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Cold Blood: A sangue freddo
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Cold Blood: A sangue freddo
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Cold Blood: A sangue freddo

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Tutto sembra ordinario nella ridente cittadina statunitense di Aben Road. Le persone sono cordiali, la birra viene offerta anche agli sconosciuti, e il sole e l’afa disturbano e caratterizzano le giornate della provincia. Di certo, la sua peculiarità è che, alle vicende del centinaio di personaggi che popolano le case e le strade ad ogni ora del giorno e della notte, si alterna la quiete delle anime del cimitero, che conta duecento tombe. Sicuramente, in un luogo in cui i morti sono più dei vivi, devono esserci non pochi misteri. Si trova a doverli fronteggiare Evan Manson, una ragazza scappata di casa a sedici anni, dalla vita difficile e dai trascorsi burrascosi, che ha un’abitudine insolita: la mattina, prima di andare a lavoro in un bar del centro, si reca alla stazione ferroviaria e osserva i passanti, in cerca di qualcosa (o qualcuno) che le sconvolga l’esistenza. Ebbene, una mattina di luglio tutto ciò accade. Si imbatte in un uomo da poco trasferitosi dal Maine , di nome Jonah, misterioso e dal passato oscuro, che la risucchierà in un vortice di antichi conflitti e inconfessabili segreti, che coinvolgeranno , chi più, chi meno, parte degli abitanti di Aben Road.
LanguageItaliano
Release dateNov 24, 2017
ISBN9788869631528
Cold Blood: A sangue freddo

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    Cold Blood - Marcella Calascibetta

    Marcella Calascibetta

    COLD BLOOD

    A SANGUE FREDDO

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2017 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631528

    Ricordo che quella serata era fresca, di quelle che in estate ti consolano. Le giornate estive in Louisiana sono terribili (l’afa ti tramortisce) e l’unica via di scampo sono quelle rare sere in cui c’è una leggera brezza, che smuove gli animi. Io ero seduta sulla mia ormai lercia sedia a dondolo, che ripeteva questo movimento altalenante, a tratti fastidioso, che però aveva un che di rassicurante. Il mio quartiere era fatto di casette color giallo paglierino, in legno, sistemate una accanto all’altra. Avevano giardinetti piccoli ma decenti, e cani che latravano a tutte le ore del giorno e della notte. Ricordo che avevo venticinque anni, e avevo lasciato la scuola dopo il diploma. Lavoravo in un bar non lontano dal centro di Aben Road, una ridente cittadina che ricalcava lo stereotipo del tutti conoscono tutti. Stavo fuori casa otto ore al giorno, e la sera mi ritrovavo lì, nella mia tana che puzzava di fritto e del mio gatto, Chucky (si, proprio come la bambola assassina), che ogni tanto mi saltava sulle gambe e mi faceva le coccole. Dalle nostre parti è così, siamo vecchi già da giovani. Quel poco tempo libero che avevo lo passavo così, a non far niente, a pensare a come sarebbe stata la mia vita se avessi fatto scelte diverse. È stupefacente pensare quanto il tempo che passiamo a rimpiangere le eventualità, sia più inutile di quello che passiamo dormendo. Almeno sonnecchiare rinforza il corpo, ti fa riacquistare le energie. Ad ogni modo, quella sera sarebbe stata esattamente come le altre. Vedevo Jeanine Clancy portare a spasso il suo bastardino rabbioso, col suo fare da ghetto, vestita con una minigonna di jeans arancione e i rasta. Quell’arancione spiccava sulla sua pelle nera come se emanasse una luce propria. Poi c’era Ted, il camionista – donnaiolo impenitente, che adorava dilettarsi nel lancio dalla finestra quando il marito di Claire Morgan rincasava dal lavoro. Povera Claire, non meritava di essere torchiata tutte le volte, provavo pena per lei. Ad un certo punto vidi che Sam Carter, amabile sessantenne dallo sguardo spento, si stava dirigendo sicuro e affannato verso la casa immediatamente di fronte alla mia. Dopo aver guardato insistentemente dalle finestre, si voltò verso di me e mi salutò cordialmente. Facemmo due chiacchiere sulle ultime novità in fatto di cronaca nera. A lui piaceva parlare di quelle cose, e io lo accontentavo con piacere. Dopo alcuni convenevoli, fummo in dirittura d’arrivo.

    – Ah, senti Evan… per caso ci è entrato qualcuno lì? – disse indicando la casa senza inquilini che gli avevo visto osservare qualche minuto prima. Io strinsi le spalle, dissi che non era successo per quanto ne potessi sapere.

    –… spero che non sia successo… il vecchio proprietario è morto e ora ho paura che ci bazzichino i negri… ci sono i mobili, quadri di valore, tutte cose di un certo livello insomma… – disse tutto preoccupato.

    – Anche i bianchi rubano Sam… – dissi ironizzando, col mio solito umorismo da salotto. Lui rise, ma era ancora angosciato.

    – Sì, sì, certo… i ladri sono ladri… – farfugliò qualcosa di simile. Lo invitai a prendere una birra, disse che sarebbe rimasto per poco, perché Nora, la moglie, lo stava aspettando a casa. Lo rassicurai, dicendo che Nora avrebbe capito. Prese uno sgabellino bianco nella mia cucina (piano cottura … si può definire cucina, no?) e si sedette accanto a me, sorseggiando birra e borbottando circa un omicidio successo a Bon Temps la notte prima.

    – Come fai a saperlo? Te li vai a cercare… – Sam sorrideva sempre di riflesso, era adorabile. Sembrò imbarazzato dalla mia esclamazione, e strinse le mani attorno alla bottiglia di birra.

    – Sai com’è… qui c’è poco e niente. La settimana lavori, il week end c’è il baseball e la domenica messa. Non ho tempo per altro… – sembrava un nonnino dolce e gentile, nonostante amasse i film noir e tenesse un fucile a canne mozze in cantina.

    – Hai ragione Sammy… – dissi con premura, carezzandogli amorevolmente la spalla.

    – Evan, ma tu… tu sei una bella ragazza, non esci a divertirti? È normale che io il sabato sera stia a casa, ma non tu! – in effetti aveva un senso, ma non c’era davvero niente di eccitante da fare nel mio piccolo buco di città. Inoltre preferivo stare a casa col pigiama, sbronza, mentre ascoltavo Johnny Cash alla radio.

    – Dai, smettila… lo dico a Nora! – ridevo per la sua espressione quando dicevo cose del genere. Si sentiva in colpa, perennemente.

    – Oh, per carità! Già crede che abbia un’altra, figurati…

    – Sammy, glielo dico io che sei uno a posto. Tranquillo – era come un padre per me. I miei genitori non li avevo conosciuti. Erano morti in un incendio quando ero piccola, e io ero stata cresciuta da una famiglia adottiva, con la quale avevo molto poco in comune. Una volta adulta, decisi di trasferirmi ad Aben Road. Mantenni i contatti con loro per molto tempo. Ogni tanto li chiamo per sentire come stanno. Sam bevve l’ultimo goccio di birra, e mi disse che sarebbe tornato a casa, e che aveva da tempo superato il coprifuoco. Io gli strinsi la mano per salutarlo, e lui scese i gradini di fronte casa, fino al marciapiede, poi si voltò e mi guardò.

    – Ah, se avessi trent’anni di meno! – scoppiai in una risata fragorosa, era davvero esilarante!

    – Sammy, vecchia volpe! – esclamai. In quel momento pensai che in fondo la mia famiglia era lì, e che non mi serviva nient’altro. Forse qualcosa mi serviva, ma ancora non avevo realmente capito cosa fosse. A tutti manca sempre qualcosa, pensai. Di sicuro anche a me. Sam mi diede la buonanotte, s’è fatta ora, aveva detto. Aveva ragione, guardai l’orologio ed erano le tre passate. Non era mia abitudine andare a dormire prima delle sei del mattino. Dormivo poco, dormivo male. Da che ricordavo, era sempre stato così. Il caldo, era sicuramente colpa del caldo. Salutai Sam e gli dissi che il giorno dopo sarei andata a fare la spesa da Clay per portargliela, come sempre. Lui e Nora erano anzianotti, e non volevano che un estraneo entrasse in casa loro. Per cui, dietro lauto compenso (dieci dollari), lo facevo io. Non era il mio lavoro, io lavoravo altrove, solo la mattina e per una paga che faceva schifo. Il mio capo, Meg, era una persona simpatica, e i clienti ogni tanto lasciavano la mancia, per cui cercavo di rimanerci quanto più possibile lì. Alcuni avevano il brutto vizio di lasciare la mancia e far seguire il gesto da una palpatina, ma più di una volta era intervenuto Dean, il marito di Meg, e gliene aveva cantate quattro. È così che funziona ad Aben Road, se qualcuno non ti va giù, puoi tranquillamente spaccargli il naso, tanto nessuno lo dirà ad anima viva. Anche se Aben aveva la brutta caratteristica di essere un posto strano, cioè i morti erano di più dei vivi. Sì, perché c’erano pochissime case, una chiesa battista e un cimitero, che occupava tutto uno spazio enorme, con più di duecento tombe. Noi eravamo un centinaio, conti fatti insomma. Il turismo era scarso, tranne che per gli appassionati di Horror e seguaci di Stephen King. La nostra, per noi, era solo una cittadina come tante della Louisiana: calda, sudicia, piccola e accogliente. Comunque tornando a noi, quella notte, dopo essermi appassionata ad un film splatter di cui non ricordo il titolo, e dopo aver dato da mangiare a Chucky, andai a dormire per quelle tre o quattro ore, delle quali due passate a fissare il soffitto. Quando cominciò a filtrare la luce dell’alba dalle tapparelle, capii che era arrivato il momento di alzarmi. Scesi, mi accorsi che ero tutta sudata, e mi gettai sotto la doccia. Sì, avevo il bagno al piano di sotto, che idea geniale. Chi aveva costruito il mio buco di casa non aveva pensato che è normale mettere il bagno accanto alla

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