Il cerchio delle donne
By Elena Grilli
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About this ebook
Questo romanzo, vincitore del V Concorso per il Giallo, Thriller e Noir indetto da EEE-book (2017), è ben scritto, senza cedimenti nel ritmo narrativo, e lascia il lettore con la piacevole sensazione di aver letto una storia coerente e coesa, ricca di spunti interessanti e capace di offrire uno sguardo acuto e profondo su alcuni significativi aspetti della realtà socioculturale dell’Italia contemporanea.
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Book preview
Il cerchio delle donne - Elena Grilli
mamma.
Personaggi
●Joana Fioravanti (Jo) – impiegata della Questura di Ancona
●Gabriella Mazzacurati (Bri) – psicologa in pensione
●Angela, Barbara, Sandra – coinquiline di Bri
●Emma Toti e Saverio Cingolani – coppia di anziani
●Carmen Cingolani – figlia di Emma e Saverio
●Sandro Massei – figlio di Carmen
●Catinca Grigore (Cati) – badante di Emma e Saverio
●Amedeo Papi – marito di Catinca
●Emil Grigore – fratello di Catinca
●Santina Lucertini e Filippo Santi – coppia in pensione
●Marco Gagliardi – ispettore della Polizia di Stato
Disposizione appartamenti
Parte 1. In questa parte ci sono donne e ci sono delitti
Catinca (Cati)
Salì le scale al buio, aiutata solo da qualche raggio di luna attraverso i vetri e dal corrimano sotto le dita freddissime.
Infreddolite più per la tensione dei muscoli, che per il clima, benché fosse già fine novembre.
Lui non sospettava nulla, sprofondato nel divano davanti a un qualunque inutile programma televisivo, al piano di sotto; ma Catinca era talmente terrorizzata all’idea di essere scoperta, da evitare ogni più piccolo rumore, perfino quello dell’interruttore della luce delle scale.
Piano.
Piano.
Non tremare.
Catinca affrontava un gradino dopo l’altro avvertendo i piccoli movimenti tremolanti dei muscoli delle gambe. Era spaventata perfino dagli scricchiolii nelle giunture che le sembrava di udire. L’aria intorno a lei era sospesa e silenziosa. Accadeva tutti i venerdì sera da quasi un anno, ma lei non si era ancora abituata al senso di colpa collegato alla consapevolezza che stava facendo di nascosto qualcosa di deplorevole agli occhi di suo marito. Perciò saliva al buio. Gli diceva che andava a casa di Emma e Saverio; invece era diretta nell’appartamento di fronte, stesso pianerottolo. Salire al buio era abbastanza sciocco, dal momento che sulla base della bugia che raccontava ad Amedeo, quelle scale avrebbe dovuto comunque percorrerle. Tuttavia questo era il risultato del terrore che le saliva dentro fin dal primo pomeriggio del venerdì, capace di impedirle di fare un movimento di troppo, di dire una parola di troppo, di inavvertitamente suggerire all’uomo col quale viveva un minimo sospetto sulle sue intenzioni. E allora faceva piano.
Amedeo aveva una sensibilità grossolana, con una soglia molto alta e non si accorgeva praticamente di nulla o almeno così pareva, nonostante fosse in realtà un uomo molto sospettoso. Era, in definitiva, sempre pronto a scattare per un’inezia, a cui attribuiva un significato di minaccia, rimanendo tuttavia cieco rispetto a fatti molto più grossi, almeno per lui, che accadevano sotto i suoi occhi. Tuttavia Catinca sapeva di dover stare molto attenta, perché sarebbe bastato poco per perdere tutto. Se Amedeo l’avesse smascherata, l’avrebbe lasciata, abbandonata, ripudiata, fatta sentire una nullità di cui vergognarsi. Così ci si sentiva già, in realtà, forse anche da prima di incontrarlo. Ma Amedeo era capace di fare molto peggio, ne era consapevole.
Così rifletteva Catinca, mentre poggiava il piede sull’ultimo gradino e prudentemente bussava al portone, evitando di far squillare il campanello. Un raggio di luna rimbalzava sulla targa appesa sopra l’ingresso, raffigurante il profilo di una strega sulla scopa. Una strega nera dal ghigno grottesco, in un antro nero, in un silenzio all’interno del quale Catinca era spaventata dal soffio del suo stesso respiro.
Sciocca Cati.
Frivola Cati.
Calmati Cati.
Bussò di nuovo, un po’ più forte, mentre il cuore si allarmò, quando il silenzio fu senza preavviso infranto dalla TV dell’appartamento alle sue spalle. La signora Emma era quasi del tutto sorda e alzava il volume noncurante degli altri condomini. Poi la porta si aprì e Barbara le diede il benvenuto solo con un gesto della testa, perché sapeva che lì sulle scale un Ciao Cati!
avrebbe provocato un attacco di panico nella visitatrice.
Nel salottino tutto era pronto come sempre: candele, dolcetti, tisane, cuscini, coperte per accucciarsi, sorrisi di altre donne, le streghe, che aspettavano lei. Catinca si rilassò.
Con lei, il cerchio delle donne era completo.
Barbara richiuse la porta alle spalle di Cati. Era una ventottenne robusta e sorridente, con una frangia viola di sbieco sulla fronte. Sulla lingua aveva un piercing e nessun pelo. I suoi modi diretti irritavano i più; nel cerchio delle donne invece era una qualità apprezzata, perché lì si poteva essere se stesse senza finzioni. A Cati questa schiettezza piaceva da un lato, ma la intimoriva dall’altro, come se in qualunque momento le potesse essere sputata addosso una sentenza. Questo però non era mai accaduto, per via delle regole del cerchio.
Quella sera Cati venne accolta con l’affetto di sempre, che ogni volta la commuoveva. Sandra le rivolse un ciao
squillante e ondeggiante di allegria (perché lì dentro ormai si poteva), accompagnato dai sonagli dei suoi braccialetti metallici. E poi c’era il sorriso di Gabriella, nero di nicotina e caldo come un caffè, che da solo bastava a rassicurarla che tutto andava bene e tutto sarebbe andato bene. Angela la pragmatica sbucò coi suoi fianchi poderosi e rassicuranti dalla cucina con la teiera fumante.
Barbara, Sandra, Angela e Gabriella erano le padrone di casa. Ma il venerdì venivano anche Margherita, Irma, Marina e Cati. Qualche volta c’era anche Sabrina.
Catinca si sfilò le scarpe, prese posto sul suo cuscino e incrociò le gambe sul tappeto. Era passato da tanto il tempo in cui si era sentita strana e fuori posto. A dire il vero quella era una sensazione che era durata meno di dieci minuti, la prima volta. Poi aveva preso atto di quello che la circondava: donne alte, basse, giovani e anziane, casalinghe, impiegate o professioniste, magre o cellulitiche, etero o lesbiche, bionde, more, castane. Era impossibile sentirsi quella diversa
in un luogo di donne tutte diverse. Lì andavi bene, sia che parlassi, sia che stessi tutto il tempo zitta. Eri apprezzata, sia che raccontassi dell’ultima causa vinta in tribunale come avvocata, sia che riferissi i dettagli dell’ultima torta salata fatta in casa o dell’ultima gaffe con un uomo.
Lì andavi bene, sempre e incondizionatamente.
«Ci sono novità dal bastardo?» le chiese Barbara a bruciapelo, per niente abituata a prenderla alla larga e per niente preoccupata di offenderla, dal momento che il bastardo
era ormai per tutte il marito di Catinca. Cati non si scompose, sapeva che nel cerchio delle donne suo marito non piaceva proprio, ma non era importante, perché piaceva a lei.
Non si giudica una donna, nel cerchio delle donne, mai. Ogni scelta è valida, sempre. Era la prima regola.
Per questo poteva essere aperta e sincera (quasi sempre) e parlare liberamente anche se il suo italiano era a volte (raramente) traballante o se quello che aveva da dire erano i soliti dubbi triti e ritriti, quelli che una donna più risoluta di lei avrebbe risolto in mezzo minuto.
Ad esempio Sandra avrebbe chiuso un matrimonio come il suo senza pensarci due volte. Sandra era lesbica, ma insomma, il concetto rimaneva. Barbara, sbrigativa com’era, non ci sarebbe finita per niente, in una storia così complicata. E Gabriella, Bri
, col suo modo saggio e autorevole, uno come Amedeo nemmeno l’avrà mai incontrato, pensava Cati, perché la sua stessa autorevolezza fungeva da repellente per gli uomini come lui, un po’ troppo, come dire, abituati a comandare. Per quanto ne sapeva, Bri un marito ce l’aveva pure, e anche una figlia grande. Non aveva ben chiara la cosa, ma pareva che Bri, pur avendo un buon rapporto col marito, di comune accordo con lui avesse scelto di fare vite separate, in case separate, condividendo solo alcuni momenti che lei definiva speciali
, mentre la quotidianità la divideva con altre tre donne. Una cosa strana, insomma. Però Bri non le era mai sembrata stramba, anzi.
Alla domanda di Barbara, Cati non prese le difese del marito. Fu invece lo spunto per confidare alle amiche lo stesso dubbio che la attanagliava da un anno, da quando cioè si era sposata con un italiano ed era venuta a vivere in quel palazzo. Lei era capace di vedere i difetti di Amedeo, ma allo stesso tempo le faceva tenerezza proprio per la sua insicurezza e il suo mal celare dietro modi un po’ bruschi il suo bisogno di essere amato.
«Proprio oggi mi ha rimproverato di nuovo. Ma cosa devo fare con lui?» si lamentò Cati.
«Che avrai fatto stavolta di tanto grave?» si intromise Irma.
«Non mi sono ricordata che ieri sera mi aveva detto di cucinargli i carciofi per la cena di stasera. Io in realtà me lo ricordavo, ma al lavoro mi sono dovuta trattenere una mezz’ora in più, per pulire il disastro fatto da un anziano che poverino ha vomitato in mensa e mica poteva rimanere così... Non ho fatto in tempo a passare pure al mercato coperto a prendere i carciofi perché poi lui si agita se tardo, e allora gli ho fatto il roast beef, che so che gli piace. Ma si è arrabbiato lo stesso, dice che è stufo di una donna che fa sempre di testa sua.» Sentiva che avrebbe finito per piangere in modo incontrollato come era suo solito, se avesse proseguito. Allora decise di non dire altro. Già si sentiva tanto sciocca, se poi avesse anche aperto i rubinetti, sarebbe stata la fine.
Voci solidali si sollevarono dal gruppo. Alcune si rivolgevano a lei, altre esprimevano alla vicina il proprio disappunto. Nel coro si distinsero parole come assurdo
, incredibile
, ma il termine più ricorrente era appunto bastardo
. Bri si sporse verso Cati. «Sembra proprio che come fai, sbagli. Se torni all’ora che vuole lui, non ci sono i carciofi, se ci sono i carciofi, arrivi tardi e lui ti mette in croce con la solita storia che hai l’amante. Così non se ne esce.»
Bri aveva sempre ragione. Era così, non se ne usciva. Lo sapeva bene, perché nell’ultimo anno le aveva provate tutte per farlo contento, per non dargli motivo di lamentarsi. Lei voleva con tutta se stessa la felicità del marito, ma era come se sbagliasse sempre. Eppure doveva esserci un modo. Donne più vere di lei, il modo lo trovavano. La buona moglie fa il buon marito, non si diceva così in Italia? Lei era una pessima moglie, quindi.
Pessima.
Sciocca.
Debole.
«Questa è la violenza che lui ti fa» le ricordò Angela quasi leggendole il pensiero e versandole nella tazza acqua calda per la tisana.
«Si crede il signore del castello. È un violento, Cati, lo sai» sottolineò Margherita.
Cati riassestò le natiche sul cuscino. «No, violento no, non mi ha mai menato. Mi vuole bene, a modo suo, ecco.»
Le amiche non insistettero. A Cati però non sfuggirono certi sguardi che sembravano volerle comunicare No, forse… non ti ha mai menato… ancora…
In effetti loro non sanno proprio tutto tutto.
«Oggi stavo per farmela sotto dal ridere.» Marina prevenne l’imbarazzo che il silenzio avrebbe portato con sé. Mentre raccontava la sua ultima vicissitudine con un ragazzo impiegato delle Poste, l’ennesima gaffe ai danni di se stessa, come inconsapevolmente facesse apposta a tenerli alla larga, gli uomini, benché manifestasse tutto il contrario, Cati iniziò a ripiegarsi su se stessa. Non che non le interessassero le altre donne, anzi, ma negli ultimi giorni si era sentita molto più triste del solito, come se fosse diventato improvvisamente più difficile continuare a sorridere mentre faceva le sue cose quotidiane. Tutto stava diventando terribilmente pesante.
Hop, hop, Cati.
Hop, hop!
Tirati su.
Hop, hop!
le diceva sua mamma da bambina, per darle il coraggio di rimettersi in piedi dopo una caduta dalla bici. Hop, hop!
Aveva sempre funzionato come una formula magica per iniettarle energia nei momenti bui e rimettersi in pista, con tutta la buona volontà di cui era capace. Ultimamente Hop, hop!
non funzionava più tanto bene. Le sembrava un’autoillusione, un inganno. Chi voleva prendere in giro? I suoi errori avevano iniziato ad accumularsi fino al punto da non poterli più ignorare. Troppo pesanti, per riuscire a buttarseli alle spalle. Solo Amedeo riusciva a chiudere un occhio sulle sue mancanze. Le lanciava un sorriso e a lei spariva l’angoscia. Come poco prima, quando strizzandole l’occhio con un sorriso ampio e dolcissimo le aveva comunicato di averla perdonata, per la faccenda dei carciofi. In fondo aveva ragione lui, che ci voleva a fare due carciofi se ci si mette di buona volontà? Per fortuna però era tutto passato. Bastava quello sguardo di Amedeo, quello di ragazzo innamorato, quello con quel luccichio di passione irragionevole e di rapimento senza speranza. Chissà cosa ci trovava, in una ragazza insignificante come lei.
Non sbagliare più, Cati.
Non sbagliare più, punto.
Stava pensando in questi termini, quando si riscosse e riprese contatto con i discorsi del cerchio delle donne. Una risata corale le comunicò che il racconto buffo di Marina era finito e bisognava che ridesse anche lei. Si sentiva in colpa a non aver ascoltato e a fare solo finta di divertirsi.
Non fare la cattiva, Cati.
Non fare l’egoista.
Lei voleva bene alle altre donne, ma in quel momento era troppo presa dalle sue preoccupazioni personali. Silenziosamente si autorimproverò, come sempre. Forse le altre non l’avrebbero voluta nel gruppo se l’avessero conosciuta veramente. Incrociò lo sguardo con quello di Bri. Le stava sorridendo benevola, come se anche lei desse poco peso alle battute del gruppo sulle disavventure sentimentali di Marina, e fosse concentrata su di lei, Cati. La stava scrutando, dandole la sensazione di possedere il potere di leggerle i pensieri.
Cati si imbarazzò, immaginò di essere nuda agli occhi di Bri, si vergognò. Si sentì vulnerabile, fragile, una donnina da niente, tra le mani di un uomo che ne faceva quello che voleva, indegna di far parte di quel gruppo di donne tutte più emancipate e capaci di lei. Sì, la regola era che ogni esperienza delle donne era adeguata, ogni vissuto era degno, ma in realtà questo non poteva valere anche per lei. Perché lei dubitava perfino di essere una vera donna. Non era altro che un’aliena, che solo Amedeo riusciva ad amare, almeno finché non avesse fatto errori talmente gravi da giocarsi anche il suo affetto. Era in bilico, a rischio sull’orlo di un precipizio.
Tutto ciò che aveva di importante e prezioso stava al piano di sotto. Era suo marito e lei, ingrata, gli aveva mentito per mesi. Per cosa? Per compiacere delle donne simpatiche e solidali sì, ma con obiettivi troppo diversi dai suoi.
Sleale.
Bugiarda.
Irresponsabile.
Arrossì per il moto di rabbia contro se stessa. Mise insieme qualche parola di scusa, che era tardi, che doveva andare, buonanotte a tutte, a venerdì prossimo (forse), rinfilò le scarpe e uscì.
Scese le scale con passo sempre più pesante. Non aveva più senso fare piano. Dentro di sé aveva preso una risoluzione, di immediatamente abbandonare idee assurde di libertà e tutti quei grilli che subdolamente le si erano insinuati nella testa frequentando Bri e le sue compagne. Andavano bene per loro, non per lei. In quel momento Cati sentiva dentro di sé che sarebbe stata felice solo nella devozione a suo marito e nel vederlo felice. Che altro poteva essere più importante di questo? Sorrise tra sé, per la ritrovata lucidità, mentre infilava la chiave nella toppa.
Non appena scostò la porta dal suo battente, la vide.
Sfilò lentamente la chiave mentre i suoi occhi rimanevano fissi su quella luce di cui conosceva benissimo il significato. Le pupille marroni di Amedeo rilasciavano quella luce lì, ogni volta che era deluso di lei. O arrabbiato. Ma stavolta c’era dell’altro. C’era anche una ruga dritta e feroce tra le sopracciglia e altre rughe concentriche a fare da cornice a denti esposti in un ghigno di rabbia.
Cati chiuse la porta alle sue spalle espirando tutta l’energia che aveva in corpo. Le gambe le divennero molli e dalla gola le salì un desiderio irrefrenabile di pianto. Gli occhi le divennero velocemente umidi e la vista appannata non le permise di schivare per tempo quello che lui le lanciò in pieno viso. Una scatolina leggera rimbalzò sulla sua guancia destra e cadde a terra. Cati quasi svenne quando vide di cosa si trattava: era la confezione di anticoncezionali.
L’aveva trovata.
«Puttana.» Era un giudizio definitivo, che respinge ogni appello e nemmeno lo contempla. Ammesso che esistessero parole di spiegazione efficaci, non le vennero in mente in quel momento, in cui era come se l’universo intero implodesse dentro. Come avere nel petto il processo contrario al big bang. Rimase immobile, le spalle curve sotto una colpa pesantissima. Cosa le era venuto in mente di prendere la pillola all’insaputa di suo marito? Errore enorme. Se ne rese conto allora: un tradimento non giustificabile, né agli occhi di Amedeo, né ai suoi stessi occhi.
«Vado in cerca delle caramelle per la tosse e non le trovo. Allora penso che potrebbero stare da te, sul tuo comodino. E guarda cosa trovo, invece!» La voce roca di Amedeo vibrava di indignazione.
La scatola col blister della pillola non stava sul comodino, ma dentro, in fondo al cassetto più basso, nascosta tra la biancheria, dentro un calzino. Non era possibile che l’avesse trovata per caso, doveva aver frugato anche dove era del tutto evidente che non potessero esserci le caramelle per la tosse. Colse l’incongruenza, ma la vergogna e la paura non le permisero di ribattere indignandosi a sua volta.
Amedeo si guardò intorno, superò una breve indecisione, poi si scagliò nella direzione del divano. Afferrò il copridivano, tentò di strapparlo tirando con i pugni stretti su due lembi del tessuto e non riuscendoci, lo portò alla bocca. Raggiunse il suo intento