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Luoghisogni: Racconti
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Luoghisogni: Racconti
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Luoghisogni: Racconti

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About this ebook

"Luoghisogni" sono luoghi che creano sogni e sogni che creano luoghi.
Il libro raccoglie dodici racconti, tra il surreale, il fantastico e la fantascienza, che cercano di aprire prospettive illuminanti, a volte solo suggerite, a volte narrate in modo esplicito.
“Lo Spazio” e “Interstizi” cominciano la sequenza con una dichiarazione di intenti sulle motivazioni della scrittura e sul mistero del tempo, con frammenti di narrazione la cui logica dovrà essere ricostruita dal lettore.
“La casa dei leoni”, “La caccia morta”, “Il Re del bosco”, “Il Giardino di Aramax”, ci introducono in un mondo fantastico sempre più complesso e distante dalla realtà quotidiana: leoni di pietra misteriosi e inquietanti, spaventose avventure che segnano la vita per sempre, un re antico che aspetta di essere ucciso dal suo successore, un Giardino perfetto dove un narratore onnisciente con il suo narrare impedisce che la vita venga vissuta.      
“Alcune comunicazioni sulla MdT”, “La Torre Mistica”, “Amor…”, “E poi accadde”, “Eliche”, “Reciprocità” sono racconti di fantascienza più o meno classica che ci portano in mondi futuri dove tutto può accadere: un nuovo paradosso temporale in cui si spiega come mai la Macchina del Tempo un giorno fu inventata ma adesso non esiste più, indagini ultraterrene condotte da investigatori che sono anche medium tecnologici e virtuali, parole magiche che non possono essere pronunciate nel mondo futuro per evitarne il collasso, megacomputer alle prese con conflitti di personalità dalle conseguenze catastrofiche, una ipotesi sulle origini della vita e su imponderabili sviluppi possibili, scambi di personalità tra razze diverse.
Dodici racconti da leggere lentamente, con leggerezza, da gustare uno dopo l’altro, per perdersi nei “luoghisogni” e forse mai più ritrovarsi.
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2017
ISBN9788827520901
Luoghisogni: Racconti

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    Luoghisogni - Giandomenico Antonioli

    Giandomenico Antonioli

    Luoghisogni

    Racconti

    UUID: 2e1076ee-cf6c-11e7-a1ad-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Alla mia famiglia

    Lo Spazio

    Da qui si vede quasi tutta la valle. Tutte le sfumature possibili del verde, dal verdegiallo al verderosso al verdeviola. Quella che non vedo è una spiegazione. Una spiegazione a ciò che è scritto su questi fogli che ho in mano. Come possono dei fogli contenere la spiegazione di un uomo che si è volatilizzato nel nulla?

    Forse era vissuto per troppi anni a Milano. Milano, brutta città quella, io non ci vivrei nemmeno un’ora. Amo stare qui, amo questa valle che posso vedere tutti i giorni. E se non la vedo, la sento. Come può un uomo sparire così, lasciando moglie e figlia? Non avrebbe dovuto sposarsi.

    Io avvertivo un vento di morte che percorreva l’Italia, l’Europa e il mondo intero. E sentivo che stavo per essere dimenticato, sorpassato, obsoleto come la mia vecchia macchina da scrivere. Sulla riva del mare leggevo gialli di Agatha Christie, mi sedevo con i piedi nell’acqua e gli spruzzi delle onde arrivavano a bagnare la pagina del libro. Tra un delitto e l’altro avevo dei ricordi, delle immagini provenienti da antichi sogni. C’erano stati tempi in cui avevo più energia dentro di me?

    Nelle sere d’inverno, a Milano, avevamo sognato una grande casa bianca persa tra il verde. Io mi vedevo con un panama in testa, seduto nel porticato con i piedi sul legno della ringhiera. Bevevo Pernod, lei Martini – credo – la bambina giocava in giardino a rincorrere il gatto.

    Io mi accorgevo di avere spesso la gola secca e non solo per il caldo. Era come se le forze lentamente mi abbandonassero: a volte mi capitava di barcollare, camminando.

    Quando riuscii a parlargli, Gaspare fece finta di non capire. Mi guardava con la faccia più stupida che io abbia mai visto e scuoteva la testa. Gli chiesi di mostrarmi il suo sacco. Frugai attentamente rovesciai per terra tutta quella cianfrusaglia. Nessun libro. Era diventato invisibile. Invisibile, sì.

    Guardai la muta desolazione delle stanze ormai quasi vuote, i vecchi giornali per terra, la polvere, le ragnatele, le macchie alle pareti, i segni lasciati lì dove c’erano i quadri. Respirai l’odore di tutto quello. Dieci anni e non sembrava vero. Ricordavo una mattina, una mattina di prima estate, forse giugno.

    Tra me e il disastro c’era una sottile parete trasparente. Ogni mattina mi svegliavo pensando che sarebbe accaduto quel giorno. Accadrà oggi, diomio, pensavo alzandomi dal letto e poi non accadeva e la notte tornavo a dormire pensando Non è ancora accaduto.

    Eppure lo udii chiaramente. Disse queste parole: L’Opera è un concentrato di Gioia e Luce Solare camuffato sotto forma di Opera.

    Il geometra ci condusse fino al primo piano, aprì la porta, aprì le finestre per far entrare la luce. I muri erano sporchi e scrostati. Trecentomila lire al mese.

    Quante angosce vissi lì dentro. Quanti giorni rimasi chiuso lì dentro aspettando che la paura passasse?

    Leggevo Ionesco, e Thomas Mann, e Castaneda, e Virgilio e Dante. Leggevo l’Eneide e il Paradiso e Borges che parlava dell’Eneide e del Paradiso. E uno specchio che ne riflette un altro dà luogo a un’infinita serie di specchi che ne riflettono infiniti altri.

    Poi cominciai a scorgere tra il verde una sottile linea nera. Sarà una linea d’ombra, mi dissi.

    Dodici sorrisi lasciati in mezzo alla strada al tramonto. Andavo via da quel posto, andavo via da Milano, andavo via senza avere ottenuto nessun risultato. Nessun risultato.

    Guerrieri gloriosi dai volti tinti dei colori di guerra, credevamo di essere noi.

    Io mi inchinai passerotto a crudeli cosmiche necessità, non mia è la colpa se accadono simili cose come un argenteo fiume che arrivi al mare.

    Un pomeriggio d’estate ero seduto su una panchina, in una piazza assolata, e pensavo a Gaspare e pensando a lui chiusi gli occhi e cercai di immaginare come egli avesse potuto concepire lo Spazio. Vidi dietro gli occhi un’immensa infinità luminosa, per un attimo ebbi la percezione, ma quando riaprii gli occhi non ero più lo stesso.

    Il geometra sarebbe venuto personalmente la prima domenica del mese, alle dieci di mattina, a ritirare l’affitto.

    La spiaggia era una spiaggia di ciottoli, grande, sconfinata. Molti dei sassi avevano inciso i contorni di alghe, noi ci sedevamo sugli scogli a prendere il sole.

    Ascolto mistiche musicalità con cuore aperto, brucio incensi nella mia stanza, il genio è uscito a comprare sigarette, una tenera gonnina rossa attraversa ansimante la strada.

    Gaspare si rifiutò di darmi spiegazioni. Scuoteva la testa, sembrava che gli facessi paura. Ma io so che fingeva.

    Scrivo lo Spazio tutti i giorni e per scriverlo ho bisogno di informazioni. Leggo. Leggo di tutto, ma non capisco nulla di quello che leggo. Non trovo nulla di utile a uno che voglia scrivere lo Spazio.

    La linea nera era diventata una specie di parete perfettamente rettangolare, essa di giorno in giorno cresceva in altezza e in larghezza. Una parete nera immersa tra il verde. Una parete nera che ingoiava il verde.

    Allora conobbi un uomo chiamato Gaspare. Quest’uomo era piccolo di statura, dalla faccia poco intelligente, i suoi vestiti erano sempre laceri, camminava a piedi nudi e portava un sacco sulle spalle. Raccoglieva roba vecchia. La gente gli rideva dietro e lo scherniva con una specie di crudeltà che mi lasciava stupito. Indagai. Scoprii che era tanto disprezzato perché si diceva che avesse scritto un libro che nessuno aveva mai letto, ma di cui si conosceva il titolo. Il titolo era sufficiente. Lo Spazio.

    Ascoltavo musica indiana sperando che mi calmasse e poi fumavo e poi a volte mi precipitavo fuori correndo giù per le scale, correndo per la strada perché la gente non incrociasse i miei occhi e mi rifugiavo dentro il parco. Forse solo gli alberi avrebbero potuto calmarmi.

    Lui era tutto regolare, aveva sposato una bella donna, ricca, e aveva un figlio maschio, aveva una grande casa e la stima di tutti. Ma aveva quella storia della malattia che lo faceva soffrire. Naturalmente lui credeva di essere malato nonostante ogni apparenza, in realtà era sano come un pesce, un gran pezzo d’uomo, e tutto gli andava bene.

    Per scrivere lo Spazio arrivai a Milano. Per lo stesso motivo studiai all’università. Inseguendo lo Spazio e sperando che mi rivelassero notizie dello Spazio frequentai tutti i pazzi che vivevano in quella città. Nulla, solo vaghe tracce, lampi di informazioni.

    Per il contratto d’affitto vollero: il mio nome e cognome, il numero della carta d’identità, il numero di codice fiscale. Vollero sapere da dove venivo e che lavoro facevo.

    Il Diavolo, scoprii, è parte essenziale dello Spazio. Il Diavolo è la Paura che esso suscita. Quando Dio fa Paura corrisponde al Diavolo. Il Diavolo dei tarocchi. Guardatelo. Fa Paura.

    Aveva piovuto per dieci giorni di fila e ora il sole si vendicava. I miei occhi pativano quel giallo infuocato, sudavo. La macchina tossicchiava come non sopportasse il caldo furioso di quegli ultimi giorni di luglio.

    Lui era diventato quel tipo di medico che ti guarda in faccia e ti dice quanti anni di vita ancora ti restano. Godeva nel diagnosticare la morte di qualcuno, sembrava. Più uno era malato più lui lo considerava con compiaciuto interesse.

    Lo Spazio: visualizzavo un libro in carta celestina con macchie gialle. Sporco di polvere di stelle, pensavo. Avete mai schiacciato o visto schiacciare una lucciola? Essa lascia una bava fosforescente. È così che vedevo le macchie gialle sul libro.

    La gente del posto ci guardava senza curiosità, notavano appena la macchina targata MI. Vi trasferite qui? Come mai? Ma non stavano neppure ad ascoltare le nostre pur vaghe risposte.

    Se uno era troppo magro, sentenziava con sicurezza: Lo vedi? Quello è un alcolizzato all’ultimo stadio; se uno era troppo grasso: È così che comincia un alcolizzato, prima si gonfia il ventre e poi… e faceva un gesto, come se la falce della morte proprio allora stesse per tagliare il collo a quel povero cristo.

    Sapevo che esso era custodito dentro al sacco, ricoperto di cose vecchie, di stracci e scarpe rotte. E vedevo che la gente temeva questo libro, che ne era sgomenta e perciò si difendeva dalla genialità di Gaspare con il sarcasmo.

    E alla fine toccò il blu del cielo. Stava diventando immensa. Capii che era un edificio cubico. I miei occhi fuggivano da quella visione.

    Le giornate scorrevano lente. Ogni tanto alzavamo gli occhi a guardare i nostri vicini, a destra, dieci metri più in là. Erano due omosessuali con una macchina rossa, uno molto giovane l’altro un poco più vecchio. Si muovevano con molta calma, parlavano tra loro a voce bassa, scherzavano, ridevano. Si capiva che stavano bene insieme.

    Così l’uomo che aveva risolto i misteri dello Spazio se ne andava in giro a raccogliere robe vecchie con il suo terribile segreto dentro al sacco.

    Era un medico del genere. Per quanto riguardava lui, era convinto di essere affetto da una misteriosa forma di sclerosi a placche, non si dava molti anni da vivere, ancora.

    Avvisarono la Questura. Dovetti: cambiare la mia residenza, rinnovare la carta di identità, il passaporto, la patente, il libretto e la targa della mia automobile. I vigili vennero ad accertarsi. E chissà quante cose ancora.

    Lui era un medico ed io uno spiantato. Non un vero e proprio spiantato, nel senso di non avere un lavoro e cose del genere, ma in potenza anche questo. Tra me e il disastro c’era una sottile parete trasparente…

    Quando riaprii gli occhi non ero più lo stesso e soprattutto ero diventato anch’io simile a Gaspare. Il mio destino divenne simile al suo. Intanto scrivo anch’io lo Spazio.

    Non sono solo. No. Ce ne sono molti altri come me, credetemi.

    Mi decisi a chiedere a qualcuno del posto. È il nuovo carcere, mi dissero. Io ebbi un brivido, pensai a quelli che allora erano liberi e che tra poco sarebbero stati rinchiusi tra quelle alte mura di zolfo.

    Quando risuonò un cupo rullo di tamburi mia madre, preoccupata, mi coprì gli occhi col suo scialle. Io però ebbi il tempo di cogliere l’istante dell’irruente ingresso del Diavolo con calzamaglia rossa, la coda e le corna e tutto il resto.

    Ma io ero uno spiantato. Lui credeva che io avessi scelto di essere come ero, con un impiego da pochi soldi e senza nessuna voglia di lavorare. O meglio: alla fine si era convinto che era stata una mia scelta. Io lasciavo che la pensasse così.

    Un vecchio mefistofelico dagli occhi sporgenti, il naso ricurvo e il mento aguzzo, certamente nato per recitare quella parte. Quell’attimo rimase impresso nei miei occhi per molto tempo, in seguito. Intanto Sant’Antonio pregava in ginocchio, con gli occhi rivolti al cielo…

    Ma non ho concluso un bel nulla. E cosa avrei dovuto concludere? Non c’è nulla da concludere – ricordiamolo – nulla da concludere. Se la gente sapesse veramente, con il profondo dell’essere, che non c’è nulla da concludere, scapperebbe via digrignando i denti. Digrignando i denti, assassinando i morti, ardendo braci e Achilli e Ulissi e Virgilii.

    Gaspare fu solo un componente di una setta molto numerosa. Ma sbaglio a chiamarla setta. Essi non si conoscono tra di loro, non hanno regole, non fanno giuramenti e specialmente non fanno proseliti. Scrivono lo Spazio.

    Da allora cercai altri esseri della stessa specie e indagai. Indagai, sì.

    Gaspare fu assassinato. ASSASSINATO!

    Lui sta affilando il coltello. O forse userà un bisturi. Oppure una decina di pasticche verdi che mi farà ingoiare nel sonno. Devo fuggire da qualche parte. Nascondermi da qualche parte.

    Prima che muoia lui, vorrà vedermi morto. Perché lui sa. SA!

    Chi fu l’uomo che visse in quell’epoca? Intorno a me i sapori funebri di un cimitero etrusco. Un vento di morte percorreva l’Italia, l’Europa e il mondo intero.

    Da qui si vede quasi tutta la valle. Tutte le sfumature possibili del verde, dal verdegiallo al verderosso al verdeviola. E la macchia scura del nuovo carcere. Che cosa ho fatto, o detto, perché lui pensasse che volessi ucciderlo? Io, quello che giocava con lui.

    Sono diventato così? Sono come lui mi vedeva? Ma non importa, mi resta poco da vivere e anche a lui. Anche a lui resta poco da vivere, dovunque egli sia. Non gliel’ho mai detto. Il suo fegato era malridotto. Beveva troppo. E usava qualche droga, credo.

    Chi fu l’uomo che visse in quell’epoca? Intorno a me i sapori funebri di un cimitero etrusco. Un vento di morte

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