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La casa di Bonmati
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La casa di Bonmati

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About this ebook

Una casa che nasconde il terrore degli spiriti e la follia di un padre di famiglia

Il corpo si distrugge, ma le anime rimangono laddove c’è la morte. E ti fanno impazzire. La famiglia formata da Pedro, Antonia e i loro figli Juan e Pili, sta per diventare la nuova inquilina della masseria di Bonmati. Il signor Valentí, insieme alla sorella Ángels, i soli rimasti in vita nella loro famiglia, propongono un buon affare ai nuovi inquilini: se tengono in ordine la casa e i boschi che la circondano, potranno viverci senza pagare nessun affitto. La casa di Bonmati ha una storia di oltre cent’anni, che Valentí sgranerà come gettando petali in aria. Ma non racconta loro tutta la verità. Fin dall’inizio è Pili a vedere ovunque i volti e le sagome, ma nessuno le crede. Pili è la bambina preferita di Pedro e Juan è il figlio perfetto di Antonia; un matrimonio che sta iniziando a rompersi. Ma le cose non ci mettono molto a cambiare. I rumori e le apparizioni si succedono quasi quotidianamente, finché anche Juan inizia a vederli, e accadono cose strane. Dopo aver visitato la stanza numero sei, Juan rimane colpito nel vedere una strana donna che gli dice che se l’avesse baciata sarebbe stato fuori pericolo. Un po’ alla volta le voci prendono a sussurrare nella mente di Pedro e nel suo sguardo spunta la follia; fino a quando si scatena la bufera, verso un tragico finale.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateNov 29, 2017
ISBN9781386915256
La casa di Bonmati

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    La casa di Bonmati - Claudio Hernández

    La casa di Bonmati

    Claudio Hernández

    EBook della prima edizione: luglio 2017.

    Titolo: La casa di Bonmati.

    © 2017 Claudio Hernández.

    © 2017 Cover design: Ultima_Gaina istockphoto

    © 2017 Traduzione: Cinzia Rizzotto

    Tutti i diritti riservati.

    Nessuna parte di questa pubblicazione, compresa la copertina, può essere riprodotta, archiviata o trasmessa in alcun modo e con qualsiasi mezzo, elettronico, chimico, meccanico, ottico, di registrazione, online o fotocopia, senza previa autorizzazione da parte del editor o l'autore. Tutti i diritti riservati

    Dedico questo libro a mia moglie Mary, che sopporta ogni giorno le mie bambinate, come questa. E spero che non smetta mai. Ancora una volta, ho scritto un’altra delle mie follie. Questa storia si basa su dei fatti reali, su un’epoca in cui uno vorrebbe solo dimenticare, per sempre....

    Prologo

    E il gatto soffiò, aprendo gli occhi verdastri e mostrando i canini aguzzi. Le sue unghie lacerarono l’aria come coltelli affilati, graffiando al contempo il petto di Antonia. Il sangue prese a sgorgare da due linee rette e lei sentì il calore del suo stesso sangue, violaceo e viscido.

    Poi l’acuto miagolio sfumò nel bosco che circondava la casa riparandola con grandi alberi centenari, dai rami simili a lunghe braccia che poggiavano sulle pareti della casa.

    E il vetro della finestra della soffitta si scalfì come una ragnatela, producendo un rumore inquietante che fece sì che i nuovi inquilini si scostassero improvvisamente dalla porta della casa, mentre, contemporaneamente, le loro teste dagli occhi strabuzzati guardavano verso l’alto.

    Dietro il vetro, che brillava come un diamante levigato sotto i ºprimi raggi del sole di quel mattino, si intravide una sagoma scura, che rimaneva immobile.

    Come se li stesse osservando.

    Poi il cane iniziò ad abbaiare isterico, mostrando i suoi brutti denti con una spuma insolita in lui.

    I loro volti erano scarni.

    Non erano soli.

    1

    L’enorme chiave arrugginita entrò magistralmente nel buco della serratura, ma per farla girare bisognava impiegare entrambe le mani e cigolava come una dannata dentro la toppa antica, come se qualcuno stesse facendo strisciare delle catene arrugginite contro una parete metallica.

    Valentí, uno dei fratelli proprietari della masseria, era un uomo alto e dalla pancia sporgente, sempre nascosta sotto una giacca blu da dirigente. Era calvo e i suoi occhi, sprofondati nelle orbite, erano scuri. Le sue labbra carnose sembravano leccarsi dell’olio che ancora vi brillava sopra. Le sue mani grassocce divennero bianche, mentre girava tre volte quella chiave. Poi, nel ritirarla dalla toppa, le sue nocche tornarono rosate. Non aveva baffi, neppure una barba rada, e la sua voce era roca e grave.

    «È da tanto che teniamo chiusa la casa» si scusò l’uomo, sui settant’anni, mentre guardava sotto i raggi del sole quella chiave immensa, delle dimensioni di una chiave inglese, che ora sosteneva nella palma della mano.

    «Da quando è vuota?» volle sapere Pedro, il nuovo inquilino, con le labbra contratte come a disegnare una linea sottile.

    «Dal 1970» rispose Valentí, guardandolo negli occhi.

    Pedro non era alto più di un metro e settanta, ma aveva una costituzione corpulenta e abbastanza muscolosa. Ciascuna delle sue braccia sarebbe potuta passare per una coscia di sua moglie, Antonia, per le loro dimensioni fuori dal comune. I suoi occhi erano marroni e nemmeno lui aveva la barba, nonostante molte volte se la fosse fatta crescere a dismisura. Quel giorno si era rasato con un rasoio sottile. Indossava una maglietta attillata, gialla, e un paio di jeans anch’essi attillati. Le sue scarpe preferite erano i mocassini, che si toglieva solo per andare a dormire. Un’ampia cintura gli circondava la vita di vespa per proteggere le ernie al disco di cui soffriva.

    «Sono nove anni che è chiusa» disse Pedro a bassa voce, portandosi la mano sul mento. Era un uomo di poche parole, che parlava sempre come con un complesso d’inferiorità.

    «Avranno tutto il tempo del mondo per farla carina» disse una voce femminile alle loro spalle. Era Ángels, la sorella di Valentí. Una donna tozza che a differenza dei fratelli - erano in tre - non sapeva cosa fosse l’altezza. Quella donna, che aveva piuttosto l’aspetto di un barile per dimensioni e proporzioni, sfoggiava dei capelli corti di un color grigio brillante. Portava un vestito a fiori, sotto il quale si intravedeva la sagoma dell’enorme reggiseno beige che le sosteneva i grandi seni, che le accarezzavano la sommità della pancia. Camminava lentamente e si lamentava continuamente della gamba destra. Una mano sulla schiena, all’altezza dei reni; era la sua postura preferita.

    «Già!» Antonia celò il malcontento.

    Juan, il figlio maggiore di Antonia, era andato verso il pollaio, che si trovava subito a sinistra non appena si entrava nella tenuta, in cerca del suo cane, Dozer. Un nome alquanto strano per un animale domestico, ma ben peggiore era quello del gatto: Whisky.

    Naturalmente non lo trovò e prese a fischiare a intermittenza, poiché la lingua gli si inceppava e il fischio gli usciva incrinato, come un gracchio.

    Riuscì invece ad osservare la scia delle impronte sulla terra, su per la montagna, dove la vista si perdeva fino a non distinguere più nulla; dove migliaia di rami, disposti in forme strane. come lampi in una notte di tempesta, facevano scomparire il bosco. La maggior parte degli alberi erano querce e quelli che si trovavano sulla collina erano dei pini. Proprio sulla porta di casa, a circa tre metri, c’era un fico di quasi settant’anni, grande quanto un bosco intero.

    «Mamma, Dozer è scappato!» strillò Juan, che aveva nove anni. Era magrolino e aveva le mani lunghe e sottili. Quella mattina portava un paio di pantaloni a zampa d’elefante, ormai fuori moda, e un maglione di lana grigia a righe scure, che gli aveva fatto sua madre. Il ragazzo si stava asfissiando in quel forno.

    Antonia non rispose.

    «Mamma, Whisky è scappato» disse Pili, la figlia minore della coppia, di quattro anni più giovane del fratello. Aveva i capelli mori, a differenza di suo fratello che li aveva castani, e abbastanza lunghi. La sua chioma non aveva una forma definita, ma era liscia e con la frangetta tagliata dritta appena sopra la fronte. Era magra e portava un vestito rosso.

    Antonia non rispose neppure stavolta.

    «Prenda la chiave.» Valentí mise la chiave sulla palma della mano di Pedro, che l’aveva stesa tremante. E si rese conto che quella chiave pesava abbastanza.

    «Ora è lei il nuovo inquilino della nostra proprietà più desiderata in famiglia, fin dai tempi dei miei nonni, dei nostri genitori ed ora con noi. Gli unici rimasti.» Fece il volto serio e i suoi occhi nascosero qualche altra ragione.

    «Avremo modo di spiegarvi la storia che ha la nostra masseria» spiegò Ángels con un gran sorriso stampato sulla faccia rugosa. Era la maggiore dei tre fratelli. «Alloggerò qui con voi qualche giorno per spiegarvi la storia di questa casa.»

    La faccia di Antonia tracciò una linea retta sulle labbra e le si chiusero gli occhi.

    Che schifo averla in casa a controllarci, pensò Antonia mentre deviava lo sguardo verso il fico.

    Il sangue del graffio sul petto si era già asciugato, ma aveva lasciato una macchia rossa sulla sua camicetta bianca scollata.

    Valentí spinse con forza la doppia porta alta tre metri e larga quattro, due per ciascun battente, che cigolò sui cardini arrugginiti, come una vecchia che urla che sta perdendo i sensi prima di morire in un penoso letto d’ospedale.

    I raggi del sole entrarono come quelli di due grandi lanterne accese, rasentando l’ingresso scuro, da cui però uscì un odore acre, di muffa. E man mano che si aprivano entrambi i battenti, la luce accecante rivelò un ingresso stantio dalle pareti scorticate e con gli angoli pieni di ragnatele abitate da grandi ragni scuri e tenebrosi, con gli occhietti rossi che scrutavano la luce.

    «Questo è l’atrio» disse Valentí scrollando le mani. «Come potete vedere, le dimensioni dell’ingresso, o dell’atrio, o come preferite chiamarlo, sono fuori dal comune. Come il resto della casa.»

    Pedro annuì col capo, ma si fece da parte. Antonia assunse un’espressione disgustata. Tanto lavoro per pulire, pensò.

    Il pavimento era lastricato, come le strade dell’Inghilterra di Jack lo Squartatore, e molte di quelle lastre erano spaccate e consumate. Le copriva uno spesso strato di polvere.

    «Qui entravano i cavalli» spiegò Ángels alle loro spalle. Il suo eterno sorriso era sempre stampato sul suo volto.

    Di fronte, due scale immense si perdevano verso l’alto. Ogni loro gradino era rotto e consunto. Un topo dagli occhi scintillanti e la coda più lunga che Antonia avesse mai visto in vita sua sgattaiolò verso una porta nel pianerottolo centrale, dove si perse. C’erano carte e immondizia su tutti i gradini, e altre ragnatele, cosa insolita considerando che di solito i ragni si annidano in alto. Due scarafaggi si seguirono l’un l’altro in una grande corsa, mostrando i gusci marroni.

    A sinistra c’erano due porte alte due metri, di legno vecchio, ciascuna delle quali aveva la sua serratura. Erano chiuse. A destra una doppia porta più piccola, vetrata, celava un’immensa cucina a legna con un lavello di pietra.

    «Passate pure» disse Valentí, allungando un braccio verso l’interno dall’aria viziata come se fosse stato un cimitero. Un odore nauseabondo impregnò l’atrio, in direzione dell’uscita, come una corrente d’aria rancida. «Vi facciamo vedere la casa. Permettetemi di ricordarvi, ancora una volta, che è stata chiusa per molto tempo e che non è esattamente nelle condizioni migliori, ma con una mano di vernice e una bella ripulita sarà come nuova. Quello che importa davvero è che è resistente.» Allora la sua mano palpò la parete che si trovava alla sua destra. «Guardate che spessore che ha...»

    «Quaranta centimetri di muro di pietra» tagliò corto Ángels.

    Allora, improvvisamente, Pili fece un cenno verso la sommità di una delle due scale e le sue labbra tremanti si lasciarono sfuggire un sussurro: «Ho visto qualcosa lassù, papà».

    Pedro le accarezzò i capelli lisci.

    «Sono animali, piccola. Sono animali.»

    Il volto di Valentí esibì uno sguardo freddo e distante. Forse perturbante. Rimase in silenzio.

    Un lungo e inquietante silenzio in cui si udirono soltanto i latrati lontani di Dozer, incapace di infrangere la magia di quella calma.

    Finalmente ripresero la visita alla casa, come se si fosse trattato di una passeggiata in un museo pieno di anticaglie.

    Valentí aprì la doppia porta della cucina. I vetri erano graffiati e ne mancava uno. La sua scarpa scricchiolò sulle schegge che coprivano il pavimento. Chinò il capo e scoprì che fine aveva fatto il vetro che mancava. La porta cigolò come una dannata, anche se non con l’intensità di quella principale. Si udì il rumore affannoso dei vetri per terra che venivano fatti strisciare sul pavimento di cemento.

    La luce del sole si riflesse vagamente sul pavimento e sulla parete vicina all’ingresso della cucina, come il raggio laser di un puntatore. Trascinando i piedi, Valentí si avvicinò ad una finestra dalle dimensioni ridottissime che si trovava sopra il lavello di pietra e aprì i battenti del balcone, dovendo così sopportare un altro cigolio.

    Il sole penetrò attraverso la finestra simile a una lente bifocale, illuminando un gran tavolo nel mezzo della cucina. Un’enorme cucina di quasi quaranta metri quadrati.

    La coppia d’inquilini era rimasta sulla soglia della cucina assieme ai figli che, sorpresi, scrutavano ogni angolo della casa col loro sguardo innocente. Valentí li invitò ad entrare con un cenno della mano.

    «Entrate! Voglio che vediate la vostra nuova cucina, che sarà di certo una delizia per tutti voi.» E non si sbagliava. La cucina fu l’unico posto in cui non successe niente di strano. Era accogliente.

    Pedro reggeva ancora la chiave in mano, stringendola ora con forza nel pugno chiuso.

    Antonia fu la più risoluta e fece un primo passo sul pavimento di cemento. Niente piastrelle come negli appartamenti. Le suole delle sue scarpe coi tacchi sfiorarono la superficie grezza e ruvida, producendo un rumore strano.

    «Oooh! Che bello!» disse Antonia portandosi le mani sul viso e disegnando una O maiuscola con le labbra. Aveva visto il caminetto di grandi proporzioni, che le causò una grande gioia perché era qualcosa che gradiva da sempre.

    Valentí le dedicò il suo più ampio sorriso e disse: «Avete anche un forno per fare il pane».

    Il caminetto si trovava sul lato destro della cucina ed era largo un paio di metri, mentre il forno, in quel momento con la bocca chiusa, era situato in fondo alla cucina, accanto ad una parete in rovina.

    «E il tavolo è per macellare il maiale, vero?» chiese Antonia, azzeccando, e all’improvviso avvertì l’oscurità del vano del caminetto che si perdeva in lontananza.

    «Esatto! Qui facevamo tutti gli insaccati» spiegò Valentí, passando il dito grassoccio sulla superficie incrinata del tavolo. Non gli si conficcò nessuna scheggia.

    Pedro, che aveva osato oltrepassare la soglia schivando i vetri per terra, era ancor più entusiasta di sua moglie, dato che le case di campagna erano la sua grande passione.

    Nella parete sulla sinistra c’era un grande foro, profondo, come se molto tempo prima lì ci fosse stato qualcosa.

    «Qua c’era un armadio?» chiese Antonia indicando il vano.

    Valentí scosse la testa e disse: «No, c’era una madonna».

    «Che madonna?»

    «Non lo so. Adesso non me lo ricordo.» Valentí stava mentendo.

    «E perché avevate una madonna proprio qui?»

    Valentí non rispose e lo stupido sorriso della sorella sfumò dal suo volto.

    Juan era accovacciato di fronte al caminetto, dove osservava dei tronchi anneriti su un monticello di cenere. E guardò per il buco del caminetto. Era tutto buio.

    Pili era aggrappata ai pantaloni di suo padre.

    L’odore acre era ancora sospeso nell’aria, come una foschia densa e appiccicosa.

    «Possiamo continuare a farvi vedere la casa?» proruppe Ángels, sfoderando di nuovo il suo sorriso sfacciato. Le sue gambe ruotarono e l’aiutarono ad uscire dalla cucina, sempre con una mano appoggiata sulla schiena.

    Pedro non era arrivato a toccare la superficie del tavolo e neppure ad aprire la porta del forno; lo avrebbe fatto più tardi, da solo.

    Uscirono dalla cucina quasi al trotto e si diressero verso una delle porte situate a sinistra dell’atrio. Valentí estrasse da una tasca un mazzo di chiavi tintinnanti, grosse, ma piccole la metà rispetto a quella della porta principale; avevano però la stessa forma rustica.

    Le ragnatele che ricoprivano la porta celavano del legno logoro, spaccato, attraverso il quale si poteva vedere l’oscurità della stanza. Ora vi filtravano i raggi del sole, che mostravano come delle particelle sospese intorno al fascio di luce.

    Mentre passava vicino alle scale, Pili ne indicò di nuovo una. Verso l’alto.

    «Ho visto qualcosa» disse. Ma nessuno le rispose.

    Il rumore stridente della chiave che girava e poi quello dei cardini lasciarono spazio a tutto uno spettacolo di oggetti ricordo, compresa una carrozza. Mancava solo il cavallo.

    «Questa è una delle sale dove i nostri genitori e i nostri nonni custodivano le carrozze, i carri, le ruote di scorta e gli attrezzi. Le carrozze complete si tenevano

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