ero una scema. Era arrivata l'ora di cresce’». Si blocca, ha gli occhi lucidi, li vedo brillare nella penombra: «Ecco, io ti voglio solo di’ che credo sia arrivata l’ora di cresce’ anche per te, Vale».

    L’ascolto attentamente, mentre parla mi carezza le guance. La rabbia di ieri sul suo volto è sparita, sono la sua bambina adesso, alla quale vuole e deve dare supporto e consigli. Non faccio in tempo a dirle grazie che sento salire qualcosa su per l'esofago. Oh mio dio, devo vomitare! Mi sporgo dal letto in cerca della tinozza che mamma mi ha portato, lei me la porge e mi tiene la fronte. La adoro, invece di darmi due schiaffoni mi sta tenendo i capelli raccolti. Che donna, mia madre!

    «Te l'ho detto, Vale, devi crescere. Basta con queste scene penose su! Se vuoi partire e intraprendere quel viaggio, devi cresce'»

    Mi asciugo la bocca e rispondo: «Mamma, hai ragione. Da oggi, te lo prometto, sarò una donna», e con l’ultima parola tiro fuori tutto l’alcol che ho bevuto ieri sera. Cerco di centrare la tinozza che mia madre mi ha appoggiato vicino al letto ma non ci riesco, vomito un po’ anche sulle mia chitarra, che sta sempre parcheggiata a lato del mio letto, e sulle scarpe. Sono un paio di Converse. Converse rosse? E queste da dove saltano fuori? Mie non sono, sono eccessivamente grandi.

    Giuro che non berrò mai più, mi prometto anche se so già che è una grossa bugia. Lo dico sempre, ogni volta che mi sento male dopo una sbornia. Poi, appena i malesseri passano, torno a bere come niente fosse. Non c’è che dire, le serate con un po’ di alcol son sempre più briose.

    «Claudiooo! Corri, vieni! Porta la macchina fotografica, questa scena va immortalata», dice madre. Mi prende in giro alla grande. Mio padre arriva scuotendo il capo. Tira fuori la macchina fotografica dalla custodia, gira la rotella e click. La foto è fatta. Preme il bottone rosso, quello che fa riavvolgere il rotolino delle foto scattate.

    «Ecco, il rullino è finito. Domani le vado a sviluppa’ così lunedì

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