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Medicina Coerente: Modelli sistemici per una medicina più efficace, umana, individualizzata
Medicina Coerente: Modelli sistemici per una medicina più efficace, umana, individualizzata
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Ebook376 pages5 hours

Medicina Coerente: Modelli sistemici per una medicina più efficace, umana, individualizzata

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About this ebook

L’autrice accompagna il lettore in un’appassionata scoperta del corpo, della psiche e della mente, ingranaggi raffinati, retificati e meravigliosamente intrecciati dove nulla è lasciato al caso e ogni stimolo comporta una risposta.
Una medicina che ridà dignità alla persona e alla sua complessità, dove la malattia non è più un male che cala dall’alto, una colpa di cui chiedere scusa, un difetto del sistema, ma la migliore risposta possibile per quell’organismo in quel dato momento per quella specifica informazione.
Una medicina che integra olismo e riduzionismo, che è insieme Scienza e Filosofia, disciplina scientifica e umana capace di guardare il mondo con mente aperta e occhi stupiti.
LanguageItaliano
PublisherSara Diani
Release dateNov 16, 2017
ISBN9788827517888
Medicina Coerente: Modelli sistemici per una medicina più efficace, umana, individualizzata

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    Medicina Coerente - Sara Diani

    Sara Diani

    MEDICINA COERENTE

    Modelli sistemici per una medicina più efficace, umana, individualizzata

    UUID: 76ff622c-ca10-11e7-bd25-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    COPYRIGHT

    IMPORTANTE

    INTRODUZIONE

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    FOCUS - La misura della complessità

    BIBLIOGRAFIA

    CAPITOLO 3

    FOCUS - Filosofia della Medicina (e un mio breve pensiero in merito)

    BIBLIOGRAFIA

    CAPITOLO 4

    BIBLIOGRAFIA

    CAPITOLO 5

    BIBLIOGRAFIA

    CAPITOLO 6

    BIBLIOGRAFIA

    CAPITOLO 7

    RINGRAZIAMENTI

    ALCUNI REGALI PER TE!

    SARA DIANI

    Al mio Maestro

    Alla mia famiglia

    COPYRIGHT

    Copyright © 2017 Proprietà letteraria riservata

    © Sara Diani

    Medicina Coerente è un marchio registrato.

    Prima edizione italiana 2017

    Copertina e progetto grafico: Anna Diani – TAKE THE

    POINT

    Seguimi su:

    www.saradiani.com

    Sara Diani

    dr.saradiani

    email: info@saradiani.com

    IMPORTANTE

    Questo libro contiene informazioni e concetti di natura generale, che sono stati pubblicati con uno scopo puramente divulgativo. Pertanto non possono sostituire in nessun caso il parere di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione) o, nei casi specifici, di altri operatori sanitari (odontoiatri, psicologi, infermieri, farmacisti, fisioterapisti, eccetera).

    Ad esempio, quando vengono forniti consigli per migliorare la propria salute, è importante ricordare che si tratta di consigli di natura generale e che potrebbero risultare inappropriati per alcuni soggetti e/o in presenza di alcune patologie. Per questo motivo è importante consultare sempre il proprio medico di fiducia.

    Alcuni dei modelli da me formulati e contenuti in questo libro sono teorici, non ancora verificati sperimentalmente. È importante spingersi oltre il conosciuto cercando di spiegare l’ignoto. Fino a quando però non c’è verifica sperimentale non si può parlare di verità, ma di ipotesi, teorie o, appunto, modelli teorici.

    INTRODUZIONE

    Il controllo che voi state tentando... non è possibile. Se c’è una cosa che la storia dell’evoluzione ci ha insegnato è che la vita non ti permette di ostacolarla, la vita si libera, si espande in nuovi territori e abbatte tutte le barriere, dolorosamente, magari pericolosamente, ma... tutto qui. Dico semplicemente che la vita... vince sempre. (I. Malcolm)

    Ricordo che quando da ragazzina mi chiedevano Cosa vuoi fare da grande? io non riuscivo mai a rispondere. Ero troppo giovane per farlo e soprattutto avevo troppe passioni. Mi piaceva quasi tutto: la fisica, la biologia, la filosofia, l’ingegneria, la comunicazione, la psicologia, lo sport, la musica… ero davvero molto, molto indecisa.

    Allora cominciai a filosofeggiare un po’, come mi piaceva fare già da molto tempo, e realizzai che tutte le cose che mi appassionavano erano discipline che erano state inventate dall’uomo allo scopo di spiegare la realtà e viverla meglio. Così mi dissi: se studio l’essere umano mi avvicino a tutte queste materie, anche se indirettamente, e in un certo senso posso unirle tra loro.

    Fu così che scelsi di studiare medicina.

    Non avrei mai pensato che lo scopo della mia vita sarebbe diventato proprio quello: unificare e armonizzare diversi tipi di conoscenza per costruire un modello medico migliore di quello attuale.

    L’Università

    Quando mi iscrissi alla Facoltà di Medicina a Bologna, sapevo già la specialità che avrei scelto dopo. Dato l’amore folle per lo sport che nutrivo fin da piccolissima, e che dura ancora oggi, la scelta sarebbe sicuramente ricaduta su ortopedia, fisiatria o medicina dello sport.

    Venivo dall‘ottimo Liceo Scientifico-tecnologico di Mantova, dove il metodo d’insegnamento fondeva l‘empirismo con la razionalizzazione e l’astrazione. Iniziai l’Università fiduciosa, curiosa e aperta alla conoscenza.

    Quando mi trovai di fronte a una medicina spezzettata, divisa a compartimenti stagni, la delusione fu tanta. Ogni professore faceva la sua lezione e poco importava che le varie teorie si contraddicessero tra loro e che i protocolli di diagnosi e trattamento fossero sempre diversi. Era tutto teorico e avulso dalla realtà. Saggiai il dogmatismo dei miei colleghi di studi anche semplicemente facendo una domanda al professore di biochimica. Ricordo ancora che non mi tornava il ruolo delle calorie nella misurazione del valore energetico di un cibo: noi non funzioniamo come un forno o un frigorifero, abbiamo un metabolismo complesso, proprio come ci aveva insegnato il corso di biochimica. Non mi stavo inventando niente, era tutto lì! Mi chiedevo perché sembravo l‘unica di tutta l‘aula ad accorgersene.

    Poi, procedendo con gli studi e con la pratica, cominciai a vedere sia la grande umanità di alcuni medici, sia la loro impotenza di fronte a molte malattie.

    Capii che la medicina individualizzata era ancora un sogno lontano, dato che era, ed è tuttora, un ibrido di protocolli, linee guida ed esperienze soggettive. In definitiva: una medicina variabile.

    Che la teoria che si studia all’Università fosse molto diversa dalla pratica credo che nessun medico potesse metterlo in dubbio. Ma anziché ritenere questa discrepanza normale, come sembrava facessero tutti, per me significava che almeno una tra la teoria e la pratica era sbagliata.

    Un giorno, un Maestro

    Un giorno mi proposero di iniziare un corso di omeopatia classica. Ero molto scettica, ma decisi comunque di provare. La mia curiosità mi ha sempre spinta dove la razionalità tende per sua natura a fermarsi.

    Il docente del corso, il dott. Benedetti, quello che poi sarebbe diventato il mio Maestro, già durante la prima lezione ci mostrò una nuova realtà, un nuovo modello di intendere l’essere umano, che non era valido solo per l’omeopatia ma per l’intera medicina.

    Quando, dopo appena cinque minuti di lezione, cominciò a parlare di termodinamica, capii di essere nel posto giusto. Affrontare un tema come la termodinamica in quel contesto significava cercare di dare una spiegazione teorica, fisica, globale e ordinata a un insieme di fenomeni. Significava affacciarsi su una strada nuova, quella che un giorno avrebbe condotto al modello che stavo cercando.

    Cominciò così un grande percorso di scoperte e soddisfazioni, che mi portò a cambiare molte convinzioni della mia visione del mondo. Un percorso entusiasmante e anche molto faticoso, fatto di notti intere passate sui libri, dopo le lezioni e gli esami prima, dopo il lavoro poi. Ma furono quei libri a farmi capire che l’ordine che cercavo esisteva. Finalmente potevo distanziarmi dal problema e risolverlo!

    Ero sempre stata convinta, infatti, che solo elevandosi dal problema che si sta affrontando, solo osservandolo dall’alto, sia possibile risolverlo. È molto più efficace capire quant’è grande Milano guardandola dall’alto di un elicottero piuttosto che camminandoci attraverso e facendo complicati calcoli matematici.

    Potevamo essere noi il centro di noi stessi, della nostra conoscenza e dei nostri progressi, senza delegare a nessuno il giudizio su quello che vedevamo, senza delegare l’attribuzione di veridicità o falsità di quello che sperimentavamo.

    Una volta capita la potenza di questo approccio che in realtà andava oltre la pratica omeopatica, e le conseguenze profonde che poteva avere per la medicina, mi scontrai con un altro problema: la possibilità di divulgarlo.

    Cercai di farlo in molti modi. Contattai fisici, professori, centri di ricerca, parlai con diversi colleghi cercando di fare capire loro che una nuova via era possibile, che l’arte medica poteva diventare scienza e allo stesso tempo conservare la sua poesia, o persino elevarla. Ma nessuno mi diede l’opportunità di lavorare sopra il modello, di studiarlo a tempo pieno, di fare parte di un team di ricercatori con cui approfondire la parte matematica, le formule, la verifica delle teorie tramite sistemi informatici.

    Nessuno mi aprì la porta. Probabilmente avevo bussato a quelle sbagliate.

    Poi mi chiamarono a insegnare alla sede di Padova dell’Università Europea Jean Monnet e lì qualcosa cominciò a cambiare.

    L’insegnamento

    Dovevo tenere un corso sulle basi della medicina agli studenti del primo anno della Scuola di specializzazione in Musicoterapia e si rivelò subito una grande sfida.

    Il corso doveva essere concentrato su neuroanatomia e neurofisiologia. Quello che io volevo fare, però, era dare ai miei studenti gli strumenti necessari non per acquisire semplici e generiche nozioni, ma per capire quei concetti medici che potevano essere collegati a quello che stavano facendo. Volevo appassionarli, volevo fare provare loro la stessa meraviglia che sperimentavo io ogni volta che mi approcciavo al prodigio della vita. Volevo che capissero che dietro le patologie, o i problemi vocali che avrebbero trattato con la musicoterapia, non si nascondevano solo due corde vocali irritate, problematiche ed erroneamente organizzate. Volevo fare passare il concetto che ciò che regola il funzionamento delle corde vocali, quello che influenza la nostra capacità di ascoltare e produrre un suono attraverso uno strumento musicale o la voce stessa, ha come radici un’organizzazione capillare di sistemi e apparati apparentemente molto diversi tra loro ma collegati alla perfezione, come una rete di server sapientemente coordinati nonostante la distanza.

    Iniziai quindi il corso partendo dalla teoria dei sistemi complessi e illustrando come poteva essere utilizzata per capire cosa avviene durante i processi fisiologici e patologici.

    Spiegai la logica dell’essere vivente, che ci permea nella nostra totalità ed è composta da tutte le regole e le dinamiche dei suoi funzionamenti, parlai della cellula e delle informazioni che contiene, elabora e trasporta e di come tutti i nostri apparati e sistemi siano collegati tra loro e artefici nella loro globalità del nostro presente.

    Solo a quel punto introdussi i concetti di neuroanatomia e neurofisiologia mostrando come funzionano l’orecchio e l’apparato vocale.

    Gli studenti avevano a loro disposizione un modello dentro cui inserire e ordinare le nuove conoscenze e grazie al quale capire se quello che stavo insegnando aveva una logica oppure no. Non fu facile nemmeno per me, perché mi resi conto che le cose che mi avevano insegnato all’Università presentavano dei buchi logici, c’erano dei passaggi che bisognava solo imparare a memoria perché riguardavano piccoli fenomeni incomprensibili con il pensiero logico. Dovetti trovare quelle informazioni, dovetti farle mie. Solo allora potei insegnarle.

    Beh, il risultato fu strabiliante.

    Gli studenti cominciarono a fare domande, a mostrarsi interessati a cose di cui fino al giorno prima ignoravano persino l’esistenza. Alcuni iniziarono ad approfondire i temi che li interessavano di più, altri a leggere i libri che consigliavo… e quasi tutti superarono l’esame brillantemente!

    Il motivo era semplice. Quello che avevo insegnato aveva un punto di partenza, che era lo stupore e la meraviglia per il bello. Aveva uno scopo, che era spiegarlo, dargli piena dignità e la maggiore veridicità possibile. E aveva un metodo, che consisteva nel creare come prima cosa la cornice di riferimento, la base concettuale, una base che era verificabile attraverso degli esempi. Questa base poteva poi essere riempita con altri concetti, i quali diventavano tramiti per ottenere lo scopo, non il fine ultimo della conoscenza.

    Quegli studenti, che fino all’anno prima erano stati costretti a imparare a memoria alcuni concetti decontestualizzati, di cui non sapevano che farsene perché non era stato mostrato loro come utilizzarli, avevano provato per la prima volta curiosità verso una materia che – mi dissero loro stessi – avevano sempre vissuto come una tortura. Adesso avevano finalmente un mezzo per capire e valutare altri concetti e quello che stavano facendo con la loro disciplina.

    Ero felice per loro ed ero felice per me.

    L’insegnamento è un’esperienza da cui ho imparato tantissimo e che ha arricchito incredibilmente il mio bagaglio di persona e di professionista.

    La specializzazione

    Alla fine del corso di laurea scelsi fisiatria. Nonostante tutte le esperienze che stavo facendo e tutto quello che stavo imparando, la domanda Cosa vuoi fare da grande? continuava a tormentarmi. E avevo bisogno di lavorare.

    Mi piaceva molto potere aiutare le persone a rialzarsi. Vedere qualcuno che si alza dal letto per la prima volta dopo mesi di immobilità è un’emozione indescrivibile, aiutarla a muovere i primi passi e a diventare il più autonoma possibile, una soddisfazione enorme.

    Quello del fisiatra è un lavoro che pone molte sfide, che richiede una conoscenza in rami specialistici diversi, dove si collabora con diverse figure professionali e si riesce a stabilire un rapporto abbastanza stretto anche con la famiglia del paziente.

    Mi piacevano soprattutto i casi difficili, rari, quelli in cui le conoscenze che avevamo non bastavano e occorreva trovarne di nuove. Mi piaceva osservare e cercare di capire quali fossero i presupposti delle patologie, perché si erano verificate determinate condizioni, se avevano un significato e potevano essere spiegate. La medicina è piena di presunti misteri ritenuti tali solo perché non esiste un modello coerente in grado di spiegarli.

    Grazie all’idea di sistema complesso – secondo cui siamo appunto un sistema che reagisce in modo unitario, globale e ordinato a un’informazione – riuscivo a osservare senza giudizio il comportamento dei miei pazienti e questo mi aiutava a capire meglio cosa accadeva nel loro corpo e nella loro mente quando si trovavano a fronteggiare problemi di diversa natura. Ero in grado di osservare senza la prigione del pregiudizio.

    Periodicamente però tornava l’insoddisfazione. Avevo poco tempo e poche risorse per lavorare a quello che davvero mi interessava. Quello che volevo era capire come migliorare le cure per i miei pazienti partendo dalle basi concettuali della medicina, volevo capire come andare alla radice dei problemi e poi risolverli.

    Avevo compreso i principi di base della medicina tradizionale, adesso volevo capire se era possibile integrarli con altri metodi e discipline.

    Volevo, insomma, scoprire la medicina integrativa.

    Cercavo di ignorare quello che mi avevano sempre detto fin da piccola, e cioè che mi pongo obiettivi troppo alti e che sono un’idealista; mi lasciavo andare a fantasticherie che a volte conducevano a idee interessanti. Me le annotavo, le sviluppavo un po’, ma non riuscivo a espanderle come volevo. In ospedale era proibito anche solo accennare a qualsiasi cosa esulasse dalla mera pratica clinica quotidiana e una volta che finivo il lavoro e tornavo a casa non avevo modo di portare avanti i miei progetti. Mi sentivo in trappola.

    E quando ci si sente in trappola l’unica cosa che si pensa è come fare a uscirne.

    Il licenziamento e la partenza per la Germania

    Nell’agosto del 2013 cominciai a studiare il tedesco dopo il lavoro. Mi armai di coraggio, pazienza e motivazione, rispolverai la mia proverbiale audacia e decisi di partire per la Germania.

    A fine settembre mi licenziai e pochi giorni dopo partii per Berlino con l’intenzione di lavorare con la medicina integrativa (1). La mia vita stipata in una valigia e uno zainetto rossi, un telefono e tanta fiducia.

    Mi iscrissi a un corso intensivo di tedesco, che prevedeva quattro ore al giorno di tedesco generico e otto ore a settimana di tedesco medico. A dicembre passai l’esame di lingua necessario a lavorare come medico e cominciai a cercare lavoro in ospedale.

    Non dimenticherò mai la velocità con cui si svolsero le cose: spedii le prime candidature il venerdì. Il lunedì pomeriggio, mentre recuperavo le forze reduce dalla frattura di una spalla (ah, questo amore non ricambiato per lo sport!), suonò il telefono. Dall’altra parte una voce che non conoscevo: Buongiorno! Era il mio futuro primario, che mi salutava nella mia lingua per darmi un benvenuto speciale. Il martedì successivo feci il colloquio e la giornata di prova. Cominciò così la mia avventura in Germania.

    Era un ospedale vicino a Koblenz di medicina tradizionale e integrativa applicata a due discipline che negli ospedali italiani non esistono, cioè l’ortopedia conservativa (2) e la medicina psicosomatica.

    Con mia grande sorpresa, mi venne data la possibilità di curare i pazienti in ospedale con un’altra mentalità rispetto a quella che conoscevo. In Germania, nella mia esperienza ho notato che il paziente non è un bambino che si aspetta una paternale su cosa fare e cosa evitare, è un adulto in cerca di un tecnico che lo aiuti a risolvere il suo problema proponendogli delle terapie, che poi il paziente stesso sceglierà in consapevolezza se effettuare o meno.

    Questo approccio così diverso cambiò profondamente il mio modo di fare il medico.

    Smisi improvvisamente di occupare la mia giornata con prediche inutili e futili e cominciai a instaurare rapporti puliti e meno gerarchizzati. In Germania il ruolo del medico è chiaro (tecnico della salute) e quello del paziente anche (adulto con un problema, proprietario e primo responsabile del proprio corpo e della propria salute).

    Durante la pratica in ospedale informavo i pazienti sulle diagnosi, sui possibili benefici ed effetti collaterali delle terapie che potevano ricevere, così che potessero capire e informarsi di conseguenza. Se avevano domande me le ponevano, se rifiutavano il trattamento me lo dicevano con tranquillità. Io mi limitavo a chiedere se erano sicuri, spiegando i miglioramenti che il trattamento avrebbe comportato, ma erano sempre i pazienti ad avere l’ultima parola e la responsabilità della propria decisione. Come dovrebbe sempre essere.

    Solo ora, mentre lo scrivo, mi rendo conto di quanto sia più facile fare medicina in questo modo e di quanto il sistema tedesco mi corrisponda di più di quello italiano, in quanto rispettoso tanto della dignità della persona quanto della mia di professionista. Sono contenta di avere avuto l’opportunità di scoprire che esiste anche un altro modo di fare medicina, oltre a quello dove il medico è il dio che ha in mano le chiavi del destino delle persone. Dove i pazienti – piccoli, infantili, deboli e sottomessi – si affidano belanti a tutto quello che dice la Grande Autorità del Dottore senza porre domande, terrorizzati di esprimere le proprie perplessità. Bambini che hanno bisogno di sentirsi dire cosa fare e cosa evitare, che hanno bisogno di essere rimproverati e delegare quello tutto quello che li riguarda a una terza persona, salvo poi arrabbiarsi e denunciare quando qualcosa va storto.

    Essere attivi e proattivi nel processo di mantenimento della propria salute o della cura è invece fondamentale e parlo per esperienza, in quanto ho avuto l’occasione di essere una paziente.

    La malattia e la rinascita

    C’era anche un’altra cosa però che avrei voluto fare in Germania: impegnarmi nella ricerca. Ma naturalmente ero stata ancora una volta troppo ottimista (3).

    Non avevo calcolato la barriera linguistica: per quanto il mio tedesco fosse decente, dovevo ancora ambientarmi col nuovo accento. Soprattutto, dovevo fare fronte ai ritmi incalzanti. Le cose da fare e da imparare erano moltissime, era un nuovo mondo che non avevo tempo di scoprire e dove invece dovevo agire subito.

    Tornavo a casa stravolta e per un po’ di mesi dovetti lasciare perdere ogni velleità.

    Quando la situazione si stabilizzò, provai a riprendere in mano le redini di quello che volevo fare. Anche se lavoravo 50-60 ore a settimana, iniziai a studiare e a scrivere. Ero sempre più stanca e non riuscivo a lavorare in modo ottimale come avrei voluto.

    Le cose si complicarono improvvisamente una notte, quando al lavoro fui colpita da un’ipotensione acuta grave. Ma quella, avrei scoperto qualche tempo dopo, era solo la punta dell’iceberg di problemi più grossi causati da un trauma cranico che non mi era stato diagnosticato e che di conseguenza non era stato curato correttamente.

    Non stavo più in piedi, non ricordavo più niente, non riuscivo a concentrarmi, ero sempre stanca e incapace di svolgere anche la più piccola attività. Fui costretta a fermarmi e a sottopormi a una serie di terapie continuative. La missione era ardua: sovvertire una prognosi negativa che non avevo mai ritenuto logica e in cui non avevo mai creduto.

    Nel momento di crisi maggiore, con in mano il plico delle diagnosi e dei rapporti medici, cominciai a chiedermi perché mi fosse capitato tutto questo. Nel mio agnosticismo, decisi di far finta che fosse perché dovevo imparare qualcosa di importante. Non solo: decisi che dovevo usare quel problema come una grande occasione, come un’opportunità di evolvere.

    Dopo qualche mese di riabilitazione intensiva, fu chiaro che serviva un cambiamento radicale. Dovevo cambiare strada per dedicarmi alle due attività che davvero volevo svolgere: la ricerca di base e la scrittura.

    La ricerca

    La ricerca che volevo fare puntava a unire la fisica, la filosofia e la medicina allo scopo di capire meglio le dinamiche dell’essere umano e creare un nuovo modello medico coerente. La mia ambizione era dare a tutti gli strumenti per curarsi in modo più razionale ed efficace.

    Pensai che forse era questo il contributo che potevo dare al mondo, forse – come mi fece un giorno notare un’amica – era questa la mia missione.

    Decisi quindi di darmi da fare in prima persona per portare avanti le idee in cui credevo.

    Iniziai a documentarmi, lessi centinaia di articoli scientifici e di libri, e pian piano molti pezzi del puzzle andarono al loro posto.

    Compresi cose che prima mi rimanevano oscure e che creavano dei buchi nel mio modello.

    Completai e scrissi un modello fisico che avevo in mente da sei anni (anche se allora non era ancora sviluppato), il modello che riporto in questo libro.

    Cominciai a conoscere altri ricercatori e a costruire reti con loro. Vidi la loro curiosità e l’interesse che mostravano per il mio lavoro.

    E capii ancora una volta che siamo noi i proprietari della nostra visione del mondo e che se vogliamo migliorarla, e renderla più veritiera, dobbiamo continuamente informarci per implementare le nostre conoscenze e poi porci delle domande per verificare quello che apprendiamo, per inglobarlo nel nostro sistema di convinzioni e perché no, magari per cambiarlo.

    Oggi

    Questo processo certe volte è molto difficile, perché dobbiamo uscire dal comfort della nostra conoscenza e spostarci verso l’ignoto, e ancora oltre, verso l’assunzione di una nuova posizione, di un nuovo modo di vedere il mondo, di rappresentare il reale.

    Ma per quanto mi riguarda, tendere al bello dà una soddisfazione, una felicità e una pace con se stessi e col mondo che sono impagabili, che rendono giustizia e nobilitano la fatica che si fa nel rimanere nell’incertezza. Sì, perché serve molto più coraggio a navigare nell’incertezza, che a rifugiarsi nel comfort delle posizioni dogmatiche.

    Dopo anni di lavoro ho finalmente concluso i modelli. Li ho messi alla prova più volte e mi sono confrontata con esperti per essere certa di quello che propongo. E ho scritto questo libro.

    Ho trovato il modo di unire fisica, filosofia e medicina e in queste pagine mostro com’è possibile migliorare e rivoluzionare il modello medico attuale e la pratica clinica per consentire di ottenere guarigioni migliori, più frequenti e più facili, soprattutto nell’ambito delle malattie croniche.

    Credo profondamente nell’importanza della divulgazione e questo mi ha spinto anche ad aprire un sito ( www.saradiani.com) dove condivido questi concetti, che per me sono magici e strategici.

    Sono molto orgogliosa di questo libro. È un grande passo per me e spero possa essere un insegnamento per tutti coloro che hanno idee e progetti brillanti ma si sentono bloccati e impotenti, irretiti dalla routine e dal sistema in cui sono immersi. Se ci si fa prendere dalla paura di quello che potrebbe succedere, dal giudizio altrui, dal fallimento... beh, allora è meglio prepararsi a gestire un bel po’ di rimpianti.

    Sono conscia del fatto che l’inerzia di tutto l’apparato sanitario sia imponente, ma come diceva un saggio Un viaggio di 1000 chilometri inizia col primo passo.

    Buon viaggio.

    [1] La medicina integrativa affianca alle cure tradizionali – che sono le prime ad entrare in gioco – anche altri metodi, tra cui la fitoterapia, l’agopuntura, la nutrizione, la cura psichica ed emotiva della persona.

    [2] In ortopedia conservativa si curano in ambiente ospedaliero pazienti con patologie ortopediche e dolore cronico che non vengono trattate chirurgicamente. Si affiancano trattamenti come le infiltrazioni, quando necessario, a terapia antalgica e terapie attive come la fisioterapia e la terapia in acqua. Se necessario, viene fornito anche supporto psicologico e di altri tipi. La struttura contempla anche la parte psicosomatica, staccata dalla principale, dove vengono curati e riabilitati pazienti affetti da problemi psicologici e relazionali – come depressione, ansia, attacchi di panico, lutti difficili da elaborare – considerati non sufficientemente gravi da giustificare un ricovero in psichiatria.

    [3] Adesso, con la vecchiaia e gli eventi successi, ho imparato a essere solo cautamente ottimista e più che altro fiduciosa nella vita, che è una condizione ancora più importante e profonda dell’ottimismo. Se infatti l’ottimista pensa Andrà tutto bene, chi ha fiducia nella vita pensa Se anche qualcosa andrà male, da qualche parte troverò, o troveremo, le risorse per raddrizzarla e sarà la vita stessa a mostrarcele o a far sì che le sviluppiamo. Alla luce dei miei trascorsi personali devo dire non solo che questo pensiero mi appartiene sempre più, ma anche che mi ha salvato la vita.

    CAPITOLO 1

    IL PUNTO DI PARTENZA PER LA MEDICINA COERENTE

    Il mondo è tutto ciò che accade. (L. Wittgenstein)

    1.1 Introduzione

    Negli ultimi secoli la medicina ha fatto incredibili progressi. Questo è sotto gli occhi di tutti e sicuramente tutti ne stiamo traendo giovamento.

    Si producono stent (1) sempre più affidabili, chip che danno impulsi nervosi in caso di lesioni del midollo spinale; la prostetica (2) e la robotica applicata alla medicina stanno facendo passi da gigante, per non parlare della tecnologia correlata alle cellule staminali. Ma se ci pensiamo bene, tutte queste novità riguardano gli aspetti chirurgici o ricostruttivi della medicina e quelli meccanici delle riparazioni in seguito a danni macroscopici.

    In un mondo a sempre maggiore spinta tecnologica, è importante scoprire i confini tra ciò che è riparabile dalla

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