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Cariddi
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Cariddi

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Totò e Lilluzzo ancora assieme, nella veste di improbabili investigatori, inciampano in un complesso caso di omicidi: tre religiosi uccisi nell’arco di poco tempo. Quale movente e quale nesso può esserci? La narrazione, frutto esclusivo della fantasia dell’autore, ha come cornice quella autentica meraviglia naturale che è lo Stretto di Messina.

Cariddi, il mostro mitologico, nel contesto descritto, viene, forse impropriamente, eletto a metafora delle peggiori passioni che agitano l’animo umano.

Pregiudizi, ignoranza, violenza, avidità si contendono il governo delle coscienze. Solo la forza della ragione, l’amore e l’amicizia possono contrastarle.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 2, 2017
ISBN9788892692534
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    Cariddi - pietro alessi

    riassorbe.

    Cariddi

    Mi appresto a narrare fatti di sangue che accaddero, non molti anni fa, nella città di Messina e nella sua provincia e che coinvolsero, nella veste di vittime, tre "parrini" (per dirlo alla siciliana. Sacerdoti per dirlo in italiano). Come è naturale che sia, e come quasi sempre avviene, gli eventi principali sono concatenati con altri di assai minore rilievo; eppure gli uni hanno necessità degli altri affinché il quadro si completi e non venga ritenuto superficiale. In questo modo le apparenti digressioni hanno aiutato la mia memoria a recuperare l’insieme della storia. Persino dialoghi che, senza dubbio, potrebbero apparire di scarsissimo contenuto hanno avuto un loro peso specifico che sarebbe ingeneroso non riconoscere. Così, al solo scopo di voler dare un inizio agli avvenimenti, si può considerare la discussione, a proposito della partecipazione ad un evento religioso, da me sostenuta con il mio carissimo amico Lilluzzo.

    - Non insistere, Lillù. Non vengo. Nemmeno se mi trascini. Mi vuoi dire da quando sei diventato così devoto? Ma tu non la pensavi come me? Quando ti convertisti?

    - Totò, voi a verità?

    - Come gradisce vossia. Se mi vuoi dire la verità bene. Altrimenti pazienza.

    Quando si sentiva alle corde, Lilluzzo diventava rosso in viso e gli si imperlava la fronte di sudore.

    - E’ per Nunziatina.

    - Cioè?

    - ‘A canusci. Magari idda non fu mai praticante.

    - E allora?

    - Allura. Quannu chi ‘a Cuntissa lassò a idda ‘u timuni dell’Associazione prisi supra ‘i sò spaddi a responsabilità

    - E allora?

    - Miii, Totò chi hai stamatina? Sì chiù scassacugghiuni du solitu. Pi’ cuntalla in brevi si tratta di politica.

    - Politica?

    - Avi d’abbisognu di boni relazioni. U parrinu ci addumannò di partecipare alla processione. Putiva diri di no? Certo putiva, ma allura i boni relazioni, cu’ Santa Matri Chiesa, sa pigghiavanu ‘nto culu. Capisti? Jò putiva lassari sula Nunziatina? Certo che no. Picchì altrimenti puri a mei di relazioni sa pigghiava ‘nto culu. Capisti uora?

    - Ho capito che Nunziatina non può dire di no al parrino e che tu non puoi dire di no a Nunziatina. Ma io in tutto questo che ho a spartire? Io alla processione per la Madonna della Lettera non vengo.

    - Jò vaiu pi’ Nunziatina ma anchi na pocu pi’ mia. Dimenticasti ‘u me nomi?

    - Vuoi dire che è il tuo onomastico? Va bene. E allora? Da quando festeggio gli onomastici? Poco ci manca che mi dimentico i compleanni.

    - Totò, jò sugnu in processione ‘u jornu du me nomi e tu, chi sì comu me frati nun ci sì? Già. Tu non sei come me. Tu non hai impegni affettivi. Tu non hai obblighi.

    Quando Lilluzzo abbandonava il dialetto si poteva essere sicuri che era assai vicino ad incazzarsi seriamente. Infatti continuò.

    - E già. Totò non ha obblighi con nessuno. Sei libero Totò. Fai come vuoi.

    Eravamo sul finire di maggio. L’aria attorno a noi era calda e ricca di profumi. A respirare troppo intensamente quegli estratti odoriferi di oli essenziali ci si poteva stordire. Pronunciate le ultime parole, Lilluzzo si alzò di scatto. In quel momento arrivava il nostro cameriere con il vassoio. In bella vista le due granite che avevamo ordinato. Caffè, panna e brioche calde. La cornice era quella per noi abituale di Piazza Cairoli. Era sul punto di lasciarmi consumare da solo la mia colazione. L’avevo offeso. Vi è in taluni un modo del tutto singolare di offendersi. L’animo in quel momento, salvo poi riprendersi, si stravolge. La storia isolana è piena di omicidi per cause d’onore e per riparare ad offese ricevute. Ciò nonostante alcuni, e Lilluzzo è tra questi, non smarriscono il senso pratico. Avrebbe dovuto, trascinato dall’impeto, voltarmi le spalle; ma, in questo caso, avrebbe anche dovuto lasciare sul tavolo la sua granita. Si limitò, per non rendere il suo sacrificio troppo doloroso, a inviarmi sguardi pieni di rancore, dritto di fronte a me. Mentre questo teatro era in pieno svolgimento, con la destra afferrò il bicchiere con la granita, con la sinistra una brioche e confuse il peccato di gola con quello dell’ira. Nei cinque minuti successivi terminò la propria colazione in piedi e mi guardò come a dire che mi stava concedendo ancora qualche minuto per un mio eventuale ripensamento. Con ciò venne dimostrato che nessuno può dirsi del tutto libero. Non avevo alcun desiderio di partecipare alla processione. Il mio anticlericalismo guarda a queste manifestazione religiose come antichi retaggi di epoca medioevale, ma non avevo scelta. Dovevo andare. L’avevo tirata anche troppo per le lunghe. Purtroppo non possiamo sempre fare ciò che più ci aggrada.

    - Hai vinto, Lillù, come al solito. Il 3 giugno sarò con te a marciare.

    - Miii. Totò. Marciare? Vadda chi a festa da’ Repubblica fu nu jornu avanti. Sì propriu nu manciapreti.

    Si era calmato. Accolse la mia capitolazione con un largo sorriso e si lasciò cadere sulla sedia. Ora era il mio turno di inzuppare, nella panna, la brioche calda.

    Avrei voluto portare Nero con me. Non ci fu verso. Non si fece corrompere neanche da polpette che io stesso trovavo appetitose. Grandissimo bastardo. Alla vista del guinzaglio si rifugiò sotto il letto; provai a metterglielo al collo e poco ci mancò che mi mordesse. Ancora, grandissimo bastardo. Aveva intuito che non era la solita rapida uscita igienica. Certo comprese, grazie ad una innata sensibilità, che non gli andavo proponendo nulla di giocoso. Si era appropriato non solo di ogni angolo di quella che era la mia casa ma persino dal mio carattere aveva attinto a piene zampe. Le mie ansie, le mie angosce esistenziali, persino le mie fobie lo avevano contagiato. Era, dovevo ammetterlo senza alcun compiacimento, un mio doppio. Magari aveva anche capito che volevo condurlo ad una manifestazione religiosa. Chissà se anche lui era ateo, oppure coltivava nel subcosciente una qualche venerazione per divinità a sua immagine e somiglianza? Nel caso mi chiedevo se fosse monoteista oppure immaginava un qualche luogo nel quale vi fosse una pletora di dei di diversa razza canina. Di questo avrei parlato con Lilluzzo. C’era materia per passare un buon pomeriggio a consumare chiacchiere, seduti al bar e riscaldati da un buon caffè similcasa. Nero vinse la battaglia. Quando lo comprese uscì dal rifugio e si precipitò sul divano senza mai perdermi di vista, nel caso di qualche improbabile ripensamento. Mi incamminai quindi, da solo, verso il Duomo. Alle diciotto partiva la Processione. Avevo appuntamento con Lilluzzo alle diciassette e trenta. Si poteva scommettere che non avrebbe tardato. Di suo era puntuale ma quando c’era di mezzo Nunziatina diveniva paranoico. Era molto più che innamorato. Era in perenne adorazione di quella che riteneva una creatura unica per bellezza e intelligenza. Non c’era qualità di cui Nunzia, ai suoi occhi, fosse sprovvista. Bastava un suo rimprovero per vedere Lilluzzo, forte come un Ercole, rimpicciolirsi, imbronciarsi e chiudersi dentro di sé per ore. Solo un gesto distensivo di Nunziatina aveva il potere di riportare il sereno. Con lei di mezzo non si sarebbe permesso di tardare. Infatti era già, con le sue fattezze da gorilla, sul luogo concordato, che passeggiava nervosamente. Aveva timore che non fossi di parola. Mi vide da lontano e agitò, come pale di mulino, quelle braccia troppo lunghe rispetto alla sua altezza, se vogliamo piuttosto modesta. Non si può, a questo punto, evitare di spendere alcune parole sulla Madonna della Lettera. In primo luogo perché è la Patrona della città ed in secondo luogo perché da essa traggono il nome i vari Letterio e Letteria, da cui i diminutivi Lillo e Lilla, che abbondano in terra di Messina. La leggenda narra di una ambasceria inviata nel 42 d.C. a Gerusalemme, alla madre di Gesù, per informarla che, grazie al duro impegno di evangelizzazione di San Paolo, la città di Messina si era convertita al cristianesimo. Di ciò evidentemente la Madonna non poté che gioire; così, a titolo di ringraziamento, consegnò agli ambasciatori, per i messinesi, una lettera accompagnata da una sua ciocca di capelli, con la quale assicurava a Messina la sempiterna protezione. Si sarebbe cronisti imprecisi se, per amore della verità, non si riconoscesse che in varie occasioni purtroppo si ebbero a soffrire alcune distrazioni della Vergine, come le varie pestilenze, il catastrofico terremoto del 1908 ed altre sciagure consimili. Comunque, quando attraversato lo stretto si entra nel porto di Messina, si viene accolti da una grande statua della Madonna che alla base porta scritta, a grandi lettere, la sua benedizione in lingua latina: VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS.

    Il sagrato si andava lentamente riempiendo di fedeli. La mia claustrofobia iniziava a darsi da fare per punirmi di aver abbandonato le consuete faccende. I miei piedi subivano ormai sistematiche offese da una folla sempre più eccitata all’approssimarsi dell’inizio della cerimonia. Dovevo resistere ancora pochi minuti. Mi feci coraggio. Inspirai, chiusi gli occhi e, in apnea, attesi che l’evento prendesse il suo corso. Così fu dopo qualche minuto. Apparve quasi d’improvviso il fercolo d’argento con sopra una colonna in cima alla quale era allocata la pigna in cristallo di rocca con la reliquia del Sacro Capello. Davanti alla colonna era posizionata la statua, sempre in argento, della Madonna. Così, con in testa il Vescovo accompagnato da un certo numero di prelati e da tutte le Confraternite della Diocesi, ciascuna con il suo bravo stendardo, la processione finalmente si mosse. Durante il percorso, che attraversa corso Cavour, via Cannizzaro, via Garibaldi e via Primo settembre per rientrare quindi al Duomo, si intonano canti e inni religiosi. Tra questi, a memoria della proverbiale conversione, quello che si intitola non a caso: Quando Zancle infranse gli idoli che si conclude con un coro salmodiante che recita: O de la lettera Madre e Regina / Salva Messina, salva Messina. Quando il rito si concluse rimanemmo sulla piazza del Duomo con Lilluzzo in attesa di Nunziatina che era andata, per svolgere i suoi compiti politici, a salutare il parroco che tanto si era adoperato per averla in processione, in rappresentanza della sua Associazione benefica. Volgemmo le spalle al Duomo ed entrammo nel bar più vicino. Faceva caldo e, dopo quella scarpinata di circa tre chilometri, una granita, magari di limone, ci stava bene. Ci sedemmo all’aperto, ma qualcosa accadde che sconvolse i nostri piani. Mentre già pregustavo una cena, dove certo i sapori del mare non sarebbero mancati, un colpo, come uno di quei petardi che molti sciagurati scassacugghiuna usano durante le feste, interruppe una serena conversazione che avevamo appena iniziato. Chiedevo a Lilluzzo cosa ne pensasse della mia idea che anche i cani si dividessero tra atei e religiosi e che forse Nero sul tema aveva, anche lui, percezione precisa. Proprio mentre Lilluzzo mi stava mandando a strafottere la sua voce fu coperta dal botto. Poiché non era uso esplodere petardi nella piazza del Duomo uscimmo dal bar per capire chi fossero gli autori della prodezza. Ci avvedemmo subito che era accaduto qualcosa. Molti correvano verso il fondo della piazza dove si era già raccolto un capannello di persone. Verso quel punto iniziò un incomprensibile andirivieni. Si vedevano uomini e donne che di corsa volevano raggiungere il luogo dell’avvenimento e poi altrettanto velocemente da lì si dipartivano per tornare da dove erano venuti. Era ai miei occhi piuttosto buffo. La curiosità li spingeva innanzi. Il timore di trovarsi coinvolti in qualcosa di compromettente li costringeva, ancor prima di essere giunti a destinazione, ad un rapido dietrofront. Non avevo alcun desiderio di lasciarmi coinvolgere dall’isteria. Evidentemente non era giornata. Non riuscivo a mantenere nessuno dei miei proponimenti. Lilluzzo si avvide che in quella direzione si era mossa Nunzia. Questo gli mise le ali ai piedi e a me non rimase che seguirlo. Non dissi nulla perché sapevo su quali argomenti, con Lilluzzo, non si poteva scherzare. Nunzia era in cima alla lista. Conveniva parlare solo dopo aver pensato bene e soprattutto dopo aver ben considerato cosa fosse accaduto. Ci facemmo largo tra la folla, senza sforzo per parte mia, dacché Lilluzzo era davanti e apriva la strada come un cinghiale infuriato. La scena che si presentò fu la seguente: Nunzia era in ginocchio; davanti a lei un uomo, sdraiato in terra con gli abiti da prete, perdeva sangue dal petto. La sua testa era tenuta da Nunzia che sembrava confortarlo. In quel momento giunse un’autoambulanza e una macchina della polizia, dalla quale vidi scendere qualcuno che conoscevo. Si trattava del commissario Carrieri. Un poliziotto che avevo avuto modo di apprezzare quando mi ero trovato, mio malgrado, coinvolto in una strana vicenda. Un bravo funzionario che in quella passata occasione aveva dimostrato una notevole umanità. Pensai non fosse opportuno farmi riconoscere. Non era clima da saluti formali. Lilluzzo, dopo un primo soprassalto, alla vista di Nunzia in ginocchio, si era calmato. In realtà stava per precipitarsi ma venne bloccato da uno sguardo di Nunziatina. Quei due si capivano al volo. Rimase dunque accanto a me. Il prete venne portato via. Ci avvicinammo e Nunziatina ora si permise di cadere tra le protettive braccia di Lilluzzo lasciandosi andare ad un pianto liberatorio.

    - E’ morto. Muriu. Muriu.

    Il prete era morto tra le sue braccia. Nunzia aveva inteso che la vita lo abbandonava assieme ai suoi ultimi respiri. Quando si riprese la costringemmo a bere un cognac e raccontarci i fatti, che noi avevamo visto solo di lontano.

    - Gli hanno sparato. E’ stato un colpo secco, sparato penso da vicino. ‘U sentia bonu. stavo parlando con altri parrini e per qualche minuto rimasi vutata di spaddi. Quando mi vutai nuovamente ‘u vitti cadiri a corpo morto. Corsi subito da lui e ci pigghiai ‘a testa. Nun vitti nenti. Nun avia pinseri pi’ chi sparò. ‘U me pinseri era pi’ du puvirazzu. L’avia canusciutu. Era don Simone, ‘u parrinu che mi spinse a venire oggi. Mi disse che poteva essere cosa bona anche per l’Associazione.

    Quindi, riprese un pianto soffocato tra le braccia di Lilluzzo. Figuriamoci se l’ animo cavalleresco del mio amico poteva limitarsi ad una semplice consolazione. Il drago si doveva uccidere per conquistare il cuore della damigella. Così disse quello che gli abissi della mia coscienza temevano.

    - Nun t’in’ancaricare ‘U truvamu ‘u bastasu chi sparau ‘u parrinu. Nun cianciri chiù, cori mei.

    La promessa fu condita da baci, abbracci e tenerezze. Un quadro dal quale trasudava miele. Lilluzzo aveva usato il plurale e mi aveva guardato come a cercare complicità e approvazione. Non mi era certo sfuggito. Si era montato la testa. Pensava davvero che eravamo divenuti investigatori? Solo perché in alcune circostanze e per pura combinazione, avevamo aiutato la soluzione di casi che apparivano piuttosto intrigati? Ci avrei parlato. Dovevo convincerlo, una volta per tutte, che lui era un semplice impiegato delle poste e io uno sfaccendato, per ragioni di risparmio energetico e per scelta filosofica. Lilluzzo non riesce ad intendere che ogni volta che io mi sposto dal mio divano rosso si scatenano forze oscure, che vanno all’assalto delle mie deboli difese immunitarie. Il mio organismo ne risente. Questo avveniva già prima che io mettessi su famiglia. Ora avevo anche la responsabilità di Nero. Speravo di riuscire a convincerlo. Nel caso, avrebbe fatto da solo. Non avevo intenzione di cedere ai ricatti affettivi. E poi, come pensava di affrontare un’indagine su una persona senza alcun riferimento, senza la necessaria competenza e senza mezzi?

    Uno

    Niente da fare. Lilluzzo ricorse a tutti gli espedienti senza trascurare i più ignobili. Appelli all’amicizia fraterna, ricatti, pressioni di vario tipo. Tirò in ballo persino, senza nessuno scrupolo, mia madre. Un giorno mi telefonò da Torino: E’ vero Totò, che ti rifiutasti di aiutare Lilluzzo a indagare sull’omicidio di un prete amico di Nunziatina?. Provai a spiegarle che suo figlio non era un investigatore privato, che non era stato assunto di recente dalle forze di polizia e che non voleva avere nulla da spartire con morti ammazzati, criminali e storie di sangue in genere. Una madre normale avrebbe dovuto semmai dissuadere il proprio figlio dall’immergersi in ambienti oscuri alla folle ricerca di assassini e simili. Appunto, una madre normale. Non la donna che mi aveva generato. Cattolica spinta e moglie integerrima del giudice in pensione Spataro: "Lo so, Totò, che non sei un detective come quelli dei film americani. Ma io sono rimasta impressionata. Ammazzaru nu parrinu! Non posso credere che mio figlio rimanga insensibile. Il tuo migliore amico Lilluzzo si predispone a rischiare, per amore di giustizia, e tu ti tiri indietro. Mi fai vergognare. A tò patri nun ci dissi nenti. Poi immaginari la so reaziuni si lu veni a sapiri. Fai come te la senti. Libero sei". Anche mia madre, come Lilluzzo, mi diceva che ero libero delle mie scelte ma con un tono particolare. Insomma si confermava che nessuno di noi è veramente libero. Qualcuno, genitori compresi, ti deve scassare i cugghiuna. Così fu che mi dovetti piegare. Telefonai a Lilluzzo e gli dissi che aveva capito male e che non avevo alcuna intenzione di tirarmi indietro. Non gli volevo lasciare la soddisfazione di essere riuscito con i suoi espedienti a costringermi alla resa. Gli dissi che

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