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Come la pioggia (Floreale): Accarezzami l'anima
Come la pioggia (Floreale): Accarezzami l'anima
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Ebook462 pages5 hours

Come la pioggia (Floreale): Accarezzami l'anima

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About this ebook

Elena ha 25 anni e una laurea quasi raggiunta. Dopo essere stata abbandonata da Davide, il ragazzo amato per cinque anni, si ritrova ad attraversare uno dei momenti più difficili della sua vita. Quella separazione infatti la getta nello sconforto più totale e le fa perdere ogni tipo di fiducia nei confronti dell'amore, convincendola che sarebbe stato meglio farne a meno. Quando è ormai decisa a voltare pagina e a concentrarsi solo sullo studio e su se stessa, fa la fortuita conoscenza di Amedeo Corsini. L'uomo, un musicista di fama internazionale in crisi creativa da oltre un anno, si è rifugiato nella casa d'infanzia per ritrovare se stesso e soprattutto la sua musica. Dopo un incontro burrascoso, tra i due nasce un forte legame che con il tempo si trasforma in amore. La vita però mescola di nuovo le carte in tavola facendo riavvicinare Elena a Davide. Come la pioggia, accarezzami l'anima è un romanzo d'amore, di crescita, cambiamento, perdita e della forza di ricominciare da capo. È un romanzo che ti resterà nel cuore.

Altri libri della Collana Floreale:
"Felice perché ho te" di Hazel Pearce
"Profumo di zucchero e vaniglia" di Elena Ungini
"L'inverno nei suoi occhi" di Marta Arvati
"Twins in love" di Therry Romano
"Fidati di me" di Jessica Verzeletti
"A shared dream" di Ilaria Militello
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateOct 30, 2017
ISBN9788871635569
Come la pioggia (Floreale): Accarezzami l'anima

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    Come la pioggia (Floreale) - Elisabetta R. Brizzi

    Rossi

    Prologo

    Nervi, 8 luglio 2016

    Dal diario di Elena Ferrari

    Odore di naftalina. È forte. Impregna la mia camera e si confonde con quello del mare trasportato dal vento. Le tende si sollevano e riabbassano contro la finestra. Questo luglio è davvero molto caldo. Persino la luce del sole sembra più accecante, sento il sudore sciogliersi sul collo, il petto e la schiena.

    C’è silenzio intorno a me. Un silenzio feroce. Me ne sto accucciata sotto il davanzale da non so neanche più quanto tempo. Accanto a me, c’è il mio vestito da sposa. L’ho lasciato sulla scatola aperta. È l’abito che mi ha conquistata all’istante scaldandomi di emozione. Quello scelto apposta per lui, per i suoi occhi intensi. Ne afferro un lembo, lo porto vicino al viso e lo annuso. La stoffa è impregnata dell’odore della naftalina.

    Volevo essere perfetta.

    Le dita tremano. Fatico persino a scrivere su questo diario. Non riesco neanche a parlare. Non lo faccio da giorni, credo. E dopotutto, come potrei? Le parole sono perse tra gola e cuore. Se potessi, se solo mi fosse concesso, mi strapperei di dosso la carne.

    Non ho più fiato. I polmoni è come se fossero pieni d’acqua, di un mare in tempesta. Ho l’impressione di affogare. Il pianto mi sorprende. Cerco di placare le lacrime tappandomi la bocca. È inutile. I singhiozzi mi assalgono e lacerano il silenzio senza via di scampo.

    Finirà mai questa sofferenza?

    Sul comodino sono rimaste le chiavi di casa. Non ho avuto il coraggio di tornare in quella villa. Ho paura di come potrei reagire. Di soffocare nei nostri ricordi. Nei giorni vissuti insieme nella certezza di un domani che adesso non esiste più. L’assenza di noi non ha alcun senso logico. L’unica cosa che riesco a pensare è uno stucchevole non è giusto. La frase più inutile dell’universo.

    Un brandello di Mar Ligure emerge oltre le palme del giardino. Le grandi foglie ondeggiano piano e il loro fruscio copre il mio respiro. Mi guardo intorno e cerco tra le mura sbiadite di questa stanza il suo viso e la sua voce. La sua bellissima voce, capace di accarezzarmi l’anima e di scaldarla come una coperta di lana durante una notte invernale.

    Sarebbe dovuto essere un giorno diverso, oggi. Un giorno felice. Per questo vorrei piovesse. Non può esserci lo stesso cielo di allora.

    È una notte infinita. Un’agonia di sentimenti. Mi chiedo se sia questo il dolore perfetto. Quello che non conoscerà mai fine. Quello che diventa una parte di te.

    Forse sì, perché io mi ci sento annegare dentro.

    Parte prima

    Profumo di limoni

    1

    Nervi, 4 giugno 2015

    Un ricordo.

    «Amedeo scendi da lì!»

    Una donna sotto un albero di limoni.

    «Mamma e dai! Sto facendo Peter Pan!»

    Un ragazzino dalla pelle scottata dal sole, con i piedi ben piantati contro il tronco, si reggeva ai rami della pianta.

    «Finirai col romperti l’osso del collo. Obbedisci!»

    Agatha aveva occhi ansiosi e guance velate di sudore.

    Suo figlio Amedeo protestò con uno sbuffo.

    «Ahhh, quanto sei melogrammatica!»

    Dei passi, sul selciato d’ingresso della villetta, attirarono l’attenzione della donna. Trasse un sospiro di sollievo voltandosi verso il cancello. In sottofondo, il Mar Ligure.

    «Federico, per fortuna. Digli qualcosa tu.»

    L’uomo in giacca e cravatta, custodia di un violino nella mano destra, avanzò nel cortile fermandosi, pochi metri dopo, accanto alla moglie. Sollevò lo sguardo sul figlio.

    «Allora? Non hai sentito che ha detto tua madre?»

    Il bambino tacque, stringendosi nelle spalle.

    «E tanto per dire… si dice melodrammatica. Mi chiedo cosa t’insegnino a scuola.»

    Ancora silenzio. Amedeo non riusciva mai a controbatterlo suo padre. Mortificato, spostò un braccio e un piede per scendere dall’albero ma uno scricchiolio interruppe i suoi movimenti. Il ramo inferiore si spezzò e lui cadde sull’erba con un tonfo.

    Federico si precipitò in suo soccorso. Posò il violino alla sua sinistra adagiandogli una mano sulla schiena.

    «Stai bene?»

    Amedeo arricciò le labbra dolorante.

    «Insomma… non è che mi sono fracassato il sedere?» disse massaggiandosi il fondoschiena.

    Il padre l’aiutò ad alzarsi.

    «Se te lo sei fracassato sarà peggio per te.»

    Lo condusse verso casa.

    Agatha si affiancò a loro.

    «Chiamo il dottore?»

    Il marito le accarezzò una guancia.

    «È sano come un pesce, non preoccuparti.»

    Il bambino si rivolse dispiaciuto alla madre.

    «Scusami, mamma.»

    Lei gli mise un braccio intorno alle spalle, accostandolo a sé.

    «Non farlo mai più» rispose baciandolo sulla nuca.

    Il fragore delle onde salì ad inghiottire i loro respiri.

    Lo stesso strepitio di quel mattino d’estate.

    Amedeo Corsini si svegliò di soprassalto madido di sudore. Lo sguardo al soffitto. Le coperte arrotolate alla base del letto. Si passò una mano sul volto, tirandosi a sedere. Dette un’occhiata intorno a sé. La camera era invasa dal sole. Dalle ampie e bianche vetrate l’azzurro del mare dava l’impressione di confondersi a quello del cielo. Accanto alla porta, una valigia mezza disfatta. Sulla parete in fondo, inserita in una cornice, la foto del matrimonio dei suoi genitori. Abbandonati in un angolo, il violino di suo padre e il leggio con l’ultima musica che aveva composto. Nell’armadio, aperto per metà, s’intravedevano i vestiti di sua madre. Su una mensola, di fronte al letto, campeggiava una televisione con un videoregistratore e un decoder.

    Non era cambiato quasi niente dall’ultima volta in cui era stato in quella casa. Eppure di anni ne erano trascorsi quindici.

    Si alzò ad aprire una finestra. Subito, l’intenso profumo della salsedine gli impregnò le narici. L’assaporò a pieni polmoni, prendendo diverse boccate d’aria.

    Il cellulare sul comodino vibrò suonando. Ignorò la chiamata, proseguendo ad osservare l’orizzonte, gli scogli imponenti. Indugiò ancora per diversi minuti e poi, quando la musica dello smartphone cessò, si decise a uscire dalla stanza a passi incerti e misurati. Il parquet emise un cigolio sotto i suoi piedi nudi. Percorse il corridoio come se dovesse imparare a camminare di nuovo. Rieducarsi a un movimento naturale. Toccò con la punta delle dita la carta da parati consumata. Sbirciò, solo per un momento, la sua vecchia camera. La scrivania contro il muro, il letto in ferro. Si vedeva anche da lì il mare. Scese al piano inferiore e in fondo alla scala si fermò colto da un fremito. Gli occhi s’incastrarono su un pianoforte a coda.

    «Pulce! Pulce!»

    Una voce femminile emerse nella quiete attirando la sua attenzione.

    «Pulce, vieni qui!»

    Amedeo arcuò un sopracciglio, voltandosi verso la porta d’ingresso.

    «Pulce obbedisci!»

    Il grido proseguì, accompagnato, pochi istanti dopo, da un abbaio. L’uomo emise un sospiro nervoso. Andò sul portico e si bloccò in cima ai gradini. Di fronte a lui, una ragazza dai capelli biondo miele inseguiva uno Yorkshire Toy per tutto il giardino. Il cane, ignorando i suoi ripetuti richiami, tentava di acchiappare un gabbiano. L’uccello andò ad appollaiarsi sul ramo dell’albero di limoni.

    Amedeo incrociò le braccia al petto e seguì i movimenti della donna in attesa di essere notato.

    Finalmente, Elena Ferrari incrociò il suo sguardo e nel farlo inciampò contro un sasso perdendo l’equilibrio. Non cadde solo perché si resse per miracolo a un ramo del Limone. Nello stesso istante, il gabbiano spiccò il volo e il cane si acquietò, sollevando sconsolato il muso verso di lei: aveva perso la sua battaglia. La ragazza gli lanciò un’occhiata di rimprovero, poi si dette una sistemata ai capelli e tornò a guardare l’uomo.

    «Scusi» borbottò imbarazzata.

    Amedeo la squadrò senza mutare la sua posizione.

    «Come sei entrata qui?»

    Elena deglutì. La cagnolina grattò sulle sue gambe guaendo per essere presa in braccio. Lei le fece gesto di tacere e di stare buona.

    «Allora? Non hai capito la domanda?»

    La ragazza fece una smorfia.

    «Ho scavalcato il cancello.»

    «Interessante, ma lo sai che questa è proprietà privata?»

    «Certo.»

    «E quindi…»

    L’uomo scese in cortile gesticolando mentre parlava.

    «Mi sai spiegare perché non hai citofonato?»

    Elena prese a mordicchiarsi il labbro inferiore in difficoltà.

    Amedeo si fermò a pochi passi da lei incalzandola.

    «Hai perso la voce?»

    La ragazza sbatté un pugno sulla gamba.

    «Smettila di farmi tutte queste domande!»

    Si scansò i capelli dietro le orecchie agitata.

    «Non sapevo ci fosse qualcuno. Questa casa è sempre stata disabitata. Pulce ha visto quel cavolo di gabbiano e gli è corsa dietro. Non so che abbia contro quegli uccelli ma quando ne vede uno esce fuori di testa!» si espresse concitata, quasi attaccando le parole.

    «Non è una giustificazione plausibile questa.»

    «Non mi sto giustificando, infatti. Ho solo raccontato la verità.»

    «Senti, per cortesia, chiudiamola qui. Accomodati fuori e possibilmente evita di fare Indiana Jones. Se ti rompi una gamba ci vado di mezzo io.»

    «Te l’hanno mai detto che hai un pessimo carattere?»

    L’uomo entrò in casa e aprì il cancello. Poi si sporse di nuovo fuori.

    «Puoi andare. E la prossima volta tieni quel coso lontano da casa mia!»

    «Quel coso ha un nome!»

    «Okay, tieni quel cane gatto lontano da casa mia.»

    «Si chiama Pulce, Pulce ed è una cagnolina.»

    «Pulce è un nome da maschio.»

    «Ma quando mai! Non sei padrone della lingua, lasciatelo dire, inoltre sei un vero bisbetico.»

    Amedeo le lanciò un’occhiata irritata. Rientrò dentro e chiuse la porta sbattendola.

    Elena prese Pulce in braccio e la baciò in mezzo alle orecchie. Andò via a passi sostenuti borbottando.

    «Indiana Jones… vecchio, avrà mille anni ‘sto film.»

    In casa, l’uomo restò davanti alla finestra ad osservarla allontanarsi. Quando non fu più visibile, tornò a posare l’attenzione sul pianoforte a coda. Il sole risplendeva su di esso con riverberi screziati d’oro. Si avvicinò allo sgabello, posizionato sotto lo strumento, lo scansò e si sedette. Il Mar Ligure ruggiva contro gli scogli e quel rumore, lento e regolare, gli restituì un velo di calma.

    Il cellulare riprese a squillare con insistenza ma lui lo ignorò di nuovo lasciando morire la chiamata nel silenzio.

    Accaldata e nervosa per la discussione appena avuta, Elena percorreva la Passeggiata Anita Garibaldi a passo spedito. Pulce trotterellava al suo fianco. Alle sue spalle s’intravedeva ancora il profilo della villa Corsini arroccata sugli scogli. Sbuffò.

    «Cafone, maleducato e supponente. Secondo te da dove è uscito fuori, Pulce?»

    La cagnolina addrizzò le orecchie e sollevò il muso nella sua direzione. Elena continuò lo sproloquio.

    «Ti pare che devo essere trattata a merda da un signor nessuno? Già la mia vita è una merda, ci mancava solo lui.»

    Abbassò lo sguardo sulla cagnolina. Arcuò le sopracciglia, imbronciata.

    «Potresti almeno dirmi qualcosa, fare un mugolio, che ne so, partecipa.»

    Il beep ripetuto del suo cellulare interruppe il monologo. Controvoglia, lo prese dalla tasca dei jeans e quando vide sul display l’icona di WhatsApp e il nome del mittente si fermò di colpo in mezzo alla strada.

    «Giustamente la giornata non faceva ancora abbastanza schifo.»

    Aprì il messaggio, lo lesse e serrando con forza le labbra rispose in fretta.

    Cos’è del non voglio più vederti che non hai capito?

    Altro trillo, altro messaggio.

    «Cioè... sul serio?»

    Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Scorse su e giù le conversazioni precedenti in un gesto rabbioso, quasi compulsivo. Alla fine cliccò sull’icona della chiamata e attese. Dopo un solo squillo, una voce maschile le rispose.

    «Ciao.»

    «Devi lasciarmi perdere, Davide.»

    «Io non ti faccio buttare via tutto così.»

    «Non ho più voglia di starti a sentire, lo capisci?»

    Elena picchiettò le dita su una gamba. Si strinse nelle spalle, trattenendo a fatica il pianto che minacciava di sopraffarla.

    «Vediamoci domani al nostro posto» proseguì il ragazzo.

    «Non serve a niente.»

    «Ti aspetto alle sei.»

    La ragazza si voltò verso il Mar Ligure e le canoe che placide tagliavano l’orizzonte investite dal sole. Aveva promesso a se stessa di non lasciarsi più vincere dalle sue debolezze, dal bisogno che aveva di lui, di essere forte per una volta. Di tirare fuori l’orgoglio. Si passò una mano sotto il naso.

    «Okay.»

    Ma cedette consapevole che cinque anni erano troppi per essere cancellati con tanta facilità. Troppi per non ritrovarsi a sperare che qualcosa fosse in procinto di cambiare.

    Voci. Grida di bambini. Risate. Arrivava tutto attutito alle orecchie di Amedeo rimasto seduto di fronte al pianoforte nell’immobilità di un momento. Appesantito dai ricordi. Alle sue spalle, percepì la porta di casa aprirsi. Si voltò di scatto e scorse una donna di mezza età oltrepassare la soglia con i capelli raccolti in una cipolla e un vestito di cotone. In una mano teneva le buste della spesa, nell’altra le chiavi di casa. Sorrise vedendolo.

    «Allora sei sveglio!»

    «Patrizia…»

    «Ho provato a chiamarti ma non hai risposto. Pensavo dovessi ancora arrivare.»

    «Scusami, non ho sentito il telefono.»

    La donna gli riservò uno sguardo carico di materna dolcezza. Lasciò le borse a terra e andò ad abbracciarlo.

    «Bentornato.»

    Amedeo ricambiò il saluto, stringendola a sé.

    «Grazie.»

    Patrizia si scostò adagiando una mano sulla sua guancia.

    «Sei diventato proprio un uomo.»

    Amedeo abbozzò un sorriso carico di nostalgia.

    «Tu invece non sei cambiata per niente.»

    La donna scosse la testa facendo un gesto di negazione con la mano.

    «Ah, non dire bugie! Gli anni li ho e si vedono pure.»

    Fece per riprendere le buste ma l’uomo l’anticipò.

    «Ci penso io, non preoccuparti.»

    «Allora facciamo così: tu posi la spesa e io preparo un bel caffè, che ne dici?»

    «Buona idea.»

    Entrarono in cucina e, muovendosi con disinvoltura nella stanza in gesti familiari e abituali, si occuparono dei rispettivi compiti. Amedeo posò tra credenza e frigo le cose acquistate e la donna mise sul fuoco la macchinetta del caffè. Mentre disponeva le tazzine sul tavolo, spiò l’uomo con la coda dell’occhio, quasi ricercasse sul suo viso le tracce del ragazzino spaventato di tanti anni prima. Tentennò qualche istante e poi gli parlò.

    «Amedeo, senti. Non so se ho fatto bene ma qui... ho lasciato tutto com’era.»

    «Sì, ho visto.»

    «Pensavo fosse giusto, poi non mi hai mai detto di…»

    «Patrizia, va bene. Ѐ compito mio.»

    L’aroma del caffè impregnò l’ambiente. Patrizia lo versò nelle tazze, ne porse una all’uomo e si sedette a tavola con lui. La cucina parlava di Agatha in ogni dettaglio. Nei mobili in stile provenzale, nei vasetti di spezie disposti in ordine su un ripiano, sopra il forno. Nei quadri di paesaggi lacustri appesi sul muro. Sembrava quasi dovesse arrivare da un momento all’altro sorprendendoli con le sue maniere delicate e il suo viso appena ravvivato da un filo di trucco.

    Amedeo abbassò lo sguardo sulla tazzina. Strinse le dita intorno ad essa.

    «Hai detto a qualcuno del mio arrivo?»

    «Solo a mio marito.»

    «Sì, dico… a parte Filippo.»

    «No, perché? Di che ti preoccupi?»

    «Preferisco mantenere il riserbo sulla mia presenza qui.»

    «Ma tesoro, vuoi restare tutto il tempo chiuso in casa?»

    Amedeo fece una smorfia. Terminò di bere il caffè e ripose la tazzina nel lavandino. Patrizia lo seguì con lo sguardo cercando di carpire, oltre quel silenzio, quali fossero le ragioni che l’avevano trascinato di nuovo in paese senza alcun preavviso. Le sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a quella notte di Settembre. E come allora si sentì assalire da un profondo senso di impotenza. Come allora, Amedeo era un muro di impenetrabilità. Si avvicinò a lui e gli strinse un braccio. L’uomo adagiò una mano sulla sua e per un attimo tornò a sentirsi protetto e a casa.

    2

    Nervi, 5 giugno 2015

    Lavanda. Amedeo ne percepì all’istante il profumo, appena aprì l’armadio della camera dei genitori. L’abbacinante luce solare aveva invaso ogni antro dell’ambiente e i suoi riflessi s’incidevano come diamanti sul Mar Ligure. Senza decidersi a muoversi, l’uomo studiò gli abiti appesi sulle grucce. Camicie inamidate, gonne di chiffon, giacche a doppio petto, pantaloni, abiti. Sul ripiano inferiore, sacchetti di lavanda. Tutto in perfetto ordine. Tutto cristallizzato in una notte di Settembre. Respirò a fondo. Gola e stomaco chiusi in una morsa. Allungò un braccio e accarezzò la manica di un giacchetto. L’annusò, chiudendo gli occhi. Le gambe vacillarono. Ebbe l’impressione di percepire l’odore di sua madre tra quelle fibre. Un brivido lo percorse. Si passò una mano sul viso e, tornato dritto, si voltò per un attimo al letto. Sopra di esso, un paio di grandi scatole. Afferrò alcuni indumenti, adagiandoli sull’avambraccio e, dopo averli ripiegati, li infilò nel primo dei due contenitori. S’interruppe di nuovo assalito da un moto di pianto. Le spalle ricurve su quei ricordi di lana e cotone. Sbuffò, portandosi le dita sugli occhi nel tentativo di riprendere il controllo di se stesso. Andò al comò e aprì il primo cassetto. Lo sguardo lasciò spazio allo stupore. Incastrato tra i calzini, c’era un album con una scritta a mano: Amedeo. Era opera di suo padre, riconobbe subito la sua calligrafia elegante. Sfogliò qualche pagina. Le mani tremarono. Dovette reggersi al mobile per non crollare a terra. Lasciò stare tutto e scese in fretta al piano inferiore quasi inciampando sui gradini. Corse fuori, all’aperto, sotto il portico e, portandosi una mano al petto, si piegò in avanti prendendo ampi respiri. Sbatté più volte un pugno sulla gamba e quando l’aria riprese a circolare, tornò composto e si appoggiò con la schiena contro lo stipite della porta. Sull’albero di limoni, i frutti aspettavano di essere colti, il loro giallo risaltava sul verde delle foglie. Una risata, seguita dal rumore di ruote sulla strada, attirò la sua attenzione. Oltre il cancello, scorse un bambino sfrecciare a bordo di un monopattino seguito a poca distanza da genitori in ansia. Lo scalpiccio delle loro scarpe risvegliò ancora una volta i suoi ricordi. Era il frastuono della sua infanzia perduta.

    «Amedeo! Amedeo!»

    Correva Amedeo, a bordo di uno skateboard sbilenco. I capelli appiccicati sulla fronte, gli occhi vivaci, la pelle screziata di bruno.

    «Amedeo, scendi da quel coso!»

    Sua madre lo inseguiva muovendosi con difficoltà nella gonna aderente. Il viso abbronzato, rosso di fatica e preoccupazione.

    «Mamma, che pizza!»

    Il bambino finalmente si fermò. Con un piede mise in verticale lo skate. La donna glielo sottrasse all’istante.

    «È mai possibile che quando non c’è tuo padre devi farmi dannare?»

    «Stavo solo giocando.»

    «Correre su questo trabiccolo non è giocare!»

    Il bambino s’imbronciò.

    Agatha si sistemò i capelli legati in un morbido chignon facendo un sospiro.

    «Non mettere il muso adesso.»

    «Io voglio giocare!»

    «E puoi farlo ma con criterio e attenzione.»

    Amedeo incrociò le braccia al petto gonfiando le guance. Segno evidente del suo disaccordo.

    La donna si accovacciò di fronte a lui mettendogli le mani sulle spalle.

    «Tesoro, ascolta. Lo so che adesso ti sembra ingiusto e che ci vedi come degli orchi cattivi, ma quando sarai grande ci ringrazierai.»

    Mise in ordine il colletto della polo di suo figlio, abbozzò un sorriso dolce accarezzandogli una guancia e poi lo prese per mano riprendendo a camminare con lui a passo lento.

    Amedeo contrasse bocca e fronte. Aveva seppellito il passato per anni, per non sentire niente, per non esserne straziato e adesso non gli era più possibile tenerlo chiuso. Fingere che non ci fosse e che lui fosse figlio di nessuno. Adesso doveva scenderci a patti, raccogliere i cocci e ricomporre se stesso.

    Catturato dal Mar Ligure, il sole se ne stava adagiato a metà del cielo. Le onde scalfivano gli scogli e il loro respiro, nel silenzio della Passeggiata Anita Garibaldi, diveniva strepito assordante.

    Elena, affacciata alla balaustra, le braccia piegate su di essa, aspettava. La fronte tesa, le iridi bagnate di malinconia. Grattò via le pellicine delle dita. Avrebbe preferito essere altrove. Un rumore di passi la fece voltare.

    Davide era a pochi metri da lei. Le mani nelle tasche dei jeans, i capelli bruni spettinati dal vento, gli occhi di un caldo cioccolato incastrati nei suoi.

    Elena non avanzò di un centimetro. Sentiva le gambe di burro e il cuore urlare.

    «Ciao.»

    Fu lui a parlare per primo.

    «Ciao.»

    «Come stai?»

    «Bene.»

    Davide tacque per qualche minuto. La squadrò, soffermando l’attenzione alla base del collo. Una cicatrice rosso pallido scorreva sulla sua pelle di porcellana. Fece per sfiorarla ma la ragazza si ritrasse. Si bloccò con la mano a mezz’aria. La chiuse a pugno.

    «Perdonami» disse in un bisbiglio.

    Elena si mise a braccia conserte, abbassando lo sguardo a terra.

    «Ho fatto un casino» proseguì il giovane.

    «Ti ho aspettato per giorni in ospedale, a casa. Per giorni.»

    «Lo so e ho sbagliato.»

    «Pensavo che nonostante tutto mi saresti stato vicino.»

    Elena tornò a guardarlo, la vista appannata di pianto, le guance arrossate.

    «E invece sei scomparso.»

    «Ele non sapevo cosa fare, non… non avevo idea di cosa dirti.»

    «Non hai giustificazioni, Davide.»

    Il ragazzo affondò le dita nei capelli, dietro la nuca, quasi avesse voluto strapparli.

    «Fammi rimediare.»

    «E come? Che vorresti fare?»

    «Voglio tornare ad esserti amico.»

    Elena s’irrigidì, il respiro le morì nei polmoni. La bocca si curvò nel dolore, inumidita dalle lacrime scese a rigarle il viso. Scosse la testa senza dire niente.

    «Perché pensi che non sia possibile?»

    «Perché non lo siamo mai stati!»

    La ragazza iniziò a gesticolare nervosa.

    «E non dirmi che me lo sono sognato perché sai che non è così!»

    Davide alzò le spalle, piegando un po’ il capo verso il basso.

    «Dimmelo tu che posso fare, allora.»

    «Niente, non puoi fare niente.»

    «Ma io ti voglio bene, Ele.»

    «Non è vero.»

    Elena si asciugò alla meglio il volto, tirando su con il naso. Si affacciò di nuovo al parapetto.

    «Vattene.»

    Davide le toccò una spalla ma lei si scostò in malo modo.

    «Vattene via!»

    Deluso indietreggiò per poi incamminarsi verso l’uscita. Dette un calcio nel vuoto con rabbia.

    Elena lo seguì con la coda dell’occhio. Quando lui svanì, inghiottito dal sottopassaggio, si accucciò a terra, aggrappata alla ringhiera e, chinando la testa, si lasciò travolgere dal pianto.

    Un pianto che Davide ebbe l’impressione di percepire a lungo tra le mura del tunnel e il suo cuore. Persino sulla strada di ritorno, diretto a casa sua, gli sembrò di sentirlo. Un tormento. La prova dei suoi sbagli, della sua incapacità a porvi rimedio. Affondò le mani nelle tasche dei jeans corrucciando le sopracciglia.

    Senza badare alle auto di passaggio, attraversò la piazza centrale del paese inoltrandosi in una strada laterale. Una sequela di alberi di mandarini regalava al viale ombra e un sapore di agrumi. Corse in un edificio dall’inconfondibile stile liberty e quando fu all’interno, la frescura dell’ambiente gli tolse di dosso la calura estiva. Chiamò l’ascensore. Mentre aspettava che arrivasse notò una donna scendere le scale. Mora come lui, gli si rivolse aggiustandosi la borsa a tracolla.

    «Ah sei tornato, ti stavo per chiamare.»

    «Perché?»

    «Perché io sto andando a lavoro, tua nonna è a fare spesa e allora...»

    «Okay, okay, mamma. Resto io con nonno.»

    La madre gli dette una rapida occhiata.

    «Va tutto bene?»

    Senza ribattere, Davide entrò in ascensore e spinse un pulsante. Le porte si chiusero di fronte alla donna. Si appoggiò contro la parete, chiudendo gli occhi. Le parole di Elena, il suo viso addolorato, continuavano a scorrergli dentro in un fiume di vuoti, pensieri inespressi e senso di abbandono. Lei era il suo unico punto fermo e sapere di non averlo più gli gettava addosso ansie e paure. Un sobbalzo segnalò l’arrivo al terzo piano. Raggiunse il pianerottolo e, una volta che fu di fronte al suo appartamento, esitò con le chiavi in mano. In sottofondo sentiva il brusio della televisione accesa. Infilò la chiave nella serratura e varcò la soglia. Nella sala in penombra, lo schermo di una TV mandava i propri riverberi sul volto rugoso del nonno Giuseppe accomodato in poltrona. Chiuse la porta e lasciò le chiavi su un mobiletto, accanto al telefono.

    «Ciao, nonno» disse soffermandosi a studiare con malinconia il suo sguardo concentrato su un vecchio film in bianco e nero, le braccia ripiegate sul grembo, le gambe leggermente aperte, come se non riuscissero a mantenere una postura corretta. Il viso assente, smarrito in una selva di giorni lontani. Gli sfiorò una mano e si sedette a terra. Le scene del western si susseguivano le une nelle altre accompagnate dalle voci degli attori sporcate dal tempo.

    «L’ho persa, nonno.»

    Parlò a voce bassa, come se stesse proseguendo un discorso lasciato a metà. Storse la bocca in un’espressione di acuta sofferenza.

    «Ho sbagliato tutto e l’ho persa.»

    Affondò il viso nelle mani stringendosi nelle spalle.

    I lampioni lungo la Passeggiata Anita Garibaldi affiorarono sulle prime luci della sera. Il Mar Ligure sembrava ancora più scuro e senza fine. Una macchia nera pronta a cancellare le tracce della notte imminente. Il suono di un cellulare echeggiò nella quiete.

    Elena, seduta su una panchina, estrasse il telefonino dalla borsa posata al suo fianco. Dette una rapida occhiata al display. Il nome mom lampeggiava. Lo rimise nella tasca. La musica della chiamata in arrivo s’interruppe per ricominciare subito dopo. Rispose, suo malgrado.

    «Mamma…» disse con voce tremante.

    Tacque, in ascolto.

    «No, non abbiamo fatto pace.»

    Corrugò la fronte, chinò il capo e trasse un respiro profondo.

    «Te lo dico dopo.»

    Picchiettò le dita su un ginocchio. Si passò una mano tra i capelli voltandosi verso il fondo della strada.

    «No, non vengo a cena.»

    L’espressione del suo viso lasciò spazio allo stupore. A pochi metri di distanza, con un paio di scatole l’una sopra l’altra, scorse Amedeo. Lo sguardo puntato su di lei.

    «Sì, Greta viene a dormire da noi. Ci vediamo dopo, ciao.»

    Elena riattaccò mantenendo l’attenzione sull’uomo.

    «Tu sei l’Indiana Jones dell’altro giorno, vero?»

    «E tu, il bisbetico.»

    «Stai bene?»

    «Perché?»

    Amedeo si avvicinò, posò le scatole sulla panchina e batté le mani per liberarsi dalla polvere.

    «Non ti hanno insegnato che è maleducazione rispondere a una domanda con un’altra domanda?»

    «Sei venuto qui per insultarmi?»

    Amedeo si grattò dietro il collo, facendo una smorfia.

    «Non hai una faccia allegra.»

    La ragazza si morse un labbro, incrociando le braccia al petto.

    «È tutto okay.»

    «Quindi tu abitualmente hai questa espressione triste, tranne quando entri nei giardini altrui.»

    «Non stavi andando da qualche parte con quelle scatole?»

    «Alzati, ti accompagno a casa.»

    «Non ce n’è bisogno.»

    «Si sta facendo buio.»

    «Non mi ruba nessuno.»

    Elena tornò a volgere lo sguardo all’orizzonte. Le ultime tracce di crepuscolo morivano tra le braccia della notte. Amedeo si mise accanto a lei. Incrociò le mani sulle gambe, guardando avanti a sé.

    «Io sto andando a cena in un ristorante qui vicino. Ti va di farmi compagnia?»

    La proposta colse Elena di sorpresa. Ridacchiò non riuscendo a trattenersi. Ci mancava anche il vecchio appiccicoso, pensò scuotendo la testa. Quello non era decisamente il suo periodo migliore.

    «Direi proprio di no, che dici?»

    Amedeo le porse una mano accennando un sorriso.

    «Amedeo Corsini.»

    Vedendo la ragazza fissarlo ancora più accigliata, sbuffò.

    «Scusa, non ti dice niente il mio nome?»

    «No, dovrebbe?»

    «In teoria, comunque era solo per farti capire che non ho cattive intenzioni.»

    «E dirmi il tuo nome e cognome, secondo te, è sufficiente per tranquillizzarmi?»

    «Ma quanto sei indisponente?»

    Elena alzò le spalle. Gli strinse la mano sospirando rassegnata.

    «Elena, piacere.»

    «Adesso ci vieni a farmi compagnia?»

    «Io sarò pure indisponente, ma tu sei petulante. Okay, okay ci vengo.»

    Amedeo sorrise, si alzò prendendo le scatole e si diresse con lei verso il sottopassaggio.

    «Prima di andare al ristorante, però, devo consegnare queste.»

    «C’è tanto da camminare?»

    «Ma come, un’atleta come te si preoccupa della distanza?»

    «Smettila di fare il simpatico. Ho i tacchi, non posso fare la maratoneta.»

    Amedeo rise divertito. Risalirono in Viale delle Palme e all’imbocco della strada raggiunsero una macchina parcheggiata in doppia fila con i fari accesi. Patrizia era fuori l’automobile, in attesa. Sorrise vedendo arrivare l’uomo.

    «Eccoti qui, finalmente!»

    Aprì il portabagagli.

    «Scusami, è tanto che aspetti?»

    «No, una decina di minuti.»

    Amedeo posò dentro gli scatoloni. Indicò Elena con un cenno del capo.

    «Lei è Elena, un’amica.»

    «Buonasera» disse la ragazza.

    «Non sapevo che avessi amici, qui» replicò Patrizia un po’ stupita.

    «Ci conosciamo da poco.»

    La donna chiuse il portabagagli.

    «Allora dono tutto alla Caritas. Va bene?»

    «Sì, grazie. Poi ti porto il resto.»

    Patrizia salutò Amedeo con un abbraccio fugace, risalì in macchina e partì, divenendo in fretta una sagoma confusa nella notte. L’uomo restò qualche istante a fissare la strada vuota, poi fece cenno ad Elena di seguirlo. Ripercorsero il tragitto fatto all’andata. Nel sottopassaggio, la visibilità era scarsa e il profumo del muschio forte. La ragazza rallentò l’andatura posando una mano contro la parete. Arricciò il naso. Se non mi ammazzo stasera, posso pure andare a scalare l’Everest. Non fece in tempo a finire di elaborare quel pensiero che inciampò finendo addosso all’uomo. Amedeo, preso alla sprovvista, si sbilanciò in avanti e cadde a terra con lei in prossimità dell’uscita. Elena rimase ferma, incredula da quanto era appena successo. Era sopra l’uomo, caduto faccia avanti. Si scansò in fretta e una fitta di dolore la colse a una caviglia. Se la massaggiò mortificata.

    «Amedeo... sei vivo?» chiese titubante.

    Amedeo fece un grugnito e si mise seduto. Tolse polvere e tracce di muschio dalle braccia un po’ escoriate.

    «Elena, non per polemizzare ma la tua domanda è quanto mai priva di senso.»

    Si sistemò la polo e sondò che non avesse nulla di rotto. Per fortuna era riuscito a ripararsi il volto nella

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