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Odissea nel futuro: Ciclo: Odissea nel futuro
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Odissea nel futuro: Ciclo: Odissea nel futuro

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Fantascienza - romanzo (487 pagine) - Phil Scarlatti pensava che aderire al programma "Toward the Future" fosse solo un modo per togliersi dai guai con la legge. Non immaginava che stesse per essere proiettato in un’avventura incredibile.

La passione di Phil Scarlatti è scavare nel deep web, trovare pagine dimenticate navigando nel tempo in decenni di documenti elettronici. Finché un giorno questa curiosità non lo mette nei guai: legge qualcosa che non deve leggere e le autorità lo arrestano. Gli viene data una scelta: restare in galera o aderire al programma Toward the Future: essere ibernato per qualche decennio, e poi tornare libero. Phil aderisce: ma quando si risveglia capisce subito che qualcosa non è andato come doveva andare. Non è dove si aspettava. E soprattutto non è quando si aspettava. Cercando di tornare a casa, di città in città e di avventura in avventura, come un Ulisse del lontano futuro, Phil scoprirà che l'umanità è regredita, ma non del tutto: qualcosa della vecchia civiltà è sopravvissuto, e mette in pericolo il futuro del genere umano.

Nato a Palermo ma residente a Milano, Piero Schiavo Campo, laureato in astrofisica, insegna teoria e tecnica dei nuovi media all'Università di Milano Bicocca. Collabora con Robot e ha un blog personale, The Twittering Machine, dove pubblica racconti e brevi saggi scientifici. Ha vinto il Premio Urania nel 2013 con L'uomo a un grado kelvin e nel 2017 con Il sigillo del serpente piumato. Nel 2017 ha vinto anche il Premio Robot.
LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 21, 2017
ISBN9788825404098
Odissea nel futuro: Ciclo: Odissea nel futuro

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    Book preview

    Odissea nel futuro - Piero Schiavo Campo

    9788825401882

    Antefatto

    1.

    Nel 2041 fui accusato dalle autorità europee di avere effettuato un accesso illegale a dei dati riservati. In realtà stavo solo giocando a WebArcheologist, un gioco sociale il cui scopo era recuperare reperti del passato dal Deep Web. Valeva tutto, dai siti di aziende morte a blog sprofondati nell’oblio, purché non fossero raggiungibili dai motori di ricerca. Il punteggio teneva conto dell’età delle informazioni raggiunte, delle dimensioni in terabyte, dell’interesse intrinseco e di un sacco di altre cose. Era stato Andrea, il mio più grande amico virtuale, che mi aveva invitato a partecipare.

    Non ho idea di come fosse Andrea fisicamente. Non so neppure se si chiamasse davvero Andrea. C’eravamo conosciuti in una social network, avevamo gusti simili, e lui era un maestro di giochi online. Su WebArcheologist era in lizza per la vittoria finale. Era riuscito a ricostruire un portale del 1997 creato dalla Internet Facile srl, una società defunta da chissà quanti anni. Da bravo archeologo del Web aveva ricostruito i link ormai perduti, come fili che pendevano inerti da ogni parte, facendoli puntare alle pagine corrette del Deep Web (se esistevano ancora); altrimenti li indirizzava verso un sito costruito da lui, che forniva informazioni sui probabili contenuti. Un lavoro di pazienza straordinario: nel navigarlo sembrava davvero di tornare alla fine del secolo scorso. Si potevano trovare informazioni su una cosa che veniva chiamata millennium bug, o sulla struttura canonica di un sistema di knowledge management. Faceva un po’ ridere, ma a quei tempi si occupavano di cose così. Fu molto contrariato quando la giuria lo squalificò per avere inserito un collegamento che risaliva al 2019. Uno sbaglio. Un solo collegamento errato in un lavoro durato mesi.

    Andrea fece ricorso. Ci fu un pubblico dibattito sul Web, durante il quale il mio amico sostenne la sua causa con vigore. Il moderatore aveva scelto come nickname Minosse. Discussero per un po’, ma alla fine l’assemblea diede ragione a Minosse: nessuno voleva correre il rischio di essere bannato dal gioco. Andrea s’infuriò e cancellò il suo account, poi mi mandò un messaggio privato con allegato l’elenco di tutti gli indirizzi deep che aveva trovato: un’autentica miniera d’oro.

    Cominciai subito un’affascinante esplorazione di quel mondo perduto. Mi sembrava incredibile che degli esseri umani si trovassero a loro agio in quel guazzabuglio caotico che era il Web dei primi del secolo. Più di metà dei collegamenti puntava a roba porno, tutta di pessima qualità. C’è sempre una certa ingenuità quasi poetica nel porno vintage: immagini sgranate, nessun effetto tridimensionale, nessun controllo dei punti di vista, nessuna possibilità di modificare l’aspetto delle modelle. Ne guardai un paio, poi istruii un agente perché me li segnalasse in anticipo in modo da evitarli. A parte l’interesse antropologico della cosa, il regolamento del gioco vietava in modo esplicito l’utilizzo di materiale osceno.

    Molti collegamenti puntavano a frammenti ancora in linea di antiche social network. Ero stupefatto dai meccanismi partecipativi di quegli ambienti sociali preistorici. Ciascuno postava quello che voleva, senza nessun ordine. Anziché discussioni con qualche senso logico, erano per lo più frammenti di puro solipsismo. Sembrava che postassero per se stessi e basta, per il gusto di potersi dire che erano capaci di farlo. O forse serviva loro come strumento di promozione personale? La cosa che mi sembrava assurda era che usassero le reti sociali senza avere la possibilità di vedersi a vicenda. Dove stava l’interattività? Utilizzavano un meccanismo che chiamavano chat: una cosa a metà tra l’antico telefono e la posta, ma loro ne erano entusiasti.

    Un giorno capitai su un sito del 2012 in cui c’erano dei collegamenti dai nomi strani, come nemeisi, erosiasi, equiparesi… non capivo cosa volessero dire e cominciai a seguirli. Fui molto stupito quando mi accorsi che erosiasi dava accesso a un altro sito che sembrava essere stato messo in linea nel 2020. Era come fare un viaggio nel futuro! Siccome non avevo idea di quello che mi attendeva, non lo presi come una profezia ma come una semplice curiosità. Il sito del 2020 puntava a sua volta verso un sito del 2025. Per farla breve, seguendo quella strana catena mi ritrovai in una stanza riservata del Ministero della Difesa dell’Unione. Prima che avessi il tempo di fare marcia indietro, l’agente di controllo aveva già bloccato il mio profilo sulla rete. Un paio di ore dopo sentii suonare alla porta, andai ad aprire e mi trovai di fronte due funzionari che mi chiesero di seguirli fino al più vicino posto di polizia.

    Dopo un’attesa interminabile fui condotto al cospetto di un personaggio di cui ignoravo il rango. Era un uomo basso, corpulento, con gli occhi sempre socchiusi; questo difetto fisico doveva servirgli per mettere sotto pressione i delinquenti, ma a me non fece nessuna impressione. Gli dissi che ero capitato in quel sito per caso. Lui mi fissò con disgusto, come se puzzassi, poi mi spiegò che avevo commesso un reato informatico, che non c’era modo di evitare un processo e che il computer giudice mi avrebbe affibbiato almeno due anni di rieducazione. Una catastrofe! Nei successivi settecentotrenta giorni della mia vita avrei dovuto connettermi per due ore al giorno al sito del ministero della giustizia, e accedere a una stanza speciale dove, insieme con altri criminali come me, avrei ascoltato l’opinione di sociologi e giuristi, su perché violare i meccanismi di protezione della rete è socialmente e moralmente sbagliato. Volendo avrei potuto parlare in privato con uno degli psicologi del ministero, spiegandogli come mai sentivo una pulsione incontrollabile verso l’illegalità. La sola idea mi faceva venire i conati di vomito. A un certo punto, però, il funzionario mi fece intravvedere una possibile soluzione.

    – Lei potrebbe evitare tutto questo, se aderisse al progetto Toward the Future.

    Lo guardai come se mi avesse proposto una missione su Marte.

    – Vedo che non sa che cos’è. In effetti, è un progetto molto recente a cui per ora non è stata data pubblicità. Come certamente sa, tutti i governi del mondo sono impegnati in una vasta campagna per il controllo demografico. In questo momento sul pianeta siamo quasi otto miliardi. La vita media è in costante aumento. I prodotti della Terra si esauriscono verso la fine di luglio di ogni anno; da quel momento in poi siamo costretti a utilizzare risorse non rinnovabili, impoverendo il pianeta. Il trattato di Praga ha fissato un obiettivo per tutti gli stati firmatari: fare in modo che nell’arco dei prossimi cento anni l’umanità si riduca a un massimo di quattro miliardi d’individui. Non è un obiettivo irrealizzabile, e ogni paese contribuisce secondo le proprie inclinazioni, alcuni con sovvenzioni per le coppie che non hanno figli, altri con pene che arrivano fino al carcere duro per chi decide di prolificare senza autorizzazione. Tuttavia c’è un problema che accomuna tutti: ci attende un secolo in cui la popolazione anziana tenderà a crescere. È inutile che le spieghi gli inconvenienti che ne deriveranno. È stato calcolato che, se tutto andrà come nei piani di Praga, nel 2099 ogni trentenne dovrà mantenere quattro persone sopra gli ottant’anni.

    – Come si può fare? – Gli chiesi. – L’unica sarebbe sopprimerli quando arrivano a settantacinque.

    Il funzionario non modificò la sua espressione, e per un attimo sospettai che quest’idea fosse stata davvero presa in considerazione.

    – Nessun governo accetterebbe di assumersi una simile responsabilità. Per questo è stato lanciato il progetto Toward the Future. In sostanza l’idea è ibernare un certo numero di giovani, facendo in modo che si risveglino in un arco temporale che va da qui a un secolo. Questo permetterà di ridistribuire in parte la popolazione nei prossimi anni, diminuendo la gravità della crisi che ci attende.

    Rimasi senza parole. Mi sembrava un’idea perversa, priva di qualsiasi giustificazione etica.

    – Mi sta dicendo che invece di mettere i criminali in galera li spedite nel futuro?

    – Non sono tutti criminali. Abbiamo diversi volontari. Ci sono anche persone condannate per reati minori, come lei per esempio; non si tratta in nessun caso di reati gravi come omicidio, stupro o rapina. Molti sono ragazzi e ragazze che non hanno ancora un mondo di affetti stabile, oppure che possono rinunciare a quello che hanno. Magari sono semplicemente curiosi di sapere come sarà il futuro. Tenga conto che viene data loro una generosa dotazione pecuniaria. Qui in Europa, ad esempio, nel momento in cui una persona accetta di far parte del progetto gli viene aperto un conto garantito dalla BCE con ventimila euro. I soldi si rivalutano. Se il volontario accetta di essere ibernato per un periodo lungo, diciamo cinquant’anni, potrebbe anche svegliarsi milionario.

    Potrebbe anche svegliarsi con un mucchio di carta straccia in banca, pensai, ma non glielo dissi, perché l’idea cominciava a sembrarmi interessante. La mia fidanzata mi aveva appena lasciato. Mio padre si era trasferito in Canada quando io avevo cinque anni, e non si era più fatto vedere. Mia madre soffriva di Alzheimer in fase avanzata, non riconosceva più nessuno ed era ospite fissa di una casa di cura, dove infermieri professionisti badavano a tutte le sue necessità. Non avevo fratelli o sorelle. Di amici ne avevo sempre avuti pochi. Insomma, a pensarci bene mi sembrava di essere il soggetto ideale per Toward the Future. Avrei lasciato un lavoro massacrante e poco remunerato per ritrovarmi (chissà?) a essere una specie di celebrità del futuro. Feci finta di tergiversare, ma in realtà avevo già deciso che l’ibernazione era meglio della rieducazione.

    Fui sottoposto a una serie interminabile di esami medici, che superai brillantemente. Una volta dichiarato fisicamente idoneo, dovetti subire un interrogatorio di terzo grado da parte di una terna di psicologi. Agivano per vie traverse. Ti facevano vedere macchie colorate, frecce che andavano in tutte le direzioni, linee che s’incrociavano, e tu dovevi dire loro che cosa vedevi in quei guazzabugli privi di senso. Risposi a caso. Solo dopo venni a sapere che era proprio quello che avrei dovuto fare. Quando il mio amico funzionario esaminò i risultati, corrugò la fronte, mi fissò negli occhi e mi fece degli strani complimenti.

    – Sembra che lei abbia un quoziente di capacità logiche sbalorditivo. Come mai non ha pensato di intraprendere una carriera manageriale?

    – Ma è esattamente quello che ho fatto – gli risposi. – Altrimenti, perché farei lo scout per Amazon?

    – Che cosa sarebbe uno scout di Amazon?

    Incredibile l’ignoranza della gente. Lo fissai di sbieco, prima di rispondergli.

    – Immagino che lei sappia che cos’è Amazon…

    – Certamente – mi rispose.

    – Bene. Sono circa quarant’anni che su Amazon si accumulano libri di ogni genere: pubblicati da case editrici, auto pubblicati, fatti pubblicare dai parenti degli autori, dai loro amici, dagli eredi… La pubblicazione non costa quasi niente. I libri vengono messi in linea, e rimangono lì. Ad Amazon conviene, perché sfrutta la coda lunga.

    Per un attimo gli occhi gli tornarono di dimensioni normali.

    – Che cos’è la coda lunga?

    – Anche se un libro vende una copia l’anno, in quarant’anni ha venduto quaranta copie. E i libri sono così tanti che alla fine il volume totale delle vendite è enorme. Sto parlando di circa centottanta milioni di volumi, secondo le ultime stime.

    – Ma nessuno può trovare quello che cerca in mezzo a centottanta milioni di volumi…

    – È proprio a questo che servono gli scout. Noi andiamo in giro per Amazon. Giriamo pagine, pagine e pagine fino ad arrivare dove nessuno era mai stato prima, almeno a memoria d’uomo. Quando siamo certi di trovarci in una regione inesplorata, cominciamo a scaricare i libri e a leggerli. Di solito sono orribili, ma ce n’è qualcuno interessante, qualcun altro buono o addirittura ottimo. Allora lo segnaliamo al sito, che ci paga per questo servizio.

    Mi fissò come se non avesse capito bene.

    Il computer che gestiva il progetto mi assegnò un salto di quarantasette anni: mi sarei risvegliato nel 2088. Parlai con alcuni membri del comitato tecnico di Toward the Future. I loro avatar erano studiati in modo da trasmettere una sensazione di serenità e competenza, qualcosa a metà tra un vicino di casa premuroso e il professore che tutti avremmo voluto avere al liceo. Il futurologo del gruppo mi fece un’ampia panoramica su quello che potevo aspettarmi. Colonie sui satelliti di Giove; l’umanità ridotta a sei miliardi d’individui, come all’inizio del secolo; meccanismi di potere del tutto trasparenti, secondo quanto stabilito dalla Direttiva quattordici del trattato di Praga; tutte le cariche pubbliche rese elettive; educazione sociale dei bambini fin dalle scuole materne; controllo pubblico sui contenuti mediatici. Un mondo di sogno. Chiesi loro qualche dettaglio sull’ibernazione. Erano anni che se ne parlava, tutti sapevamo che la cosa era ormai possibile e anche perfettamente sicura, ma preferivo avere qualche informazione in più. L’avatar del medico si profuse in sorrisi.

    – Si tratta di un procedimento chimico, ragazzo. Ti sarà iniettato nelle vene un cocktail di sostanze che rallenterà tutti i tuoi processi biologici. Quando ti sveglierai, saranno passati quarantasette anni sul calendario, ma solo pochi mesi per il tuo organismo. Il processo consente anche di eliminare qualsiasi batterio o virus dannoso. Tutti i test effettuati hanno dato risultati positivi: non ci sono rischi.

    Insomma, una pacchia.

    Venne il giorno della partenza. M’imbarcarono su un aereo, che in otto ore di volo mi portò fino alla sede del laboratorio internazionale che ospitava il progetto. Toward the Future era nato a seguito di un accordo sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo. I massimi sponsor erano l’Europa, la Cina, gli Stati Uniti e la Russia, e come sede operativa era stata scelta una zona desertica della Mongolia meridionale. I viaggi brevi potevano essere organizzati anche in altri laboratori, ma il mio era considerato tra i più lunghi possibili a quell’epoca.

    Il laboratorio era un grande edificio dipinto in un elegante grigio antracite, con sottili strisce azzurre diagonali. Tutto intorno era nato un piccolo villaggio dotato di un aeroporto, diversi spacci alimentari, un centro commerciale e perfino uno stadio. Era stata costruita una strada a quattro corsie (del tutto inutile, a mio parere) che connetteva Future Town con il villaggio di Zamyn-Uud, a una decina di chilometri di distanza. Da lì passava la ferrovia transmongolica; il confine era a un tiro di schioppo, e la città cinese di Erenhot era connessa direttamente a Pechino da una delle autostrade migliori di tutta la Cina. Insomma: un posto comodo ma appartato, ideale per un centro sperimentale.

    Prima di entrare feci in tempo a gettare un’ultima occhiata circolare alla desolazione che mi circondava: un altopiano desertico, dove qualche pastore mongolo faceva scorrazzare le sue bestie, in modo che potessero divorare le poche piante basse che crescevano spontanee. L’interno del laboratorio, invece, sembrava un’astronave del tipo di quelle dei film olografici: tecnici in camice bianco, macchine indecifrabili, suoni modulati che nascevano e si spegnevano intorno a me. Mi portarono fino a una stanza illuminata solo dai led, dove fui spogliato, misurato, controllato in tutti i modi possibili. Alla fine fui condotto in una saletta dove c’era un letto coperto da un cilindro trasparente, connesso attraverso cavi a diverse apparecchiature. Mi fu messo al polso un computer portatile di ultima generazione. Mi sarebbe servito, dicevano, per entrare subito in contatto con la rete del futuro, ma il suo scopo era anche quello di monitorare continuamente la situazione del mio organismo, mentre mi trovavo in stato di vita sospesa. Non dovevo preoccuparmi di nulla, tutto era sotto controllo. Finalmente mi stesi, e la copertura trasparente si chiuse su di me. Mi dissero che sarebbe passata circa mezz’ora, prima che le macchine entrassero in funzione. Mi avrebbero fatto per prima cosa uno scan, ma nessuno sentì il bisogno di spiegarmi esattamente che cosa fosse, né perché fosse necessario. In ogni caso, avevo giusto il tempo per fare amicizia con il mio nuovo computer.

    – Come ti chiami? – gli chiesi.

    – Mi hanno assegnato una sigla: SZ4917, ma non pretendo che tu la usi. Noi computer di ultima generazione abbiamo l’abitudine di farci assegnare un nome dai nostri proprietari. Come vuoi chiamarmi?

    – Non lo so – risposi. – Che strana domanda. Ti chiamerò Andrea.

    – Come mai proprio Andrea?

    – Ho le mie ragioni – gli dissi. – Come farai a restare in funzione per tutto questo tempo? Come sei alimentato?

    – Finché saremo qui dentro userò gli alimentatori della capsula del tempo, poi userò la luce dell’ambiente. Dispongo di batterie solari di nuova concezione. Sono molto piccole e non richiedono manutenzione. Del resto, consumo pochissimo.

    Chiacchierammo un po’ del più e del meno, mentre i tecnici verificavano che i macchinari fossero a punto, e che lo scan, qualunque cosa fosse, potesse cominciare. Non ero per nulla preoccupato, ma Andrea sentì il bisogno di rassicurarmi.

    – La tecnologia dell’ibernazione è del tutto sicura. Penso che tu lo sappia. Non corri nessun rischio.

    – Sei il secondo che me lo dice. Se pensassi di correre dei rischi non avrei accettato di farmi infilare in questo sarcofago trasparente, non ti pare?

    – Scusami, ma mi hanno chiesto di farti sentire a tuo agio. In fin dei conti, non è un salto semplice quello che stai per fare.

    – Tu che cosa ne sai? – Gli chiesi. – Faranno entrare anche te in ibernazione?

    – Non pretenderai che resti attivo per quarantasette anni senza avere nulla da fare! Il mio sistema operativo entrerà nello stato di minima attività. Il monitoraggio dei tuoi parametri vitali sarà l’unica cosa che farò, mentre tutti i miei processi superiori saranno disattivati. In un certo senso sarò ibernato anch’io. Ma tu non devi preoccuparti: se ci fossero problemi, basterà il suono della tua voce per riattivarmi completamente.

    Bene, pensai. È bello avere un compagno di viaggio. Lo scan doveva essere cominciato, perché intorno alla mia testa vedevo muoversi lentamente una specie di piastra nera, sorretta da quattro braccia di metallo lucido. L’operazione durò almeno mezz’ora, finché sentii una voce robotica lontana, come se fosse l’eco di un altoparlante che risuonava nella sala, oltre la copertura di vetro:

    – Dieci secondi al termine della rilevazione. Nove. Otto…

    Immense pianure su cui soffia il vento. Le nuvole passano veloci, sempre diverse, sempre uguali. L’esercito è schierato, attende solo il suono della tromba. Ci mettiamo in marcia. Percorreremo distanze infinite. Berremo l’acqua dei fonti. Rideremo intorno ai fuochi, mentre le stelle brilleranno fredde su di noi. La vita e la morte ci attendono al passaggio: che tu possa trovare la pace, là dove finisce il sentiero della guerra. Attraverserai silenzi e grida, deserti di polvere e giardini notturni. Verrà il sole a scaldarti, perché qui c’è solo buio, come in un’antica chiesa in rovina.

    Svegliarsi fu come emergere dalle profondità di una fossa oceanica. Il sonno mi circondava, era dentro di me, ma insieme al sonno si faceva strada la consapevolezza di uno stato alternativo possibile: un barlume di auto coscienza, come la superficie di un mare increspato delle onde, alto sopra la mia testa. Ero immerso una penombra da cui sembravano emergere strani archi neri, lontani. La tenue luminosità che mi permetteva di vedere qualcosa sgorgava dall’alto, da qualche punto fuori dalla mia visuale. Ero steso su una specie di piattaforma, e sopra la mia testa incombeva una macchina di cui non capivo lo scopo: un sarcofago rovesciato sostenuto da cavi d’acciaio, come lo stampo di una forma umana, al cui interno vedevo brillare dei punti luminosi.

    Mi chiamo Filippo Pietro Scarlatti, ma tutti mi chiamano Philip. Ho ventidue anni. Sono nato a Varese, ma vivo a Milano. Mi trovo all’interno di un laboratorio. Perché? Certo, sono stato ibernato. Chi mi ha ibernato, quando e come? Sono malato? No, ho accettato di fare da cavia per un progetto che si chiama Toward the Future…

    Impiegai diversi minuti perché tutti i dettagli della situazione in cui mi trovavo mi tornassero in mente. Fu solo a quel punto che mi ricordai del mio computer da polso.

    – Andrea!

    La mia voce era flebile, più un sussurro che un grido. Sperai che bastasse per riattivare il meccanismo. Dopo qualche secondo, finalmente lo sentii.

    – Sono qui, Phil, sono sveglio.

    – Secondo te, perché mi hanno spostato dalla capsula del tempo? Che cos’è quella specie di uomo a rovescio sopra la piattaforma?

    – Non ne ho idea, Phil.

    – Perché qui è così buio? Mi aspettavo che ci fossero i tecnici di Toward the Future a controllare che tutto andasse bene…

    – Ne so quanto te. Non ricevo nessun segnale dalla rete. Può darsi però che i protocolli siano cambiati. Aspetta che faccio una verifica.

    Riuscii a sollevarmi e mi rizzai in piedi. I miei muscoli erano intorpiditi ma tutto sommato non stavo male, per avere dormito cinquant’anni. Ero in una sala bassa, rettangolare, come un’enorme galleria. Sopra di me c’era una volta a botte verso cui confluivano gli archi di pietra che mi erano apparsi tra veglia e sogno. Ogni arco era affiancato da due sottili feritoie, nel punto in cui il soffitto cominciava a curvarsi. Era da quelle feritoie che proveniva la tenue luce che illuminava l’ambiente. Non c’era nessuno in giro. Tutto era morto, polveroso. Osservai il mio corpo. Indossavo una tuta azzurra, traslucida, fatta di un materiale che non avevo mai visto. Ai piedi portavo calzature simili a sandali, fatti di fibbie nere intrecciate tra loro. Non c’era uno specchio, e non potevo sapere se quel completo del futuro mi stesse bene, ma la tuta era senz’altro efficiente: non sentivo né caldo né freddo.

    – Phil? – La voce di Andrea mi arrivava sommessa.

    – Sì – gli risposi.

    – Ci sei, Phil?

    – Certo che ci sono. Dove volevi che andassi?

    – Phil, non ci sono buone notizie.

    – Che cosa è successo? La terza guerra mondiale?

    – Questo non te lo so dire. Phil, il mio orologio interno mi segnala un errore temporale.

    – Che cosa intendi dire, esattamente?

    – Intendo dire che sembra che sia passato più tempo del previsto.

    – Davvero? In che anno siamo?

    – Secondo i miei dati, dovremmo essere nel 2542.

    Le distese dell’Asia

    2.

    Ci misi un po’ prima di capire che cosa mi stava dicendo. Erano passati più di cinquecento anni. Cinquecento anni! Io vengo dal 2041. Cinquecento anni prima era il 1541. Nel Mediterraneo orientale la Serenissima Repubblica Veneta era impegnata nello scontro con i turchi, ma la battaglia di Lepanto non era ancora stata combattuta. Una ventina di anni prima, Martin Lutero aveva affisso le sue tesi alla porta della chiesa di Wittenberg. Due anni dopo sarebbe stato pubblicato il De Revolutionibus di Copernico. Cinquecento anni. Un tempo inconcepibile.

    – Come diavolo è possibile che abbia dormito per cinquecento anni? La tecnologia dell’ibernazione chimica non permette salti nel tempo più lunghi di una cinquantina d’anni… che cosa credi che sia successo?

    Ci fu una pausa, come se Andrea stesse raccogliendo le idee prima di darmi una risposta.

    – Ascolta, Phil. Forse c’è qualcosa che non ti hanno detto.

    – Bene! – esclamai. – E che cosa sarebbe?

    – Ti ricordi che subito prima di ibernarti ti hanno sottoposto a uno scan?

    – Me lo ricordo. Mi ricordo anche che non mi hanno spiegato a che cosa servisse.

    – Si trattava una scansione completa del connettoma del tuo cervello.

    – Che cos’è un connettoma?

    – Rappresenta lo stato completo delle tue connessioni sinaptiche. In sostanza è una mappa della tua mente.

    – Perché me lo dici così, come se fosse una cosa brutta?

    – Non è una cosa bella. Voglio dire: non è stato del tutto corretto non informarti. Il problema è che un salto di quarantasette anni era al limite delle possibilità tecnologiche della tua epoca. Forse perfino un po’ oltre il limite. Così hanno mappato gli aspetti rilevanti del tuo corpo, inclusa la struttura cerebrale, perché fosse possibile, in caso di fallimento, ricostruirti nel futuro. Anche se i macchinari necessari non erano ancora pronti.

    – Vuoi dire che mi hanno usato per un esperimento?

    – In un certo senso è così, Phil.

    – Un esperimento di cui non sapevano se sarebbe andato a buon fine?

    – Beh, sicuramente speravano che andasse a buon fine.

    – E tu lo sapevi?

    – Sì, Phil, lo sapevo.

    – E non mi hai detto niente?

    – Sono solo una mente artificiale. Che cosa pretendi da me, che prenda iniziative come se fossi un tuo amico vero? Del resto, c’eravamo appena conosciuti. Non era previsto dai miei algoritmi che ti dicessi più di quello che dovevi sapere.

    – E perché me lo dici adesso?

    – Credo che la situazione sia cambiata. Penso che tu abbia diritto di conoscere come stanno le cose. Cinquecento anni d’ibernazione sono troppi, non sarebbero possibili. L’unica spiegazione è che tu sia stato ricostruito a partire dal tuo genoma, e dal connettoma che i tecnici di Toward the Future hanno mappato subito prima di addormentarti.

    Quella faccenda aveva diverse implicazioni, sulle quali avrei dovuto riflettere a lungo. In quel momento non ci riuscivo: ero troppo arrabbiato.

    – Come hanno fatto a ricostruirmi?

    – Questo non lo so. Ti ho già detto che la tecnologia necessaria non era ancora disponibile alla nostra epoca, e anch’io, come te, ho dormito per tutto questo tempo. Forse la struttura che sembra lo stampo di un uomo serve proprio a questo.

    Esaminai di nuovo l’ambiente in cui mi trovavo. Non riuscivo a credere a quello che il mio computer mi stava dicendo.

    – Sei in grado di portarmi fino alla capsula del tempo dove mi hanno addormentato?

    – Non credo, Phil. La struttura dell’edificio è completamente diversa da come la ricordo. Non sono neppure sicuro che si tratti dello stesso complesso in cui sei stato ibernato.

    – Sei almeno in grado di capire dove mi trovo? Siamo ancora in Mongolia? Non c’è un GPS attivo, o qualcosa di simile?

    – Non lo so, Phil. Se c’è, è roba del futuro, basata su tecnologie che non conosco.

    Era inutile fare altre domande: Andrea non poteva aiutarmi. Tanto valeva esplorare il posto.

    Scesi dalla piattaforma, e mi avviai lungo quella sala che sembrava il ventre della balena di Giona. Camminavo lentamente, guardandomi in giro. Il pavimento era coperto di detriti. Sulla volta si vedevano diversi punti in cui l’intonaco aveva ceduto, scoprendo una trama di mattoni rossastri. La sala era del tutto priva di arredi. A intervalli regolari si ergevano dei cubi neri, alti circa come me. Ne toccai uno. Sembrava metallo anodizzato, in parte corroso. Non c’erano aperture visibili. Colpendolo con le nocche restituiva un suono secco, senza echi. C’erano quattro corridoi che partivano dalla sala. Erano stretti, illuminati solo dalle fenditure sul soffitto. Intorno a me avvertivo un odore stantio: l’odore di una cripta.

    – Andrea, questo posto non mi piace.

    – Neanche a me – rispose il computer. Confesso che la risposta mi stupì.

    – Ma tu ci vedi?

    – Certo che ci vedo. Che domande! La mia nano-camera è in perfetta efficienza, e il software di controllo è in grado di orientarla dove voglio, anche se tu muovi il braccio. Ti pregherei soltanto di evitare di coprirmi con una manica. Ammesso che, prima o poi, qualcuno ti dia un vestito con le maniche.

    – Ci deve essere un’uscita, da qualche parte.

    Non ci volle molto per esplorare l’edificio. C’erano altre quattro sale, oltre a quella in cui mi ero svegliato, connesse da corridoi lunghi e stretti. Tutte le sale contenevano cubi neri, ma a parte quelli non c’era nulla se non detriti e sentore di morte. Uno dei corridoi si apriva a metà in un vestibolo completamente vuoto, che dava su una porta alta quanto l’intera struttura. La porta era spalancata: un riquadro abbagliante aperto sulla steppa.

    All’esterno la luce morbida del tramonto mi ferì per un attimo lo sguardo. Il villaggio di Toward the Future non esisteva più. C’era solo l’edificio massiccio, nero, senza finestre, dentro cui mi ero svegliato: un parallelepipedo che s’innalzava diritto per una decina di metri, solcato da costoloni verticali e sormontato da pinnacoli in parte diroccati. L’autostrada a quattro corsie che portava in Cina era diventata un sentiero di pietre malmesse. Al posto del piccolo aeroporto c’era una rozza costruzione di legno, intorno alla quale pascolavano delle pecore. Si vedeva anche un orto, o qualcosa di simile.

    – Andrea, sai dirmi esattamente che giorno è?

    – Oggi è il venti di aprile del 2542. Per la precisione, sono le 18.45.

    In mezzo alla steppa la notte sarebbe stata gelata. Mi avviai verso la fattoria, o qualunque cosa fosse. C’era un’aia con una decina di galline ruspanti e un grosso maiale, che mi osservò per un attimo con occhi piccoli e cattivi prima di tornare a occuparsi dei suoi torsoli di mela. Bussai alla porta. Dopo circa un minuto di attesa, sulla soglia comparve una donna dai tratti asiatici, che poteva avere una cinquantina d’anni. Mi fissò con gli occhi sgranati, in attesa che prendessi la parola.

    – Buona sera, signora. Vengo dal centro di ricerca internazionale di Toward the Future. Sono stato ibernato. Dovevo svegliarmi circa quattrocentocinquanta anni fa, ma qualcosa non ha funzionato, ed eccomi qui.

    Le sorrisi, sperando che il mio inglese risultasse decifrabile. La donna taceva, e continuava a fissarmi.

    – Avrei bisogno che qualcuno mi dia una mano. Dovrei mettermi in contatto con le autorità europee, e anche, se è possibile, mangiare un boccone e trovare qualcosa per coprirmi meglio. Mi può aiutare?

    La donna non dava l’impressione di capire quello che le stavo dicendo. Emise un richiamo in una lingua incomprensibile. Nel giro di qualche secondo comparve un uomo di bassa statura. Si scambiarono un paio di frasi, dopo di che la donna rientrò in casa. L’uomo mi si rivolse nella sua lingua. Era chiaro che mi stava domandando qualcosa, ma non ero in grado di decifrare le sue parole.

    Parlez vous français? – gli chiesi. – ¿Usted abla español? Sprächen sie deutch?

    Se mi avesse risposto in un fluente tedesco sarei stato un po’ nei guai, lo confesso, ma almeno avrei stabilito un canale di comunicazione. Invece niente. Si limitò a fissarmi con gli occhi che sembravano due fessure. Provai con i gesti. In quanto italiano, il linguaggio gestuale fa parte delle mie premesse culturali. Aprii la bocca e la indicai con movimenti ritmici della mano, tenendo le dita tese e raccolte. Niente. A un tratto sentii la voce di Andrea.

    – Se smetti di agitarmi, forse riesco ad aiutarti. Parlano mongolo. Lascia fare a me,

    Dal mio computer cominciò a uscire un fiotto di suoni in quella lingua indecifrabile. L’uomo sgranò gli occhi, come se avesse visto un fantasma, poi fissò il mio braccio, da cui arrivava la voce dell’automa.

    – Ho l’impressione che non sia abituato ad avere a che fare con i computer, Phil. Temo di averlo spaventato.

    Eravamo in stallo. Sembrava non esserci modo di comunicare, e dopo più di cinquecento anni di sonno il mio stomaco reclamava di essere riempito in fretta.

    – Che cosa si sono detti prima lui e la signora?

    – Non sono sicuro della traduzione. Sono passati cinque secoli, e la lingua si è evoluta. Lei gli ha detto una frase che poteva significare: Chi è questo scalmanato? Oppure: Chi è questo straccione? Allora lui le ha risposto: Non lo so. Vai a chiamare l’esercito. Ma forse voleva dire: Vai a chiamare l’emissario di colui che ci dirige.

    Sperai con tutta la mia forza che quelli dell’esercito parlassero una lingua a me nota.

    L’attesa fu breve. L’uomo continuava a fissarmi, ed io avevo paura di far parlare Andrea al mio posto, vista la reazione che il mio quasi ospite aveva avuto nel sentirne la voce. A un certo punto si udì un suono confuso che proveniva dal punto in cui la strada sterrata, superata la casa, si dirigeva verso sud. Nel giro di poco comparve il più strano veicolo che avessi mai visto in vita mia. L’abitacolo era una specie di tinozza senza copertura, mossa da sei zampe che si articolavano come quelle di un insetto. La tinozza era formata da canne di bambù legate tra loro da corde di vimini. Le zampe erano di lunghezze diverse: quelle anteriori erano più corte di quelle centrali, che a loro volta erano più corte di quelle posteriori. Il risultato era che la tinozza era reclinata in avanti. Da un tubo di lamiera usciva un vapore denso e bianco, come se la macchina usasse un motore funzionante ad acqua calda. A bordo c’erano quattro personaggi che indossavano divise color grigio scuro: giacche strette, con due pince verticali sul davanti, chiuse da alamari di metallo dorato. Quando saltarono giù, abbandonando il veicolo, notai che portavano gonne dello stesso colore lunghe fino ai piedi. A vederli così, assomigliavano ai guerrieri di terracotta sepolti insieme al primo imperatore della Cina. A parte le pince, naturalmente. Erano tutti maschi, e condividevano i tratti asiatici degli abitanti della casa. Mi circondarono, imbracciando lunghi tubi neri che davano l’impressione di essere armi di qualche tipo. Alzai le mani, in un gesto che speravo avesse conservato il suo significato, nel corso dei secoli.

    – Ragazzi, mettete giù quegli affari, qualunque cosa siano. Non ho intenzione di fare casino. Sono qui per caso. Sono stato ibernato, ma mi sono svegliato più tardi del previsto.

    La loro espressione diceva che non avevano capito una parola.

    – Forse è il caso che traduca loro quello che hai detto, Phil. Corriamo un rischio, ma a questo punto sarà bene farsi capire. Però non so come si dica casino in mongolo. Nel mio database non c’è. Riesci a trovare un altro termine?

    Non ebbi tempo di rispondere ad Andrea. Uno dei quattro si accigliò, mi afferrò il polso, osservò per un attimo il mio computer poi slacciò la fibbia e requisì la preziosa apparecchiatura, facendosela scivolare in una tasca della gonna. Ero nelle mani dei mongoli, e senza interprete! Fui spinto con decisione verso il veicolo. I colpi che mi davano sulla schiena con i loro tubi di metallo mi fecero capire che dovevo salire a bordo, cosa che mi affrettai a fare. Non mi diedero neppure il tempo di salutare i due cordiali personaggi che mi avevano accolto nella casa di legno. Sbuffando, il veicolo si rizzò sulle zampe e riprese il cammino da cui era venuto.

    L’esapode dei mongoli del futuro impiegò un quarto d’ora per raggiungere un villaggio composto di una ventina di casette di cemento che circondavano un edificio grigio a un solo piano. Vista la direzione che aveva preso, doveva trattarsi di Zamyn-Uud: ai miei tempi era l’unico centro abitato nella regione entro un raggio di molte decine di chilometri. Zamyn-Uud era oltre il confine cinese; tuttavia non incontrammo posti di blocco o altri segnali del fatto che avessimo attraversato una frontiera.

    Il posto era stato parzialmente piantumato, e anche lì razzolavano polli e maiali in totale autonomia. C’era anche una striscia di terra coltivata, su cui crescevano vegetali che mi parvero cavoli. I quattro mi fecero scendere e, strattonandomi, mi condussero all’interno dell’edificio grigio. Mi fecero scendere lungo una scala di cemento, che terminava in un corridoio con porte di metallo su entrambi i lati. Fui gettato all’interno di un cubicolo di tre metri per tre, completamente spoglio a parte una specie di giaciglio di pietra senza materasso. Dopo che fui entrato, i quattro uscirono chiudendo la porta alle loro spalle. Dato che non si trattava certamente di una sala di attesa per gli ospiti, ne conclusi che fosse una cella.

    Per cinque giorni rimasi prigioniero in quel luogo orribile. La stanza era illuminata da una lampadina a incandescenza, che gettava intorno una luce deprimente. Non la spensero mai, e la prima notte feci fatica ad addormentarmi. Non c’erano finestre che permettessero di stabilire l’ora, e la porta non aveva aperture. Una volta al giorno compariva un personaggio con la gonna, che mi passava una caraffa di metallo colma d’acqua, e un piatto contenente una pappa grigia. La prima volta che lo fece, immaginai che si trattasse di cibo. Lo divorai, perché la mia fame non ammetteva indugi. Non so che cosa fosse: sapeva vagamente di verza lessa. Dal secondo giorno in poi il mio entusiasmo per la pappa grigia scese parecchio, ma me ne cibai perché in qualche modo dovevo nutrirmi.

    In quei cinque giorni ebbi il tempo di pormi delle domande, tutte senza risposta. Cosa diavolo poteva essere successo nel mondo? È vero che non ne avevo visto gran che, ma la sensazione era che la tecnologia fosse in grave ribasso. Il veicolo con cui mi avevano portato via era un attrezzo ansimante, palesemente privo di controlli elettronici, probabilmente spinto da un motore a legna e controllato da buffe leve. La gente teneva le galline a razzolare libere, e coltivava cavoli. Insomma, sembrava che il pianeta fosse regredito a un’epoca di almeno cent’anni precedente alla mia.

    Perché erano tutti asiatici? Non avevo visto un numero sufficiente di persone per giungere a una conclusione definitiva, ma nel villaggio di Zamyn-Uud non avevo notato né un europeo né un nero. Venivo da un’epoca in cui l’integrazione razziale era molto spinta. La maggior parte degli otto miliardi di abitanti del pianeta aveva metabolizzato il concetto secondo cui le razze umane non esistono, sono soltanto un buffo accidente fenotipico che esaspera piccolissime differenze genetiche. Esistevano ancora, naturalmente, differenze culturali. Tuttavia era chiaro che si poteva essere perfettamente british e neri come il carbone, oppure del tutto cinesi pur essendo biondi e con gli occhi azzurri.

    Avrei potuto ottenere delle risposte andando su Internet, o sul suo equivalente del futuro, ma non c’era nulla da quelle parti che assomigliasse a un computer. In tutta la mia vita non avevo trascorso neppure un giorno senza connettermi alla rete, e l’assenza di terminali di qualsiasi tipo mi faceva sentire come uno a cui venga tolto l’ossigeno per respirare. Se almeno mi avessero lasciato Andrea! Mi domandavo cosa se ne facessero. Speravo che il mio computer da polso avesse abbastanza spirito d’iniziativa da convincerli a farsi restituire al suo legittimo proprietario.

    La domanda più critica, naturalmente, era chi mi aveva svegliato e come. L’idea di essere stato ricostruito sulla base di un genoma e di un connettoma, come l’aveva chiamato Andrea, portava con sé diversi interrogativi inquietanti. Potevo ancora considerarmi me stesso? La tecnologia necessaria era sbalorditiva. Ricostruire un individuo dal genoma, alla mia epoca, avrebbe richiesto creare un embrione e farlo crescere: un processo di anni. Eppure io ero lì, e la mia età non sembrava diversa da quella che avevo quando mi ero addormentato. Trasferire un genoma in un individuo già adulto avrebbe richiesto conoscenze inconcepibili, ma anche inconciliabili con lo stato di decadenza tecnologica del paese. Eppure nell’edificio in cui mi ero svegliato dovevano esserci, da qualche parte, le macchine necessarie. Ma chi le aveva attivate, e a quale scopo? Perché proprio in quel momento, e non cent’anni prima, oppure cent’anni dopo?

    Il quinto giorno me ne stavo disteso sul mio durissimo giaciglio, immerso in funesti pensieri, quando improvvisamente la porta si spalancò. Due personaggi con la gonna grigia mi afferrarono, mi strattonarono verso l’uscita e mi caricarono sul loro insetto semovente, che si mise in moto sbuffando con la sua andatura lenta e caracollante.

    3.

    Il viaggio durò diverse ore; non saprei dire quante, perché non avevo modo di misurare il tempo se non dallo spostamento apparente del sole. L’unica cosa che potevo stabilire era che ci muovevamo verso sud, e che la strada era ben segnata, pur essendo deserta. Il territorio era sempre una steppa arida. Mi capitò di vedere un paio di animali, grossi bovini lenti e gobbi, che ci ignorarono continuando a divorare un cespuglio. Da un certo punto in poi cominciarono ad apparire campi coltivati e fattorie. La strada divenne più larga, senza che il fondo migliorasse. Viaggiavamo in mezzo a enormi pozzanghere di fango da cui fuoriuscivano grosse pietre irregolari, buche e avvallamenti che l’insetto semovente superava ondeggiando in modo pauroso. Non capivo come facessi a non avere il mal di mare. Finalmente raggiungemmo una cittadina. Le case erano basse, sparse come se fossero sorte senza nessun progetto, e costruite con quell’orribile cemento non rifinito che sembrava essere il materiale edilizio del futuro. L’unica eccezione era un grande edificio scuro, in mezzo a una piazza circolare. La facciata era ornata da due colonne e da un frontone triangolare che gli dava un aspetto pretenzioso. L’esapode si fermò proprio davanti all’ingresso, e si piegò sulle zampe consentendo ai miei guardiani di afferrarmi per un braccio e trascinarmi fuori dalla tinozza.

    Fui trasportato attraverso innumerevoli corridoi, che si piegavano ad angolo retto secondo una logica difficile da comprendere, finché fui fatto accomodare in una stanza piuttosto ampia, dominata da una scrivania di metallo dietro la quale un asiatico dall’aspetto imponente mi osservava accigliato. Sulla scrivania, in bella vista, c’era il mio vecchio amico Andrea. Ero contento che fosse lì. Poteva esserci bisogno delle sue conoscenze linguistiche. E poi, devo ammetterlo, mi faceva piacere rivederlo. Non c’era modo di sedersi, per cui mi piazzai in piedi di fronte all’austero personaggio. Con una certa sorpresa, scoprii che parlava inglese, anche se in modo un po’ buffo.

    Io spiace per trattamento che tu ha subito. Tu incontrato solo guardie di terzo livello, milizia contadina. Purtroppo nostra gente un po’ diffidente di stranieri.

    – Non fa nulla – risposi. – Capisco che la mia presenza debba esservi sembrata strana.

    – Molto strana. Lei sembra essere emerso dal Palazzo del Sonno…

    Ritenni che il Palazzo del Sonno non potesse essere altro che il laboratorio di Toward the Future.

    – Sì, direi di sì. Per la precisione, sono rimasto in ibernazione per circa cinquecento anni. Senta, deve esserci stato un errore, non so spiegarmelo nemmeno io.

    L’uomo estrasse da un cassetto una cosa che sembrava un libro di carta, e cominciò a sfogliarlo in silenzio. Ero affascinato. Mi sembrava di essere finito in un film storico, di quelli che la televisione olografica della mia epoca non faceva che trasmettere. La consultazione durò parecchi minuti, prima che l’uomo tornasse a parlare.

    – Mi chiamo Fei-Ling, e sono un funzionario di quarto livello del Mondo Civile. Lei si trova nel villaggio di Sonid Youqi, che è il principale centro abitato di questa regione.

    S’interruppe per un attimo, fissandomi con espressione severa, poi riprese a parlare.

    – Quello che ci diremo deve essere inteso come riservato. Deve promettermi che non riferirà a nessuno i nostri discorsi.

    – Anche perché dovrei prima imparare il mongolo.

    L’uomo ignorò il mio commento.

    – Secondo le informazioni in nostro possesso, lei dovrebbe essere un certo Filippo Pietro Scarlatti, che fu ibernato nel 2041 e non si svegliò mai più.

    Messa in quei termini, la faccenda mi sembrava macabra.

    – Sono esattamente lui. Mi può dire che cosa è successo, da allora?

    – Dal 2041 a oggi? È passato un bel po’ di tempo. Cercherò di farle avere qualche testo di storia. Lei faceva parte di un progetto chiamato Toward the Future. È esatto?

    – Sì. Non mi chieda che fine hanno fatto

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