Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia
I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia
I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia
Ebook434 pages6 hours

I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook


Una sensitiva cieca, un uomo misterioso perseguitato da un’antica maledizione, un druido dispotico e un aspirante mago. Sono quattro personaggi che poco o nulla sembrano avere in comune, ma condividono, loro malgrado, lo stesso destino: attraverso un sogno vengono convocati alla torre bianca di Eulasia, un luogo magico, sconosciuto ai più, dimenticato nel cuore di una foresta selvaggia.
Il motivo della chiamata non è stato rivelato, ma i quattro decidono di rispondervi.
Inizia così per i Prescelti un viaggio ammantato di mistero e disseminato di pericoli: il sogno di Eulasia ha infatti scatenato contro di loro una minaccia mortale, che li braccherà senza sosta.
 
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateNov 30, 2017
ISBN9788867826797
I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia

Related to I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    I racconti delle terre conosciute - I prescelti di Eulasia - Andrea Berra

    pagine

    La Veggente

    La tempesta si abbatté sulle maestose scogliere di Fainal nel cuore della notte, con tutta la sua furia repressa.

    Il vento, suo impetuoso messaggero, ne aveva annunciato l'arrivo già a tarda sera, sferzando impietoso i verdi tappeti d'erba dell'isola e urlando rabbiosamente tra gli innumerevoli fiordi.

    Ora che l'oscurità sopraggiungeva, le onde del mare, docili e mansuete durante tutto il giorno, si gettavano contro l'imponente roccia come una mandria impazzita, schiumando di rabbia, mentre il borbottio del tuono si mescolava allo scroscio della pioggia, che copiosa e fredda inzuppava ogni cosa.

    Tamburellava nervosa anche sul tetto di pietra della mesta abitazione che si affacciava a picco sulla Baia delle Fulchene, mentre la brezza scuoteva indelicatamente le piccole persiane delle finestre, sibilava irriverente tre le fessure delle pareti e bussava senza sosta alla pesante porta in legno. Le nuvole sopra la casa avevano preso ad agitarsi come un gregge di pecore nere inseguite dal lupo: tra di loro si rincorrevano e si scontravano, esplodendo tuoni in ogni momento. Uno di questi sembrò sfogarsi proprio sopra la piccola dimora, riempiendola di un fremito elettrico.

    Ma non fu quest'ultimo, né la furia degli altri elementi, a destare Evel da un sonno profondo.

    Nell'oscurità il respiro era affannoso e il corpo nudo madido di sudore, non per quello che accadeva fuori le mura di quel luogo che lei chiamava casa, ma per quello che aveva appena avvertito nei suoi sogni.

    Con sicurezza, nel buio si alzò in piedi e si vestì, infilandosi il saio nero.

    Aprì la porta della camera, trovò a tastoni la balaustra della ripida scala e scese al pianterreno.

    Qui, l'unica sala circolare era illuminata dal grande camino ardente. La sua luce vermiglia giocava con le ombre sul pavimento di pietra fredda, illuminando fiocamente il tavolo al centro della sala, lasciando in penombra le spoglie pareti.

    Al bagliore ramato della fiamma si stagliava una massiccia figura d'uomo.

    Voltava le spalle a Evel, le braccia protese verso il fuoco, le palme delle mani aperte a catturarne il calore. Indossava anch'egli un lungo saio nero di lana grezza, dotato solo di un cappuccio e di una cintura.

    Nonostante la ragazza fosse giunta senza fare alcun rumore e nonostante la pioggia, l'uomo la sentì arrivare.

    – Non riesci a dormire neanche tu, Evel? – seppur avesse parlato senza sforzo, la voce profonda e baritona sovrastò la tempesta.

    – Erano anni che non arrivava un temporale così violento. –

    Evel parlò mestamente, la flebile e acerba voce in contrasto con quella di lui. – Non è per il temporale che sono sveglia, ma per il sentore che ha portato con sé. –

    – Anch'io ho come un presentimento che m'inquieta. Questo vento proveniente da nord–est si trascina qualcosa, ma non so ancora cosa sia. –

    – La morte – sentenziò lei, senza tradire la minima emozione.

    L'uomo girò di scatto la testa canuta, segno della non più giovane età.

    – Come? – chiese stupito.

    – Sento l'odore della morte, Alek Tobar; questa tempesta ha portato con sé il sangue di migliaia di anime. –

    Lentamente l'uomo si voltò del tutto, portandosi di fronte a Evel.

    Studiò la sua allieva, con lo sguardo corrucciato: vestita come lui, al suo confronto appariva come un'aggraziata miniatura. I lunghi capelli rossi, raccolti dietro la nuca, incorniciavano un viso tondo, perfettamente appoggiato su un esile collo.

    – E c'è dell'altro… – la giovane ebbe un'esitazione.

    – Dimmi Evel – Alek tradì la sua ansia. La fissò nei grandi occhi color miele, pur sapendo che lei non avrebbe ricambiato.

    – Ho avuto una visione nel sonno, – trasse un profondo respiro prima di continuare, – sono stata chiamata presso una torre bianca. –

    – Una torre bianca? –

    – Sì, una torre bianco perla inclinata di lato, in un'angolazione assurda. Lei… mi stava chiamando. –

    – Oh per gli dei – esclamò lui. Poi, quasi a dare una spiegazione alternativa, domandò: – Non poteva trattarsi solo di un sogno molto vivido? –

    – No, – negò lei con fermezza – lo sai che non mi sbaglio, e quel luogo ha un nome che anche tu conosci: Eulasia. –

    L'uomo si portò una mano alla bocca, a reprimere un’emozione che non voleva esternare.

    – Dove hai sentito quel nome? –

    – Non l'ho sentito, lo so e basta, come so che anche tu lo conosci. –

    La giovane si calmò un attimo, poi cercò di riprendere il discorso: – Tobar… – incominciò ma subito esitò nel continuare, non palesando le sue emozioni, ma lui capì che quella visione doveva averla sconvolta.

    Ora, fissandola meglio, Tobar notava i segni di quanto fosse provata: il viso era imperlato di gocce di sudore, pallido come la luna nei mesi d'autunno; il respiro, seppur silenzioso, tradiva il suo affanno con il movimento troppo rapido delle spalle.

    – …Dobbiamo andare alla fortezza – dichiarò lei infine.

    L'uomo trasse un profondo respiro di rassegnazione, poi convenne: – Hai ragione, dovremo avvertire il Gran Consiglio della tua visione. –

    Era evidente che la cosa non lo entusiasmasse.

    Quella stessa sera, prima che le nuvole incupissero completamente il cielo, qualcos'altro arrivò a Fainal, qualcosa che non aveva nome né sull'isola né sul continente, perché non vi era mai esistita prima di allora. Come la tempesta, aveva velocemente attraversato gli oceani prima di giungere dov'era e, a differenza di quest'ultima, aveva esaurito tutte le sue energie durante il viaggio.

    Le ultime forze le aveva spese per trovare quell'unico, angusto accesso all'isola, in mezzo a una barriera ininterrotta di invalicabili scogliere che era la baia delle Fulchene. Questa infatti non si apriva a mezzaluna sulle acque come di norma facevano le baie e i golfi, ma era un semi anello di spiaggia arretrato rispetto alla linea della costa, che si collegava al mare aperto con una stretta fenditura nella parete continua di roccia, una porta larga una decina di braccia e alta una quarantina. Qui le onde si scagliavano con ferocia inaudita e testarda contro l'impassibile bocca calcarea, sfogando tutta la loro boria in schiuma e spruzzi che salivano fino al cielo, per poi attraversare la stessa, ormai sconfitte e soggiogate, ridotte in tenui increspature, per andare a morire sulla sabbia bianca, testimonianza di un passato geologicamente diverso.

    La creatura ne seguì il percorso fin quasi al bagnasciuga e da lì emerse dall'acqua solo con la testa, preferendo prima fermarsi per ispezionare l'ambiente circostante. Nelle basse acque tranquille, oltre alle fulchene, che in quel tempo di inizio primavera tardavano ad arrivare, trovavano dimora alcune imbarcazioni leggere, legate con delle cime a un rudimentale porticciolo in legno. Le teredini attaccate agli scafi e il generale stato d'incuria erano un segno dello scarso utilizzo che la gente dell'isola ne faceva; forse erano state usate saltuariamente per pescare e per recarsi (ma questa era un'ipotesi meno probabile, visto la distanza che li separava) nel continente.

    Il porticciolo terminava in un non meglio curato sentiero che spariva nel folto della vegetazione, la quale cresceva rigogliosa a pochi passi dalla rena. Le piante però non avevano molto spazio per proliferare, poiché alle loro spalle si ergeva una muraglia di roccia altissima, dalle fattezze simili alle scogliere dell'isola. Nella poca luce della notte nuvolosa, a tratti rischiarata dai lampi, la parete appariva bianca come l'avorio. Nonostante la roccia sembrasse a prima vista impraticabile, guardando bene vi si potevano scorgere i segni dell'uomo: un piccolo ponte di legno, funi tirate tra due sporgenze a metà parete, un abbozzo di scala scavata nel calcare e corde e picchetti sparsi qua e là costituivano insieme l'unico passaggio per l'altopiano dell'isola. Il sentiero che partiva dall'attracco e che spariva nel verde doveva sicuramente condurre all'inizio della scalata. La creatura stette un momento a fissare il buio nero che si trovava sull'altopiano, dove finiva la bianca roccia: nulla si poteva scorgere se non una tenue luce, appena visibile da quella distanza, proveniente dalla finestra di una costruzione. Lì forse avrebbe potuto trovare ciò per cui era venuta, ma la roccia a picco che li separava e il vento e la tempesta che vi sbattevano contro le ispiravano una prudenziale insicurezza. Nella piccola baia, invece, avrebbe ripreso le forze, dopodiché avrebbe dovuto semplicemente aspettare, anche se avrebbe potuto trattarsi di un'attesa molto lunga. Il dilemma la tenne sospesa ancora per qualche indeciso attimo, poi tornò a immergersi completamente. L'istinto di predatore le diceva che nel suo ambiente naturale avrebbe avuto maggiori possibilità di successo. Lentamente si adagiò sul basso fondale dell'insenatura. Poco importava per quanto tempo avrebbe dovuto attendere: quello era l'unico passaggio per abbandonare l'isola. Mentre il fortunale si scatenava in superficie, chiuse gli occhi, preparandosi placida e paziente; nell'acqua avrebbe atteso la sua preda che prima o poi vi sarebbe transitata, e nell'acqua l'avrebbe ghermita.

    Il Marchiato

    Sotto lo sguardo placido della luna, il vento soffiava fresco e incostante tra le fronde degli alberi nella Foresta di Quernin; come il respiro di un gigante addormentato, alternava momenti di quieta attesa a leggere folate che spazzavano dal sottobosco le foglie secche. Queste, di colpo ridestate dal loro oblio, sembravano animarsi di una volontà propria, compiendo volteggi e acrobazie nell'aria tersa, sotto il chiarore rarefatto della luna.

    In quella porzione di terra di alberi, la vegetazione era più rada e il sottobosco meno impraticabile. Forse perché già ci si trovava nella parte più a ovest di quella immensa distesa verde che occupava buona parte del sud del Vallad, chiamata appunto Foresta di Quernin.

    Qui le antiche querce e i nobili faggi, i robusti castagni e le snelle acacie cedevano lentamente spazio alle betulle e agli stoici abeti, a prati erbosi e alla nuda roccia, diventando sempre più radi fino ad arrivare ai piedi del Theremoth, la grande catena divisoria. Tra una radura e l'altra, serpeggiando nel sottobosco, si snodava una stretta e appena marcata via, una delle poche scorciatoie battute dalle carovane leggere e dai corrieri che si staccavano dalla via maestra del Mar dell'Ovest per tagliare diagonalmente la foresta e giungere prima alle grandi città del Nord. Era poco più di un sentiero strappato con forza alla foresta dai pionieri del commercio e mantenuto in funzione dalla caparbietà e dal coraggio degli ambulanti e dei viandanti, che puntualmente si insinuavano in questi angusti e perigliosi percorsi per consegnare prima le loro merci ai grandi mercati.

    Accanto a uno dei tortuosi passaggi di questa strada sorgeva un cipresso. Alto più di cinquanta braccia, gettava i suoi rami sopra il sentiero, quasi a proteggerlo dai capricci del cielo. Su uno di questi nodosi ponti sospesi, nascosto tra le fronde appena rinverdite dalla primavera incalzante, stava comodamente seduto un uomo.

    Teneva le spalle appoggiate al tronco della pianta e le gambe allungate sul ramo; i suoi nobili lineamenti e gli abiti aristocratici ne tradivano il lignaggio; con gli occhi chiusi, completamente immobile, sotto la luce della luna che filtrava tra le foglie, appariva come una statua.

    Ma non lo era, né stava dormendo.

    Aspettava.

    Il suo istinto di cacciatore, affinato nei tanti anni di esercizio, lo aveva portato fin lassù e lui sapeva che, come al solito, non sbagliava. Inoltre Memitim aveva iniziato a fremere a intervalli regolari.

    Non gli importava per quanto avrebbe dovuto attendere, il tempo per lui aveva ormai perso ogni significato.

    Quello era un luogo di passaggio per i mercanti e pellegrini più coraggiosi o più sprovveduti e un ottimo posto per briganti ed esseri senza scrupoli.

    Esseri come lui, che un tempo era un uomo che si chiamava Madron, della casata Kientanj, e che era stato il Primo Jalharan dell'unico regno degli uomini nella Terra del Fuoco, Illinjara.

    In quella chiara notte, prima o poi avrebbe avuto la sua occasione.

    Una leggera brezza soffiò tra i rami, facendolo irrigidire di colpo.

    Spalancò gli occhi e si concentrò sull'odore che il vento gli aveva portato. Il suo sensibile olfatto riuscì subito a discernere gli elementi di quel miscuglio di aromi.

    C'era l'odore forte e acre di cavalli, probabilmente accentuato dallo sforzo delle bestie nel trainare qualcosa di pesante; c'era l'olezzo pungente di umanità che da giorni non curava il proprio corpo; e c'era una leggera vena di ferrugine, quasi nascosta da un nauseabondo odore di grasso.

    Prima ancora di vederla arrivare, Madron sapeva che si trattava di una carrozza di contrabbandieri, che trasportavano illegalmente armi verso il sud del paese, nascondendole in otri pieni di grasso di dromonano.

    Il motivo di quel trasporto in una zona così lontana dalle vie di commercio ordinarie non lo incuriosiva: da tempo aveva smesso di interessarsi del mondo che lo circondava, curandosi solo della sua sopravvivenza.

    Calò la mano sull'elsa della Mietitrice, che già aveva incominciato a vibrare più intensamente.

    – Pazienza, mia vecchia amica – si rivolse alla spada, come se fosse dotata di una sua coscienza.

    Intanto il carro si era reso visibile in lontananza, apparendo in uno spiazzo tra gli alberi, illuminato dalla luna.

    Nonostante la distanza Madron riuscì a scorgere chiaramente il viso dei tre uomini che lo portavano, e ciò lo deluse alquanto. In quei volti tirati quel che vedeva non erano gli occhi di persone spietate: in essi non vi brillava la fiamma corrotta della cupidigia. L'unica cosa che vi si agitava era la paura.

    Madron comprese subito che non erano dei contrabbandieri di mestiere, bensì dei disperati, imbarcatisi in quella rischiosa impresa spinti più dalle necessità che dalla malia dei guadagni facili.

    Non era ciò che stava aspettando. Memitim stava fremendo sempre di più sotto la sua mano. Lasciò l'elsa per non sentirla, chiuse gli occhi e si abbandonò di nuovo contro il tronco della pianta.

    Era seccato; le miserie umane non lo interessavano più, ma, forse ancora succube degli antichi valori della precedente vita, non riusciva ad approfittare degli inermi. Al contrario, la Mietitrice non faceva alcuna distinzione tra una preda e l'altra, e lo stava sempre più prepotentemente richiamando al suo dovere.

    Mentre la carrozza si stava avvicinando, Madron si chiese come avesse potuto accadere un suo fallo.

    Non era mai successo in tutto quel tempo e ciò lo lasciava perplesso. Forse le sue straordinarie capacità si stavano attenuando? Ma se così fosse stato, anche la sua condanna sarebbe giunta alla fine?

    Non ebbe il tempo di rispondere alle sue stesse domande, perché qualcosa travolse la sua attenzione.

    Aprì di scatto le palpebre che aveva appena chiuso, ma non comparvero più gli espressivi occhi scuri, bensì due sfere vitree, che fissavano un luogo che non si trovava lì.

    Rimase in trance per alcuni lunghi istanti, poi, lentamente, i lineamenti pietrificati si rilassarono, gli occhi ritrovarono il loro colore naturale.

    Trasse un respiro più profondo degli altri, come quando si compie un piccolo sforzo, e poi, con sua stessa meraviglia, sorrise.

    Sorrise come non faceva da anni, stirando le sottili labbra e scoprendo i denti perfetti, regolari e bianchissimi.

    – Notevole! È riuscito a mandarmi una visione in pieno stato di coscienza, – disse a sé stesso continuando a sorridere, – il vecchio deve essere davvero bravo come si narra nel Libro delle Ere. –

    Finalmente, dopo un tempo infinito di noia, era accaduto qualcosa degno di rilievo: qualcuno aveva prodotto nella sua mente una forte visione per richiamarlo, un'esperienza che finora non aveva mai provato.

    E un altro sentimento si stava incuneando nel suo arido animo, la curiosità.

    – E cosa mai vorrà da me questo personaggio? Forse tendermi una trappola? Oppure chiedere i miei servigi? – si chiese, ma ancora una volta non poté darsi una risposta, perché dovette focalizzarsi su un nuovo particolare.

    Adesso non si trattava però di una visione, ma bensì di un nuovo odore nell'aria. Era ancora flebile, segno che non veniva dalla carovana che ormai stava per passare sotto di lui, ma nonostante la debole traccia Madron lo riconobbe subito: era lo stesso che sentiva nei guerrieri prima che scendessero in battaglia, nei ladri prima che sfilassero il borsello a dei nobili accompagnati dalle guardie personali.

    Ed era lo stesso odore dell'eccitazione che trasudava dalla pelle dei banditi che infestavano quella foresta, prima di tendere un'imboscata.

    Le labbra si allargarono nuovamente sul viso, ma questa volta disegnarono un ghigno malevolo che ne stravolgeva i delicati lineamenti. Gli occhi, un attimo prima neri e rilassati, divennero due sfere buie. Proteso in avanti come pronto a saltare, apparve contro la luna come un felino in agguato.

    Portò nuovamente la mano sull'elsa e la sentì fremere mentre la sfoderava.

    – Non ti preoccupare, – la calmò, come parlando a un vecchio compagno d' arme, – l'attesa è finita. –

    Presto tutti e due sarebbero stati soddisfatti.

    Il giovane Harek Breghius non ne poteva più di aspettare in quella maledetta foresta; il vento ancora freddo, che spirava impunemente tra i cespugli, si mescolava all'umido del sottobosco marcescente, penetrando fino all'osso nelle sue povere, intorpidite membra. Era dal tramonto che attendevano nella quasi immobilità, accovacciati su un letto di foglie, e il ragazzo temeva che se mai avesse dovuto alzarsi di scatto probabilmente avrebbe spezzato le gambe, rimanendo solo col torso. Guardò torvo per l'ennesima volta Ikan Diaku, il loro (indegno) capobanda, che imperterrito continuava a scrutare con il suo unico occhio buono quello stralcio di via che si poteva intravedere tra gli arbusti e i rovi.

    – Mi puoi spiegare, grande capo, – bisbigliò, ma con un tono carico di stizza, – per quale motivo continuiamo a stare qui, fermi come dei sassi, a gelarci il sedere invece di accendere un fuoco un po' più in là? Potremmo sempre sorvegliare questo schifo di sentiero a turno, sempre che ne valga la pena, visto che non lo usa nessuno… –

    Non riuscì a finire la frase, perché la mano di Ikan si era già stretta attorno al suo collo, impedendogli di respirare.

    Il capo dei briganti lo teneva in una morsa tremenda, tanto che la sua gola rischiava di implodere irrimediabilmente. Ikan si voltò lentamente verso di lui, freddo e impassibile come sempre.

    – Certo, potremmo accendere un bel fuoco un po' più in là, – mormorò lentamente, la voce bassa ma tagliente come l'aria di quella sera, mentre l'altro stava per soffocare, – e magari fare un allegro bivacco e metterci a riposare tutti; ma dubito che ci sveglieremmo mai da quel sonno. Vedi, questa è una delle zone più infestate dai delinquenti e anche se ci accomuna la stessa professione, solitamente non siamo molto gentili tra di noi. –

    Osservò attentamente il viso ormai paonazzo del ragazzo, prima di allentare lievemente la presa; Breghius tornò a respirare avidamente, con un rantolo roco e sibilante allo stesso tempo. Mentre l'altro continuava a fissarlo, lui non riusciva a ricambiare, limitandosi a guardare l'occhio sinistro, vitreo e bianco come la luna di quella sera.

    – Sono anni che mi aggiro in questi postacci e se oggi sono ancora vivo è perché sono quasi sempre stato prudente, – continuò, – solo un paio di volte non lo sono stato, e in una di queste ci ho rimesso l'occhio – avvicinò la sua faccia a quella del giovane, un sorriso divertito spezzava quella maschera di pietra che aveva al posto del volto. – Ho sempre sotto i miei occhi le conseguenze dei miei errori; e meno male che non ho pagato ogni volta, altrimenti adesso sarei cieco. –

    Poco più in là Budrog e il Gobbo soffocarono a stento una risata, che fece allargare ancor di più il sorriso del capobanda, ma Breghius non ci trovava nulla da ridere. Mentre ancora lottava per respirare, nel suo cuore si mescolavano la paura per quell'uomo gelido e pericoloso, e la voglia di ucciderlo. Non era un desiderio partorito in quel momento, concepito da madre vendetta e padre orgoglio ferito, ma era un'idea già fiorita quando si era unito a quella banda di delinquenti. Bramava il potere, e il primo passo per attingerne qualche sorso era quello di diventare capobranco. Troppo giovane per farsene uno suo, perché non rubarlo a chi già l'aveva? Doveva trovare solo il modo di farlo in maniera plateale, da degno successore, dimostrando di essere il più forte e il più crudele, rispettando così le regole non scritte dei banditi. Sulla crudeltà sapeva di partire già avvantaggiato su tutti; lui non era un freddo predone calcolatore come Ikan, che considerava l'assassinio un mezzo per sopravvivere; in quel breve tempo passato a depredare Harek aveva capito una cosa: quel mestiere per lui era una specie di vocazione, gli aveva rivelato la sua vera anima e aveva scoperto che era nera come la pece; a lui piaceva infliggere sofferenze altrui, godeva del dolore degli altri, non gli importava dei bottini, del denaro o del cibo che racimolavano nelle loro scorribande, ma era lo sguardo pieno di paura delle loro vittime ad appagarlo, il dolore ultimo che provavano prima di morire. Per quanto riguardava la sua abilità in combattimento, invece, era conscio del fatto di avere ancora dei punti da prendere rispetto al suo capo, un assassino di lunga gavetta; ma qualche piccolo stratagemma avrebbe potuto accorciare le distanze, come per esempio quella fiaschetta che si portava segretamente dietro da un po' di tempo: il suo contenuto rallentava i riflessi e intorpidiva le membra, non troppo da far scoprire il gioco sporco ma sufficiente a rendere un possibile scontro alla pari, o, ancora meglio, un po’ più a suo vantaggio. Mancava solo qualche dettaglio e l'occasione, ma il piano era già bell'e che pronto.

    Ridi pure adesso, maledetto orbo, pensò, con il respiro ancora raschiante per la stretta, perché tra non molto ballerò sulla tua tomba.

    – Come dicevo prima di questo momento d'ilarità – riprese Ikan, tornando nuovamente serio – vedo, o meglio, non vedo ogni giorno le conseguenze di uno sbaglio, per questo cerco di non farne più. E credo di essere diventato abbastanza bravo nel compito, visto che sono ancora vivo e ho ancora un occhio. Ti metto a conoscenza del fatto che sono anche il capo di questa piccola famiglia di sciacalli, per questo pretendo che i miei sottoposti facciano lo stesso. O almeno che non facciano stupide domande come le tue, ma si limitino a eseguire scrupolosamente i miei ordini – si avvicinò ulteriormente, tanto vicino che il giovane non poté fare a meno di respirare il suo fiato nauseabondo. – So per esperienza che chi fa troppe domande non esegue scrupolosamente i miei ordini, e ciò porta a commettere inevitabilmente degli errori, che non sono tollerati. Ti invito caldamente a pensarci un paio di volte prima di aprire nuovamente quella fogna di bocca, sono stato sufficientemente chiaro? –

    Di colpo il capo dei briganti staccò la mano dal collo di Harek, scoprendo due lividi rossastri.

    Il giovane cercò di rispondere affermativamente alla domanda, ma dalla gola uscì solo un rantolo, subito soffocato da un colpo di tosse. Ma in quel frangente il suo capo aveva avvertito qualcos'altro. Gli premette con forza una mano sulla bocca, mentre con l'altra gli faceva segno di rimanere in silenzio. Vi rimase egli stesso per un lungo attimo sospeso, mentre il ragazzo cercava disperatamente di fermare la tosse che rischiava di trasformarsi in un conato di vomito. Poi emise con perizia il verso del gufo. Quasi subito ottenne in risposta un paio di squittii altrettanto abilmente riprodotti: erano Sandel e Parret, un centinaio di passi più in là, tornati dalla loro ronda.

    – Sta arrivando una carrozza – sul viso marmoreo di Ikan si allargò ancora una volta un sorriso tagliente, prima che si dedicasse a un altro verso, stavolta simile a quello di uno scoiattolo. Di rimando arrivò il cinguettio di un passero. – E sono solo dei mercanti, senza scorta! – il capo dei briganti sembrava estremamente compiaciuto. – Tutto ciò che potevo chiedere in questa splendida notte di luna piena. Ora ragazzi bisogna muoversi – il tono era tornato freddo e autoritario, il viso di nuovo stalattitico. – Budrog! – chiamò, e questo rispose con un grugnito, – Tu e il Gobbo portatevi più avanti e state pronti a far cadere il tronco al mio segnale. Una volta che è andato giù fatevi vedere da quelli sulla carrozza: cercheranno di scendere per ingaggiar battaglia o scappare, ma appena saltati giù troveranno me, Sandel e Parret. –

    – E io? – chiese Harek con la voce che ancora stentava a uscire.

    – Tu? – Ikan lo guardò come se lo stesse vedendo per la prima volta.

    – Cosa farò io? –

    – Tu, mio caro ragazzo, te ne starai buono e in silenzio proprio dove ti trovi seduto adesso, mentre i grandi faranno il lavoro da grandi, onde evitare che tu commetta i famosi errori di cui parlavamo prima; sono stato chiaro? – Ikan sorrideva di nuovo, ma ora il suo sguardo era più glaciale che mai; il giovane si limitò ad annuire.

    – Bravo cagnolino, se farai la cuccia come si deve ti porterò un osso – lo schernì ancora, suscitando qualche abbozzo di risata tra gli altri.

    Nello stesso istante si udì il rumore ancora lontano delle ruote di legno che arrancavano sul sentiero.

    – Muoviamoci – ordinò truce. In un lampo i due sabotatori sparirono tra il folto del sottobosco; Ikan si fermò in ascolto ancora un attimo per valutare le distanze e i tempi, lanciò un'occhiataccia a Breghius, che di nuovo non poté permettersi di ricambiare, e poi anch'esso si dileguò tra i cespugli.

    Solo. L'aspirante capobanda era rimasto solo, con unico compagno il suo orgoglio ferito, che si agitava e dimenava sotto una caligine di rabbia. Non aveva dubbi in merito al motivo per cui era stato messo da parte: Ikan lo aveva voluto umiliare davanti ai suoi fratelli, rendendo palese a tutti il suo collocamento come ultima ruota del carro all'interno della banda.

    Che faccia di pietra avesse intuito le sue aspirazioni e stesse buttando acqua sul fuoco non ancora appiccato? Ma non sarebbe riuscito a fermarlo: presto lui lo avrebbe messo in scacco, e gli avrebbe fatto ingoiare tutta la sua gelida tracotanza. Forse avrebbe potuto seguirlo proprio in quello stesso istante, pensò Breghius; sicuramente si era nascosto pochi passi più in là, vicinissimo al limitare del sentiero, per poter meglio seguire la carrozza. Se fosse riuscito a strisciargli alle spalle, avrebbe potuto spintonarlo in mezzo alla strada proprio mentre passava la carrozza, facendolo schiacciare sotto le ruote; sarebbe apparso come un incidente. Certo avrebbe perso l'occasione di mettersi in mostra davanti agli altri, eppure in quel frangente, sedotto dalle aspirazioni vendicative, la cosa gli appariva estremamente appetibile.

    Il carro stava già per passargli davanti; non ne distingueva la sagoma dalla posizione in cui si trovava, ma ne intuiva il movimento dal rumore e dai buchi di luce che si oscuravano in mezzo al fogliame; se voleva agire doveva decidersi subito. Nella sua mente si accavallavano velocemente pensieri sui rischi e le possibilità, l'azione e il suo effetto, il tutto sommerso da un miscuglio di sentimenti: rabbia, paura, cupidigia, euforia, per tornare all'odio e poi di nuovo alla paura che riempiva la bocca di ruggine. Il tutto vorticava nella sua testa, portandogli i nervi a fior di pelle. I sensi oltremodo acuiti e allertati gli permisero di avvertire il rumore alle sue spalle un vero frastuono nel silenzio della foresta, al quale trasalì e istintivamente urlò.

    Dopo, tutto avvenne con velocità incredibile. Si voltò di scatto, il coltellaccio già impugnato, pronto a essere affondato nel ventre del suo assalitore, ma non vide nessuno; solo, là dove avevano lasciato le loro poche cose, un grosso pezzo di ramo caduto che aveva centrato le loro vettovaglie, causando appunto quel maledetto fracasso. Dal passaggio intanto partiva lo schiocco di frusta accompagnato dal nitrito infastidito dei cavalli, poi il cigolio delle ruote di legno, lanciate a tutta velocità, diventò un roboante clangore; più lontano, le urla concitate di Ikan si perdevano tra il rumore frusciante del ramo che si schiantava. Breghius riuscì ancora a carpire qualche imprecazione urlata e ordini sconclusionati, sbraitati disperatamente, e il rumore della carrozza che si faceva sempre più lontano; poi più nulla. Solo allora il ragazzo si rese conto che in tutto quel frangente lui non si era mosso, rimasto inebetito e al sicuro nel suo nascondiglio. Questo non lo avrebbe sicuramente messo in buona luce davanti agli altri.

    Si mosse verso il sentiero, immerso in un silenzio innaturale, più preoccupante del frastuono di un attimo fa. Mentre metteva piede sulla via si augurò solo che Ikan fosse in qualche maniera morto, investito dalla carrozza o schiacciato dal tronco d'albero che avrebbe dovuto bloccarne la fuga; meglio ancora se fosse stato morente, avrebbe potuto sorridergli mentre se ne andava all'altro mondo. Invece Ikan era lì in piedi, che gli avanzava incontro, gli altri predoni sparsi attorno. Fissavano tutti lui, non era un buon segno. Il giovane incominciò ad avvertire un formicolio alla base del collo. Il capobanda avanzava lentamente e in silenzio, lo sguardo cupo, la mandibola serrata, nella mano la spada corta che faceva oscillare in circolo; il formicolio dietro la testa aumentò.

    Parlò solo quando fu a un passo da lui, gli occhi piantati nei suoi.

    – Che cosa hai combinato là dietro? – la voce era una lama a doppio taglio.

    – Io niente, è caduto un ramo sul nostro accampamento – mentre parlava si rendeva conto di quanto sembrasse debole e stupida la sua giustificazione.

    – È caduto un ramo? – chiese il capobanda, ma la sua era una domanda che non voleva risposta. – Strano, perché ho fatto disporre l'accampamento apposta sgombro da qualsiasi fronda. E del tuo urlo, che ha fatto scappare la nostra merce, cosa mi dici? –

    Adesso gli uomini si erano avvicinati abbastanza da consentire a Breghius di vederne i volti scuri.

    – Già, – biascicò il Gobbo con tono caustico, – l'hai combinata davvero grossa, pensare che non dovevi far nulla. –

    Il formicolio dietro la testa di Harek diventò un calore diffuso fino alla punta delle orecchie; i banditi erano infuriati per l'occasione persa e stavano cercando qualcosa o qualcuno su cui sfogarsi, e lui era un ottimo bersaglio.

    Doveva trovare il modo di uscirne fuori e alla svelta, doveva spostare la loro attenzione da un'altra parte. – Ho urlato perché ho sentito qualcuno dietro di me – non era del tutto falso, aveva davvero avuto la sensazione fredda che ci fosse stato qualcuno, o meglio qualcosa, alle sue spalle.

    – Ah sì? – domandò Ikan fermandosi a pochi passi da lui, la testa leggermente inclinata di lato, mentre l'occhio lo fissava gelido e la mano continuava a far oscillare la spada, – E dov'è adesso? –

    – Potrebbe ancora essere qua, secondo me ci sta ascoltando – il ragazzo stava disperatamente improvvisando, ma notò che i due Iulaidiani, Sandel e Parret, si stavano guardando nervosamente intorno.

    – Se, come dici tu, non potevano cadere dei rami spezzati sul nostro bivacco, qualcuno deve avercelo buttato, e di certo non posso essere stato io a farlo. –

    – Eh già, – sbottò Budrog, illuminato da quella rivelazione – ha ragione capo, ci deve essere qualcun altro. – Per Breghius, Budrog aveva la stessa intelligenza di un dromonano, ma in quel momento lo ringraziò dal profondo del cuore per la sua stupidità. L'ondata di rabbia violenta del branco si era fermata, vacillando sui dubbi del suo fondamento, per ogni attimo che passava Harek si metteva sempre più in salvo dal linciaggio.

    – Dobbiamo stare attenti e metterci subito al sicuro – consigliò sottovoce e velocemente, impregnando la frase di urgenza e pericolosità. Contemporaneamente iniziò a scrutare cauto il fogliame ai bordi del sentiero; tutti, tranne Ikan, lo imitarono, il Gobbo addirittura si riparò dietro le spalle taurine di Budrog.

    Poveri idioti pensò Harek, sarà così facile comandarli quando avrò fatto fuori il loro capo. Seppur turpi e violenti, rimanevano un'accozzaglia di creduloni: poche parole erano bastate a sviarli dai loro intenti. Ormai nessuno si ricordava per quale motivo, un attimo prima, stavano per linciare un loro compagno. Nessuno, eccetto Ikan. Breghius non vide nemmeno la spada quando si abbatté di piatto sulla sua testa, mandandolo per terra lungo e tirato. Si voltò verso il suo assalitore, ma non riuscì a far altro, troppo stordito per il colpo ricevuto.

    – Piccolo verme! – latrò il capobanda, appoggiandogli la punta della spada sul viso. – Pensi di essere bravo ad aggirare le persone, eh? Ma a me non la fai tanto facilmente. Qui qualcuno ha commesso un grosso errore e adesso deve pagare, – la pressione della lama sul viso aumentò, aprendo un piccolo taglio nella pelle, – l'unico mio dubbio è capire come punirti; forse dovremmo chiederlo ai ragazzi che fino ad adesso hai preso in giro con la balla del fantasma che ci guarda. –

    – Non ho mentito, c'è davvero qualcuno – si difese, ma ormai sapeva che non poteva più convincere nessuno.

    – Taci! – sibilò l'altro, spingendogli ancor più forte la lama sul volto, che ora era solcato da un rivolo di sangue. La spada iniziò dolorosamente a scendere sulla guancia, lasciando un macabro disegno.

    Breghius guardò in alto tra le fronde degli alberi, verso il cielo rischiarato dalla luna e da poche, fulgide stelle, conscio ormai della sua fine prossima; presto Ikan avrebbe sedato la sua furia vendicativa intingendo la punta della spada nel collo. Pensò in quel momento che la sua vita era stata come il sentiero in quella notte: un tortuoso cammino nelle tenebre più laide, mentre lontano da lui, inarrivabile, splendeva un mondo migliore, che non aveva mai saputo assaporare, troppo preso a strisciare nel buio per fermarsi a guardare in alto verso la luce.

    Improvvisamente però, in mezzo a quel tiepido chiarore, una macchia nera si mosse: dalla sagoma scura di un alto ramo, un'altra ombra si staccò e scivolò giù proprio verso di lui. Bloccato al suolo non riuscì a seguirla e sparì dalla sua vista, ma un leggero tonfo sul sentiero ne segnalò la vicina caduta.

    Anche i suoi compagni lo avevano sentito. Udì l'urlo di spavento del Gobbo e Ikan arrestò la corsa della sua lama per voltarsi.

    Breghius poté così alzare la testa per guardare egli stesso cosa aveva interrotto la sua barbara esecuzione (nello stesso frangente una voce gli diceva di approfittare della situazione per scappare a rotta di collo nella foresta, ma evidentemente la curiosità era più forte della paura della morte) e ciò che vide lo lasciò interdetto: non si trovò davanti un ramo staccatosi da un albero, né un grosso animale caduto, trovò bensì davanti a

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1