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Corse di tappi e guerre di bottoni
Corse di tappi e guerre di bottoni
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Corse di tappi e guerre di bottoni

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About this ebook

C’è un paese che come tutti i paesi custodisce gioie, bellissimi ricordi di estati passate, infanzie lontane e singolarità. Il giovane Antonio vi ritorna sempre con piacere e stavolta c’è sua cugina che si sposa. Durante una passeggiata notturna che lo porterà sul vecchio ponte fascista, Antonio respirerà l’anima di antiche costruzioni e apprezzerà di più la figura di un vecchio zio burbero a lui omonimo. Così, mentre il matrimonio va svolgendosi, si srotola anche il canovaccio del passato, che spiega le parentele e gli intrecci che hanno reso possibile la creazione della famiglia di cui Antonio fa parte e che riflettono su sofferenze e amori che solo i vecchi luoghi custodiscono. Ci sono meriti da riconoscere nelle tante vite che scorrono, s’incontrano e s’intrecciano nelle vie dei vecchi paesi fatti di silenziosi ruderi e grida di piazza e fruscii di fontane. Poi però, tutto questo rischia di essere spazzato via, perché il ricordo si perde di fronte all’arrivo del terremoto che distrugge e appiattisce.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2017
ISBN9788827521335
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    Corse di tappi e guerre di bottoni - Matteo Galeotti

    Epilogo

    - Matteo Galeotti -

    CORSE DI TAPPI E GUERRE DI BOTTONI

    A due Giovanni,

    che mi hanno fatto conoscere due posti bellissimi.

    Prologo

    Quando il giovane Antonio tornava nei luoghi dove risiedevano le sue origini, il più delle volte era per qualche evento speciale che coinvolgeva qualcuno del suo parentado più stretto. Quando questo accadeva, la cosa che amava di più fare era scivolare via per un attimo e divincolarsi da tutti e da tutto; in particolar modo quando si trovava in quel luogo, perché di uno soltanto si sta parlando.

    Era in quei momenti che le distanze diventavano tutte più brevi e le radici iniziavano a pulsare di nuova linfa sotto il terreno. La cosa che adorava era aprire la finestra del terrazzo che stava in fondo al corridoio e uscire, nel silenzio fresco dell’esterno, dell’aria che attende l’inoltrarsi della notte scandendo il tempo con il suo lento diventare più gelida; e sentirsi piccolo, insignificante e allo stesso tempo protagonista della scena; con lo sguardo delle costellazioni addosso, nel reciproco panorama sgombro e limpido, sotto l’occhio vigile della luna in materna perizia.

    Quello che Antonio faceva era tendere gli occhi al silenzio, stando lì: le mani sulla ringhiera umida, immobile a guardare il paese avvolto in chiaroscuri e quanto più muto a sentirne la voce.

    Lontano il profilo della montagna. Quel gigante steso sul fianco che non trovando ancora sonno, lo attende paziente con indosso una fioca luce pallida a illuminare l’altra parte del crinale. Antonio ricordava a proposito di aver sentito storie su giganti in lotta perenne tra loro, sulla terra, ancor prima dell’uomo, e della loro estinzione e la trasmutazione delle loro carcasse in colline e montagnole, anche se il profilo che stava osservando era così placido da allontanare ogni immagine di morte; sembrava piuttosto che si fosse solo messo a dormire dopo secoli di lotte ininterrotte.

    Era sparita la bocca della grotta che si apriva a metà strada nella parete rocciosa che dall’alto verso il basso scendeva a strapiombo, dalla cresta della montagna alla boscaglia sottostante. La stessa grotta che tutti dicano ospiti al suo interno una stalagmite con una singolare tale conformazione da conferirle le fattezze della Madonna. In piedi sul terrazzo Antonio sa solo che la grotta c’è, anche se non può vederla, giacché l’ora tarda avvolge tutto in una nera pezzuola.

    La boscaglia si stende informe e contorta per un paio di chilometri o forse più, prima di diramarsi a causa delle abitazioni e lasciar spazio ad ampi prati ben curati.

    Una strada gira a ferro di cavallo ed è asfaltata nella parte che costeggia la chiesa, all’inizio del suo tratto, per diventare poi carrareccia nella parte più centrale, quella che conduce a una costruzione dalle pareti gialle, proprio in piena curva ampia e larga, prima di tornare indietro.

    Nulla di tutto ciò era visibile ma Antonio seguiva la linea della strada da quel balcone, affidandosi alla memoria, alla certezza che tutto si dovesse trovare per ovvie ragioni sempre lì, fosse stato giorno o notte. Quel luogo non poteva tradirlo, ogni posto aveva un fatto da riferire e la notte amplificava il suono del racconto. Storie passate, riguardanti l’infanzia, le estati appresso ai suoi cugini ospite a casa degli zii, creando e cercando situazioni per quelle viuzze, consumando i prati, lanciando sassi e scovando anfratti: erano queste cose che componevano la voce che Antonio riusciva a sentire stando in silenzio in quell’ora specifica della sera, sul terrazzo isolato.

    Erano le sue storie, la sua vita, che quel paese, ferito e azzoppato, aveva fatto proprie e mantenute intatte, integre, come il più serio dei custodi; pronte per essere rispolverate e tirate fuori dalla loro custodia. Antonio si meravigliava nello scoprire quanto particolare e puntuale era la voce del ricordo che dall’oscurità lo colpiva dritto in petto. Questo lo faceva riflettere su tutte le altre storie che quel paese aveva osservato e che ora custodiva. Mille vite passate attraverso; per quelle strade e quei prati, luoghi dalla gloria consumata che sempre hanno qualcosa da dire e sono pronti al racconto, a patto che in silenzio, qualcuno si degni di tendere le orecchie.

    Quel tempo, ora, in quello spazio lì, sul terrazzo. Antonio amava questo, lo rilassava profondamente. Esagerando, quello era il suo Nirvana, così egli giungeva all’infinito, su un terrazzo nell’ora della quiete a interrogare lo spazio e il tempo: alti custodi che hanno tutte le risposte.

    Antonio è nell’età della paura, dei dubbi, delle mille domande; l’età dell’uomo che dentro di noi pretende di essere costruito. C’è invidia nell’animo del ragazzo per quel paese dormiente che tiene per sé il segreto, che nasconde la soluzione incisa nei muri delle case, nel vento, tra le fronde, che ha tutte le risposte e ristagna alla base della montagna gigante, così come ogni grande vecchio che tanto può raccontare perché tanto ha visto vivere.

    PARTE I

    .1.

    La serenata

    Un’improvvisa luce accecante riporta Antonio al tempo presente, nel mondo del reale. Fosse stato un teatro, si sarebbe aspettato l’arrivo del primo attore sulla scena, quello che compare sul palco dopo l’apertura del sipario quando la scenografia se ne sta muta ad attendere, tutta brillante sotto la calda luce dei riflettori.

    Nella suddetta occasione non si trattava di un teatro; non vi era un palco, né tantomeno una rappresentazione; c’era solo un potente riflettore, quello sì, e illuminava l’intero terrazzo dal basso verso l’alto, puntando da sotto la strada.

    Sotto di esso delle sagome nere si muovevano in modo disordinato a tratti convulso e si adoperavano scapestrate alla ricerca comica di una perfezione che richiedeva solo pochi interventi mirati.

    Gli uomini neri, che tali apparivano per contrasto sotto l’occhio della luce, componevano una piccola squadriglia che nessuno si era preso la briga di supervisionare e che quindi, lasciata a briglie sciolte, avrebbe di lì a breve stravolto l’intera situazione molto più dell’effettiva necessità.

    I protagonisti dell’azione che stava nascendo ai piedi del terrazzo, sulla strada prospiciente alla porta di casa, erano quattro uomini. Uno era un vero montanaro, un energumeno di sola apparenza burbero, con un cuore caldo e una tale voglia di rendersi sempre utile e pronto da definirlo come persona impagabile. Per tutto il pomeriggio si era dato da fare a tagliare affettati per la farcitura dei panini, contribuendo sostanzialmente ai preparativi di una festa che, a pensarci, non lo riguardava in prima persona. Il suo nome era Rolando e in paese lo amano tutti. Fosse egli un termine del dizionario, la sua spiegazione sarebbe così scritta: l’uomo giusto al quale dedicare un brindisi o un applauso, proprietario del riflettore trafugato alla cava di cemento in una notte d’inverno. Era lui il capo cantiere della serata; lui che aveva sistemato tavoli, panche e collegato la spina alla presa del frigorifero in casa di Sannino, altro membro della squadra organizzatrice.

    L’errore di Sannino era stato quello di gettarsi in strada appena dopo cena, lamentandosi del fatto che in casa sua non gli era possibile attaccare alcun elettrodomestico, per via di alcuni problemi dovuti a sbalzi di corrente.

    L’idea di Rolando era stata semplice; attaccare il riflettore, Almeno qualcosa si attacca, aveva detto per convincere Sannino, restio a mettere a disposizione le prese di corrente della sua cucina.

    Sannino era così: talmente ingenuo, o innocente, da trovarsi i guai per proprio conto ed essere buono a tal punto da non saperne uscire in altro modo sennonché con regolare assenso. Timidamente pronto a proporre la soluzione migliore perché più ovvia, quella che puntualmente è costretto a vedersi bocciare per essere poi approvata l’attimo dopo come trovata geniale, solo perché è stato qualcun altro con più carisma di lui a suggerirla di nuovo.

    Peccato non avesse con sé la videocamera, sarebbe stato uno spasso rivedere l’intera commedia che si sarebbe sviluppata; una prima talmente comica da non potersi altro che svolgere alle spalle dei riflettori, considerò Antonio alla fine dei lavori. Una videocamera, sì; perché Amerigo porta sempre con sé qualcosa che abbia un obiettivo in grado di rubare momenti; pronto a supervisionare, mettendo sul tavolo poche idee ma tanti consigli e correzioni; d’altronde egli è un tipo di città, a differenza dei primi due compagni. I suoi modi di agire sono più eleganti quando decide di operarsi in una manualità sporadica. Egli è più ordinato e composto in ingegno e trovate. La verifica delle sue idee è mentale, quella di Rolando e Sannino sfocia in procedure di attacca-stacca, muovi il riflettore avanti e indietro, allarga la luce, spegni un attimo, anzi accendi tutto, allora invertiamo i fili, spostiamo i tavoli, inverti l’ordine delle panche a destra e mettiamo il riflettore a sinistra, o le panche lasciamole lì e avviciniamo il riflettore, allora i tavoli mettiamoli nell’incavo del muretto, ma poi le persone non vedono lo scalino e inciampano, no, no, lascia tutto così che va bene, apri solo un po’ la luce, falla più larga, no troppo, sposta il faro, inquadra bene il terrazzo, ma poi si vede la macchia bianca sul muro.

    La macchia bianca sul muro era una sbavatura di vernice fatta da un pittore poco professionale.

    La pennellata orribile aveva dipinto un baffo bianco sulla parete color grigio della casa di Nino e Nino se ne preoccupava alquanto.

    Nino era il quarto membro del gruppo. Era anche lui un tipo che dalla città saliva al paese nei mesi estivi. Era poco loquace ma molto attento; uno di quelli che stanno seduti e prendono tempo, studiano la situazione e quando ci si aspetta un’osservazione accurata da uno sguardo intellettuale dietro occhiali dalle lenti troppo spesse, arriva il commento inappropriato o la tignosa pretesa che aggiunge un nuovo problema alla situazione di compromesso alla quale si è arrivati con non pochi intoppi.

    Il problema in quella splendida serata era per l’appunto l’odiata sbavatura sul muro dell’abitazione di Nino che, trovandosi alla base del terrazzo era a suo avviso troppo esposta alla luce; inoltre a un’eventuale ripresa di videocamera, sarebbe entrata nell’inquadratura, condannandolo all’imbarazzo.

    L’operazione andava complicandosi e sarebbe durata una buona ora e mezza, tra spostamenti e misurazioni varie. Una tortura per il povero riflettore che subiva tirate di collo e aperture spasmodiche del suo occhio luminoso, vittima della realtà di un paese. Perché c’è poco da fare, ogni evento, per quanto insignificante, quando è fuori dall’ordinario, in un paese diviene una prerogativa. Ogni ricorrenza è una festa nazionale e tutto deve essere perfetto. Per tali motivi lo spettacolo è unico: osservare l’indeterminata situazione di un lavoro svoltosi sotto la luce puntata di un riflettore, dove chiunque si sarebbe divertito a udire voci e ombre agitarsi alla conquista di una perfezione ricercata non tanto per ottenerla, ma per il solo gusto di provare e riprovare, in un’insensata gara al rilancio d’idee strampalate.

    Disporre per comporre e scomporre sempre allo stesso modo, nella convinzione di aver trovato a ogni tentativo, qualcosa di diverso e migliore. Ombre lente, nere, a dispetto del moto di un riflettore che sale e scende senza pace.

    La situazione poi volse irrimediabilmente alla conclusione non per risultato raggiunto, non per adeguato compromesso delle parti, per risposta a tutte le esigenze, ma solo perché non c’erano più nuovi tentativi da fare; tutto si era provato, tutto era stato invertito e rimesso a posto. Se banchi, panche e luci, macchie e cavi, matematicamente offrivano mille combinazioni diverse, Rolando, Sannino, Nino e Amerigo ne avevano trovate e provate mille e due.

    La conseguenza di tutto ciò appare un po’ triste. I tentativi possibili erano finiti troppo presto, dal loro punto di vista. L’ingegno messo in moto esigeva altri problemi da risolvere e a farne le spese fu un albero che se ne stava tranquillo, lontano dalla scena circa trenta metri con la colpa, ingiustamente detta, di allungare un suo ramo sopra la strada, in direzione del terrazzo. Stava così in disparte che nemmeno la luce del riflettore arrivava a toccarlo, ma le cose da fare erano terminate e la festa sarebbe iniziata solo tra un’altra ora circa.

    Il ramo fu amputato per troppa perizia, forse più giusto è ammettere che fu uno sfogo di violenza dovuta alla paura di annoiarsi.

    Rolando aveva notato quel ramo e aveva considerato la possibilità che potesse dar fastidio alla scena, danneggiando il quadro finale della composizione appena confezionata. Fosse iniziata la festa, nessuno avrebbe dato credito a quel ramo che lento negli anni si era guadagnato quella posizione e allungava la mano con tanto garbo, ma purtroppo il ramo fu spezzato, offrendolo in sacrificio al buon spirito paesano e alle leggi degli abitanti, figli di generazioni e di leggende marchiate dalla storia.

    Si faccia infine giustizia e sia ricompensata la fiducia riposta nella squadriglia capitanata da Rolando, che altro non può che puntare alla perfetta riuscita dell’evento. Un lavoro così accorto che nulla toglie alla considerazione che si potrebbe fare a posteriori, ovvero che la festa in un paese, di qualunque genere si tratti, è sempre ben riuscita, perché il faro è puntato, i tavoli disposti e i panini avvolti nei fazzoletti traboccano dalle ceste di vimini; e sarà servito vino e cocomero a volontà al tavolo delle bibite.

    Era quella la notte della serenata, con i parenti di Antonio riuniti. Taluni sarebbero arrivati persino dal Brasile l’indomani, nel giorno stesso del matrimonio.

    Tutte le signore anziane già da un bel pezzo si erano impadronite dei meglio posti a sedere, premunite di coperte di lana e pile per far fronte al freddo puntuale della notte.

    Antonio era sceso dal terrazzo e si aggirava timido tra la folla, salutando sconosciuti e ritrovando ragazzi cresciuti come lui e con i quali aveva condiviso le avventure di estati passate insieme nei prati.

    In casa non si poteva stare, la soglia della porta d’ingresso era invalicabile. Aspettavano tutti l’arrivo del futuro sposo che si attardava com’è giusto che sia, a vantaggio di una sempre ben misurata e palpitante attesa.

    Le persone si erano riversate tutte in strada, scesi persino dalla Rocca, chi per conoscenza, chi per curiosità, altri ancora nella certezza di trovare cibo e vino.

    L’arrivo dello sposo fu accompagnato da un fracasso; l’auto era gigantesca, di quelle berline talmente enormi da sembrare dei suv.

    Il mezzo avanzava lento per via della folla; strombazzava in modo irritante e fastidioso, tanto che le anziane non ancora incaprettate, cominciarono a dar voce al pensiero di tutti, maledicendo il guidatore.

    Lo zio di Antonio, padre della sposa, sorrideva nel tentativo di celare l’imbarazzo. Amerigo riprendeva con la sua immancabile videocamera.

    La luce bianca dei fari accecava i bambini e concorreva la scena alla luce del riflettore.

    - Ma è Pasquale! – gridò a tutti il padre della sposa dopo aver sbirciato attraverso il finestrino, rincuorato che non fosse stato il suo futuro genero e ripeté la cosa in modo che tutti sapessero che sua figlia si era scelta un uomo più equilibrato.

    Quello era Pasquale; simpatico a tutti perché a tutti faceva antipatia.

    Aveva all’incirca una settantina d’anni e non intendeva limitarsi: auto di lusso, abbronzatura caraibica a contrasto con la capigliatura bianca e folta che portava pettinata all’indietro, e terza o quarta moglie barra compagna sul sedile accanto di quarant’anni più giovane e dai lineamenti sudamericani.

    Continuava ad avanzare senza curarsi del fatto che si stava infognando in una strada che non continuava, perché interrotta da tavoli e riflettori, ma è la natura involontaria di Pasquale che lo porta puntualmente a rubare la scena e ora è fermo e l’auto è accesa con un treno di persone che a turno, affacciandosi dal finestrino e inalando puzzo di sigaretta dell’interno, tentano concitatamente di farlo spostare il più in fretta possibile per non adombrare l’arrivo dello sposo.

    Pasquale si scusa, perché è un gentiluomo; chiude i finestrini e voltandosi dice alla

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