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Nassara e la guerra dei poveri
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Ebook538 pages7 hours

Nassara e la guerra dei poveri

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In Nassara e la guerra dei poveri Gianni Andrea Deligia racconta i nove anni che trascorre in Ciad, dal 1975 al 1983.
Spinto dalla curiosità verso terre e culture lontane, giunge in Ciad all’età di 25 anni e viene subito travolto dagli eventi. Diventa capo redattore di Tchad et Culture, l’unica rivista del Paese, scritta in francese. A quei tempi la maggioranza dei ciadiani era analfabeta e conoscere quello che succedeva nelle diverse regioni del Paese non era facile. Il calcio era uno dei pochi elementi capaci di unire le diverse popolazioni, dal deserto del Nord-est alla relativamente fertile savana del Sud. Unico giocatore bianco del campionato nazionale di calcio, Gianni diventa famoso come Nassara, ‘l’uomo bianco’.
Si incontra e si scontra con una realtà molto diversa dalla sua, che lo affascina stregandolo con le tante contraddizioni. Nel 1977 si trova a lavorare per l’ONU e per il Governo del Ciad, per far sì che i ciadiani potessero scrivere la propria Storia. Nel ’79 la guerra civile, che da anni distrugge il poco che funziona nel Nord-est, raggiunge la capitale.
Gianni intreccia la storia della sua giovinezza alla storia di questo Paese. Qui si innamora, si sposa, crea la sua famiglia, fa carriera e decide di restare anche durante la guerra, lottando come funzionario dell’ONU al fianco delle donne e dei bambini del Ciad.
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateDec 5, 2017
ISBN9788873569336
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    Nassara e la guerra dei poveri - Gianni Andrea Deligia

    Gianni Andrea Deligia

    Nassara

    e la guerra dei poveri

    Condaghes

    Indice

    Dedica e citazione

    I – Una passione innata

    Destinazione Africa

    1. Contoneri

    2. Afy

    3. Soldato senza divisa

    4. Il progetto

    5. Geografia

    6. Il calcio a 40°

    7. Libri, pallone e altro

    8. Khadija

    9. Martello pneumatico e pornografia

    10. Colpo di Stato

    11. Un amore impossibile

    12. Kibbutz e menzogne

    13. Clan

    14. Cimiteri e solidarietà

    15. La mia indipendenza

    16. La stagione delle piogge

    17. Volontariato

    18. Un paese senza scrittura

    19. Elisabeth

    20. Albert Camus

    II – Seconda patria

    1. Africa: l’invasione dei barbari

    2. Ciad: deserto contro savana

    3. Anniversario di sangue

    4. Alla ricerca del mare

    5. Identità, lingue e sole

    6. Missionari

    7. Mal d’Africa

    8. Piccolo mondo diplomatico

    9. Victorine e i suoi amori

    10. «Ho combattuto per i bianchi»

    11. Gli spiriti e lo yondò

    12. La strada del sud

    13. L’uccisione di Nicolas

    14. Fine di un’avventura...

    15. Ritorno a casa

    III – La guerra dei poveri

    1. Volontario dell’ONU

    2. Impiegato dello Stato ciadiano

    3. Il nemico mortale

    4. Arriva l’erede

    5. Salè

    6. La Germania mi aiuta

    7. Una transizione ingannevole

    8. Chiara Solkam

    9. Aspettando la tempesta

    10. Amore tra un gorane e una sarà

    11. Les jeux sont faits

    12. La guerra comincia

    13. La morte aspetta in giardino

    14. Cessate il fuoco

    15. Ostriche e champagne

    16. Evacuazione a Yaoundé

    17. Notizie dal Ciad

    18. Tra le rovine di N’Djamena

    IV – Nel segno dell’ONU

    1. Possiamo scegliere il nostro destino?

    2. Al fianco di madri e bambini

    3. La Sardegna scomparirà

    4. Funzionario dell’ONU

    5. Perché dobbiamo soffrire?

    6. Fuga verso Kousséri

    7. Charles e la relatività del potere

    8. La rete onusiana

    9. James Grant

    10. Donne in prima linea

    11. La disperazione dei poveri

    12. La guerra sotto casa

    13. No a New York

    14. Console onorario

    15. Victorine prende le armi

    16. Gheddafi elimina Habré

    17. La piroga

    18. A cosa serve l’ONU?

    19. Jasmine

    20. I rischi del giornalista

    21. «Persona non grata»

    22. Incontro con Goukouni

    23. Habré torna al potere

    24. Amore e odio

    25. Gerusalemme o Beirut?

    26. Il ristorante di Chiara Solkam

    27. Incontro con Habré

    28. La fine di un grande amore

    Cronologia del Ciad moderno

    Ringraziamenti

    L'Autore

    La collana Pósidos

    Colophon

    Dedicato alle migliaia di ciadiani, uomini, donne e bambini

    che morirono durante quegli anni di fame, siccità e guerra

    e per i quali potei fare ben poco.

    A Khadija, Salé, Victorine e a coloro che mi aiutarono

    a sopravvivere e a capire quanto sia ingiusto

    il mondo in cui viviamo.

    «Quello che so della morale l'ho imparato giocando a pallone.»

    Albert Camus

    Parte I

    Una passione innata

    Mappa politica del Ciad (1991, fonte ONU).

    Destinazione Africa

    Giocai la mia ultima partita di campionato prima delle feste. Passai il Natale con i miei e due giorni dopo partii per Napoli, da dove mi sarei imbarcato per Nizza e da lì per N’Djamena, capitale del Ciad. Gli amici mi augurarono buona fortuna. La famiglia mi incoraggiò. Mio padre, alla sua maniera: – Cosa aspetti? Vai sbrigati, sei già in ritardo.

    Mia madre era contenta, perché sapeva che avrei fatto quello che avevo sempre desiderato. Ma so che pianse anche se non me lo mostrò. Le mie sorelle erano tristi anche loro, ma ormai sapevano di avere un fratello che non faceva le cose come gli altri fratelli.

    Arrivai a Nizza un giorno di gennaio del 1975, pioveva e faceva freddo. Il mio volo della compagnia Air Afrique per N’Djamena era pieno per tre quarti. Un italiano che voleva andare nell’Africa sub-sahariana doveva necessariamente passare per la Francia. Anche quindici anni dopo la fine della colonizzazione i francesi continuavano a controllare i destini delle loro ex colonie.

    Sull’aereo conobbi Mamadou, musulmano di Maroua, importante città del nord del Camerun, non lontana dal confine con il Ciad. Prendendo posto nell’aereo — lato corridoio lui, finestrino io — si presentò con gran un sorriso. Era un uomo grande e forte; indossava il boubou, costume tradizionale delle genti del Sahel. Il suo era blu scuro. Aveva delle mani grandi come pale e quando mi salutò, la mia scomparve nella sua. Mi disse che aveva quattro mogli, diverse concubine e, aggiunse con orgoglio, diciassette figli. Era commerciante e aveva dei camion che attraversavano il Camerun in tutte le direzioni. Commerciava anche con Ciad, Niger e Nigeria.

    Con l’aria di chi si sente in pace con se stesso, mi disse: – Il profeta Mohamed, pace sia su di lui, era commerciante.

    Una frase diretta e semplice, ma di quelle che riescono a illuminare l’intreccio di relazioni che possiamo chiamare cultura. Mi colpì sul momento, senza che però riuscissi a valutarne l’intensità. Negli anni delle mie successive peregrinazioni attraverso il mondo ne avrei sperimentato la portata. Nel Sahara e nel Sahel e anche più a sud-est, milioni di musulmani ogni giorno vivevano e facevano vivere centinaia di milioni di persone grazie al commercio. Nel nome di Allah e del suo profeta Mohamed, si comprava, si vendeva e si scambiava; erano presi a testimone di ogni transazione.

    Pensai che Gesù era molto meno presente nella vita ormai troppo materialista degli occidentali. Figlio di falegname, e falegname lui stesso, né il suo mestiere né il suo nome partecipavano alla vita di tutti i giorni dei suoi fedeli; o di quelli che almeno culturalmente si reputavano tali.

    Dopo il pranzo a bordo, i passeggeri cominciarono a sonnecchiare. Io ero troppo eccitato per dormire e mi misi a osservare la terra che si srotolava sotto di noi. Sabbia, pietre, dune e distese piatte. Il Sahara poteva essere monotono, ma mai uguale a se stesso. Tutto era giallo scuro, rossastro; qualche volta nero. Poi in lontananza, cominciò ad apparire una catena di alti picchi, il B.E.T. (Borkou, Ennedi e Tibesti), che divide il nord del Ciad dal sud della Libia. I suoi colori, talvolta mattone, talvolta quasi rosso, sembravano venirci incontro. E contro queste barriere di roccia si infrangevano alte dune di sabbia di un colore giallastro. Il loro movimento millenario parlava la stessa lingua delle onde del mare che si infrangevano contro le scogliere. Pensavo al caldo che doveva fare là sotto.

    Tutto mi diceva che mi stavo allontanando dai miei sentieri abituali dell’Europa e dell’uomo bianco. Mamadou di tanto in tanto apriva gli occhi, incrociava il mio sguardo e sorrideva. Quasi volesse incoraggiarmi. Sapeva che per la prima volta io e le mie paure stavamo per entrare nel grande continente Africa.

    Avevo ancora tempo prima di arrivare a N’Djamena. Continuavo a guardare il deserto infinito, qualche volta una duna diversa dalle altre riusciva a fermare il mio sguardo per un attimo in più. E pensavo.

    Avevo appena 25 anni, mi trovavo su un aereo in compagnia di sconosciuti, di culture, lingue e idee diverse dalle mie. E volavo verso un paese a me essenzialmente sconosciuto in cui avrei dovuto vivere per i prossimi due anni. Senza possibilità di tornare prima. Con me avevo una valigia con qualche vestito, due paia di scarpe da città, un paio da tennis, un paio da calcio. Per blandire i miei bisogni emotivi e culturali avevo messo in valigia anche alcune fotografie della mia famiglia e dei miei amici e tre libri sull’Africa e sulle problematiche dello sviluppo internazionale. Con me avevo una laurea in Scienze Politiche, ma nessuna idea sulla sua utilità pratica in un paese totalmente diverso dal mio; un paese del Terzo Mondo, come si diceva allora.

    L’uomo bianco aveva una grande fertilità nel coniare nomi e slogan che spesso nascondevano l’incapacità della concretezza e del rispetto. I bianchi potevano essere o capitalisti del primo mondo o socialisti del secondo. Quelli che non erano bianchi, o non ne avevano i vantaggi, appartenevano al terzo. E per il bianco il Terzo Mondo significava povertà, desolazione, ingiustizia, violenza, incapacità a gestirsi. E principalmente sulla base di elementi economici e materiali, lo stesso uomo bianco aveva classificato il Ciad come terzultimo tra i circa 180 paesi che contava il pianeta.

    Quasi per limitare le paure del futuro che stava arrivando a grande velocità, confortato dalla tranquillità di un presente anche lui pronto a fuggire, mi rifugiai nei vaghi ricordi del passato lontano, della mia infanzia. Io che non avevo mai sviluppato la capacità di immagazzinare i ricordi.

    1. Contoneri

    Dove cercare il seme di questo mio viaggio verso uno dei paesi più poveri e meno conosciuti al mondo? Nel mio DNA? Nella mia educazione? O in tutti e due?

    Mio padre era un operaio ferroviere e abitavamo in case cantoniere costruite lungo la ferrovia delle complementari sarde che attraversava parte della Sardegna del centro-sud. In sardo questo tipo di casa si chiama contonera. E contoneris erano quelli che ci abitavano, io incluso. Quella in cui ero nato si trovava nelle campagne del comune di Meana, nel centro dell’isola. In seguito ci trasferimmo almeno tre volte. Non c’erano altre case nelle vicinanze delle case cantoniere in cui abitammo. La sola presenza umana che ci rassicurava e ci diceva che non eravamo soli in questo mondo era quella di pastori e cacciatori. Nella Sardegna degli anni ’50 la vita non era facile per nessuno. Le strade asfaltate erano poche e i trasporti, pubblici o privati, quasi inesistenti. Il treno svolgeva, molto lentamente, la funzione di unire la gente. Nel Deserto dei Tartari i soldati attendevano che apparisse il nemico. Noi, nella nostra solitudine quotidiana di contoneris aspettavamo che apparisse il treno due volte al giorno. Per me e le mie sorelle era quasi un giocattolo: si muoveva e faceva dei rumori a noi familiari. Ci dava la sicurezza che, da qualche parte, esisteva gente come noi, che aveva però la fortuna di potersi spostare. Per noi era confortante. Soprattutto quando qualche viaggiatore, per noia o per curiosità, si affacciava al finestrino e, sorridendo, salutava con la mano.

    Mia madre era molto bella. Si era sposata a diciassette anni. Io nacqui l’anno seguente. Amava molto i fiori. I suoi vestiti erano pieni di colori e di luce. La contonera dove trascorsi i miei primi anni era costruita su due piani, con una piccola stanza al piano terra e una simile al primo piano. Al piano terra si cucinava, si mangiava, si viveva. Al primo piano si dormiva.

    Facendoci crescere tra le campanelle, i suoi fiori preferiti, mia madre cercava di attenuare la tristezza di quei muri che la tenevano prigioniera. Creò un giardino attorno alla casa piantando semi e piantine dappertutto: per terra, in vasi di terracotta, in recipienti di sughero e di latta, come quelli recuperati dalle distribuzioni del Piano Marshall. Coltivava anche un piccolo orticello. Mia sorella Marinella la chiamava «la casa di Biancaneve»; ma in giro di nani non ce n’erano, solo cacciatori e pastori. Immagino la sensazione dei rari passanti nel vedere, nel bel mezzo della campagna, quella casetta curata e piena di fiori e una giovane donna di appena vent’anni con i suoi tre figli. Eravamo sempre super puliti e ci vestiva con un’eleganza forse fuori luogo. Mia madre si era trovata lì, nel mezzo di una natura tiranna che voleva tutti gli uomini poveri e sottomessi senza eccezioni. Alla sua maniera la viveva come una sfida, una lotta. La vita l’aveva condotta nella solitudine di quei paesaggi desolati e lei sopportava, senza però sottomettersi a quella solitudine. I fiori, la pulizia, e la continua ricerca del bello erano le armi del suo cuore per opporsi all’austerità del luogo. A lei importava solo dei figli. Eravamo il suo orgoglio.

    Di mio padre in quegli anni ho meno ricordi. Il più chiaro è di quando gli andavo incontro al suo ritorno dalla caccia. Mi prendeva in braccio e mi faceva scendere una volta dentro casa. Mi teneva in alto contro il suo collo. Non c’era altro posto. La cartucciera, pernici, lepri o conigli appena cacciati occupavano il resto dello spazio.

    Quando avevo sei anni comprò una moto che finalmente ci permise di spostarci e sfuggire alla prigionia della cantoniera. I nostri viaggi in moto erano epici. Eravamo in cinque. Io sedevo sul serbatoio, davanti a tutti gli altri, facendo praticamente da scudo e, come nella cavalleria medioevale, dovevo passare attraverso la vestizione della corazza e dell’elmo. Per proteggermi dal vento i miei mi riempivano la maglia di giornali. L’ideale sarebbero state riviste in carta patinata come Cosmopolitan e Mayfair. Ma a quei tempi c’era solo la Domenica del Corriere. Le sue pagine erano più formative e interessanti, ma erano meno resistenti alle intemperie. Dietro di me, sempre sul serbatoio, veniva Marinella, la secondogenita che a quei tempi aveva cinque anni. Mio padre ci manteneva uniti e fermi con le braccia che teneva sul manubrio. Mia madre, seduta di fianco, teneva sulle sue ginocchia Maria Teresa, mia sorella più giovane. Molti, ma molti anni dopo, vidi a Luang Prabang, la vecchia capitale del Laos, una moto simile che trasportava otto persone.

    Per il resto la mia infanzia era simile a quella della maggior parte dei bambini sardi, ma anche europei, asiatici, africani o latino americani. Mai ebbi l’impressione di essere povero. In campagna l’acqua si prendeva dalle sorgenti o dal pozzo, e i servizi igienici erano fuori casa. L’elettricità era qualcosa di straordinario, di cui si era solo sentito parlare. Mancava anche la scuola, la più vicina era a 6 km di distanza. Troppo lontana per un bambino di sei anni che avrebbe dovuto farseli a piedi da solo. Quindi non andai a scuola per i primi due anni delle elementari. Imparai in casa. Mia madre mi insegnò a fare le aste e a leggere, tra una casseruola sul fuoco e i panni da lavare. Se oggi i supereroi sono Batman, Spiderman e tutti gli altri con i nomi che finiscono in -man, in quell’epoca i supereroi erano i maestri volanti. Maestri di scuola il cui lavoro era andare a trovare i bambini in età scolare che vivevano nelle case più isolate. E ci andavano a piedi, a cavallo, in bicicletta o, se fortunati, in moto. Passavano una volta al mese per verificare i nostri progressi. I miei genitori dovevano essere degli ottimi insegnanti perché passai facilmente gli esami delle due classi. Andai a scuola per la prima volta a otto anni. Fu un cambiamento quasi traumatico. Mai avevo visto tanti bambini e bambine tutti insieme che strillavano e sfrecciavano in tutte le direzioni. Tutti vestiti uguali, probabilmente perché non potessi distinguerli l’uno dall’altro e rendere così la mia integrazione ancora più difficile.

    2. Afy

    L’aereo atterrò a N’Djamena verso le 16:00, due ore prima del tramonto. Alla partenza, sei ore prima, mi coprivo contro il freddo, all’arrivo dovetti affrontare i quaranta gradi. Appena usciti un’afa terribile mi colpì in faccia. Percorsi in fretta i cento metri che separavano l’aereo dal terminal. L’aeroporto era molto piccolo. Un salone di mille metri quadri fungeva da sala arrivi e partenze. Ad aspettarmi trovai alcuni religiosi italiani e francesi.

    Fuori dall’aeroporto tutto mi era nuovo: le casette basse e bianche, le poche strade asfaltate mangiate dalla sabbia, la gente in bicicletta o su motorette, delle specie di biciclette con il motore. I miei occhi erano attratti dai vestiti. Gli uomini indossavano un lungo pigiama bianco, la djallabia o boubou, abito caratteristico dell’Islam e dei paesi dell’Africa del nord e del Medio Oriente; le donne, abiti ricchi di colori. Il mio naso ebbe il primo contatto con l’odore della polvere e della sabbia mischiate al caldo secco del deserto. Un respiro vitale che sarebbe rimasto con me fino all’ultimo giorno in Ciad.

    Mi assegnarono un alloggio nella missione cattolica di Kabalaye, dal nome dell’omonimo quartiere nella zona cristiana e animista della capitale. Era una palazzina lunga venti metri su due piani. Sotto c’erano uffici, sala comune e cucina, sopra le camerette con diverse brande con zanzariera. Tutto molto spartano. Durante i primi due mesi avrei vissuto lì. I cattolici si erano divisi il Ciad: il centro nord ai Gesuiti, che avevano anche una diocesi al sud, il resto ad altri ordini. N’Djamena era nella zona gesuita.

    Il giorno dopo l’arrivo feci la mia prima uscita da solo nelle vie della capitale. Mi avventurai per le strade vicino alla missione alla ricerca di un posto dove poter bere una birra e osservare. Le strade secondarie erano tutte in terra e sabbia e non era facile camminare. Lungo la strada, in un canale in cemento profondo quasi un metro e largo altrettanto, colavano fogne a cielo aperto. Inizialmente questi canali erano coperti; ma la gente rubava le lastre che li chiudevano per farci le case, così si trasformavano in fabbriche di zanzare e appestavano l’aria. Quello che si avvicinava di più ai nostri bar era una casetta sul bordo della strada, con qualche sedia sgangherata in ferro e plastica, e musica locale a tutto volume per attirare i clienti. Scelsi una sedia in metallo che aveva per seggio un pezzo di legno attaccato con un solo chiodo. Cercavo di tenerla ferma per non cadere.

    Una ragazza del sud, con muscoli da uomo e la pelle di un nero profondo e lucido, arrivò con tutta la calma del mondo.

    – Buonasera, come stai? Lo sai, mi piacciono molto i bianchi perché sono gentili.

    Me lo disse di punto in bianco senza che un gesto o una parola avessero introdotto questo soggetto di potenziale discussione.

    – Il tuo uomo è un bianco?

    – No, non ho mai conosciuto un bianco.

    – E allora come fai a sapere che i bianchi sono gentili?

    – Me l’ha detto mia cugina che ha avuto un uomo bianco, Non l’ha mai picchiata.

    – Perché i vostri uomini vi picchiano?

    – Sì, ma dipende anche dagli uomini. Non tutti sono cattivi – sentenziò.

    Poi aggiunse: – Vuoi uno zuccherato o una birra?

    – Una birra, per favore. Ne avete anche fredda?

    – Ma certo, siamo un bar serio e abbiamo un congelatore. Ti porto la più fresca che ho.

    In Ciad, come scoprii molto presto, cristiani e animisti consumavano alcolici, ma anche non pochi musulmani. L’Islam in molti paesi dell’Africa sub-sahariana era più flessibile rispetto ai paesi, più a nord e a est, che si definivano arabi. In Ciad, chi non aveva soldi beveva la bili-bili, ottenuta in casa dalla fermentazione del miglio. Si beveva calda: la provai una volta e mi bastò. Chi aveva un po’ di soldi beveva la Gala, la birra nazionale, che si consumava fredda. Chi invece aveva più soldi preferiva bere whisky. L’alcol era il mezzo più comune con cui gli uomini si rovinavano il fegato e le tasche. Fin da subito mi capitò di vedere qualcuno cadere ubriaco a terra e anche dentro le fogne aperte. Spettacolo sempre triste. Invece i fumatori erano pochi.

    La ragazza tornò portando una sedia un po’ meno rotta di quella che avevo e una bottiglia di birra ben fredda e, con l’indice ben dentro, un bicchiere. Evidentemente avevamo un concetto di igiene differente. Cambiai sedia. La ragazza, senza poggiare la birra, continuava a parlarmi. Era gentile e non volevo interromperla o offenderla. Dopo tutto ero uscito proprio per osservare e ascoltare. Decise finalmente di aprirmi la Gala e, non avendo un apribottiglie con sé, la portò alla bocca e fece saltare il tappo con i denti. Straordinario. Era la prima volta che vedevo una donna cimentarsi in un numero simile e con tale naturalezza. Mi imposi di non notare che il bicchiere che stava lentamente riempiendo con la mia prima birra africana era sporco, molto sporco. Bevvi il primo sorso e continuai ad ascoltarla mentre parlava delle difficoltà della vita e di suo marito che l’aveva abbandonata.

    Nel frattempo un nugolo di mosche in formazione d’attacco sorvolava la mia testa. Una di loro lasciò la formazione e si gettò in picchiata dentro il mio bicchiere. La ragazza notò l’incidente e, prima che potessi reagire, introdusse il suo grosso dito dentro il bicchiere, recuperò la mosca mezzo ubriaca che si dibatteva nella schiuma e la gettò con disprezzo per terra. Mi guardò sorridendo con affetto e disse: – Non devi ringraziarmi. È mio dovere.

    Non sapevo se restituirle il sorriso, ringraziarla e continuare a bere oppure pagare e andarmene indignato. Scelsi la prima soluzione, senza usare troppo il cervello. Lo stomaco mi suggeriva che se volevo vivere la vita che avevo scelto non c’erano alternative.

    Alla missione cattolica tra i preti e i fratelli gesuiti alcuni erano dei veri capolavori dell’adattamento fisico, culturale e anche religioso. Erano vestiti come tutti gli altri: pantaloni o pantaloncini, camicia o maglietta. A meno che non glielo si chiedesse espressamente, non parlavano mai di religione, cosa che però facevano regolarmente con i loro catecumeni e con i fedeli più in generale. La maggior parte viveva in comunità ma alcuni avevano la loro casa. E quasi tutti apprezzavano la birra. Potevano parlare di qualsiasi cosa, incluso di donne, con distaccata eleganza e moderazione. Uno di loro, piccolo, astuto e dinamico all’inverosimile, era il cappellano militare dell’esercito ciadiano. Era anche il preferito delle famiglie bianche che contavano e lo invitavano regolarmente a cena, sia perché sapeva tutto quello che succedeva nelle zone di guerra, sia per la sua personalità dirompente. Si chiamava Cossu ed era sardo.

    Antonio Mason, un veneto grande, generoso e gentile dietro una faccia cattiva, mi aiutò a trovare la mia strada in Ciad. Qualche giorno dopo il mio arrivo mi chiese se volevo accompagnarlo in un campo di sfollati interni che scappavano dalla siccità e dalla morte che imperversavano nelle regioni del nord e dell’est.

    – Guarda che forse sarà un’esperienza un po’ forte per te.

    Voleva essere sicuro che capissi che non sarebbe stato facile o piacevole per me che ero appena arrivato dalla ricca Europa.

    – Ma se me l’ha proposto suppongo che lei creda che possa farlo, o no?

    – Certo che puoi farlo; volevo solo che sapessi che non è una cosa normale. Perché la sofferenza non dovrebbe essere mai una cosa normale.

    Il campo si trovava alla periferia nord della città. Il centro di raccolta era costituito da casette di fango con un ufficio per le registrazioni, una specie di clinica, dove un medico spagnolo cercava di salvare corpi scheletrici che arrivavano tutti i giorni, un’altra per immagazzinare viveri, suppellettili e materiali.

    Le persone, quei corpi magrissimi e secchi che una volta avevano sembianze umane, stavano per lo più sedute sotto dei ripari realizzati con quattro bastoni piantati per terra sovrastati da buste di plastica, pelli, tessuti o qualsiasi materiale che potesse fungere da tetto e proteggerli dai raggi del sole. La stragrande maggioranza erano nomadi musulmani e molti di loro erano bambini, i più vulnerabili. C’era un prete francese che cercava di organizzare l’assistenza con l’aiuto di volontari. Nel nord e nell’est del Ciad non pioveva da tre anni. L’erba e i pascoli bruciavano. Le oasi e i pozzi si seccavano, costringendo i nomadi e le loro bestie a spostarsi verso il sud alla ricerca di pascoli e acqua. Più scendevano verso il sud più si indebolivano, senza trovare la soluzione ai loro problemi. Si scontravano con altri gruppi, anche loro in lotta per la sopravvivenza. Spesso venivano attaccati da bande armate, veri avvoltoi che si gettavano sui corpi indifesi e già deboli rubando loro il bestiame, l’unica ricchezza che erano riusciti a conservare. Per di più da qualche anno una ribellione in corso tra le tribù nomadi e musulmane del nord, contro il Governo centrale, espressione dei sedentari animisti e cristiani del sud, contribuiva a peggiorare la situazione.

    Il Governo non aveva i mezzi, e forse neppure l’intenzione, per aiutare questa gente allo stremo delle forze che vagava in una savana di sabbia e arbusti spinosi, anch’essa ostile. Erano le comunità internazionali, private, religiose o quelle istituzionalizzate delle organizzazioni internazionali come l’ONU, che cercavano di mettere una toppa sul vestito strappato di questo paese, povero tra i poveri, chiamato Ciad.

    Sempre in cerca di aiuto, molti di questi disperati riuscivano ad arrivare fino alla capitale e non pochi ci morivano. Quel giorno nel campo c’erano circa centocinquanta persone. Avevano la tanto preziosa acqua a loro disposizione e cibo. Alcuni erano solo pelle e ossa e avevano i giorni contati. I danni erano già stati fatti ed erano irreparabili. I loro corpi aspettavano in totale passività il colpo di falce finale. Tra i bambini più deboli c’erano anche quelli con lo stomaco gonfio. Sembravano quasi grassi. E invece erano i loro corpicini che si gonfiavano di liquidi mentre stavano letteralmente morendo di fame. Le madri li tenevano in grembo o li coricavano nel posto più protetto. Mi guardavano, non parlavano e aspettavano.

    Questa scena, lontana da ciò che avevo conosciuto fino ad allora, mi afferrò il cuore. E il mio equilibrio di giovane in piena salute del mondo giusto dei bianchi, cominciò a barcollare. Mi dovetti sedere per terra, non guardavo da nessuna parte. Cercavo di guardare dentro di me, ma non ci riuscivo. Perché tutta quella gente dovesse soffrire e morire davanti a me, non lo capivo. Non riuscivo a trovare un senso. La mia logica di occidentale non funzionava. Non mi aiutava a capire né ad accettare. E soprattutto non aiutava questa gente a sopravvivere dignitosamente. Mi sentivo vuoto e debole. Mason se ne accorse. Arrivò con un gran bicchiere d’acqua e, dandomi una pacca sulle spalle, disse: – Bevi, ti devi sempre idratare se no qui rischi grosso.

    Era in piedi davanti a me. Dietro di lui una madre scheletrica teneva in braccio un bambino altrettanto scheletrico.

    – Ma a lei che effetto fa tutto questo?

    – Ci sono abituato. Ci si abitua a tutto. L’importante è mantenere sempre la dignità e la solidarietà dell’uomo verso gli altri uomini.

    Mi sembrava una frase troppo filosofica. Non risposi. Lui si diresse alla sua Peugeot per scaricare alcuni sacchi di miglio. La donna col bambino lo seguì.

    Mi impegnai a tornare una volta alla settimana per dare una mano. Avrei aiutato gli altri a non morire, forse a sopravvivere ma avrei anche, nell’egoismo che ci tiene in vita, aiutato me stesso ad assuefarmi mio malgrado alla violenza, all’ingiustizia, alla sofferenza e alla morte. Senza questo non avrei potuto resistere in un contesto duro e violento come quello ciadiano.

    In quei giorni andai anche al mercato centrale. A N’Djamena gli alimenti che si vendevano, le quantità in cui erano disponibili, il loro prezzo e chi li vendeva offrivano un’immediata fotografia della situazione. Il mercato centrale si trovava davanti alla moschea centrale, la più grande della capitale. Ai miei occhi appariva come un accampamento di nomadi più che un mercato. Era uno spiazzo quadrato di circa un ettaro con tutto attorno delle costruzioni di mattoni, un tempo dipinte di bianco, ora scurite. Al centro c’erano delle grandi panche in cemento coperte da tettoie costruite alla bell’e meglio. A gestire le bancarelle erano soprattutto donne, che stavano sedute con le gambe incrociate, sotto questi rudimentali gazebo esponendo le poche merci. Il mercato era povero, tranne per quanto riguarda la carne: il Ciad era al secondo posto in Africa per numero bovini. Molta gente vi si recava: donne e uomini delle etnie le più diverse, con capigliature le più svariate e vestiti bianchi e blu per gli uomini e di tutti i colori dell’arcobaleno per le donne. Un vero spettacolo.

    Visto che c’ero, decisi di comprare dei pomodori. Mi avevano detto che era difficile trovare pomodori, soprattutto in quella stagione. Nel frattempo avevo comprato un koro di arachidi secchi. Il koro era la loro unità di misura, corrispondente alla quantità di riso o miglio che può essere contenuta in mezza zucca vuota. Di zucche ce n’erano di diverse grandezze. Pagai in rial, moneta del passato proveniente dal Sudan, corrispondente a 5 franchi CFA. la moneta ufficiale del paese. E tutto era espresso in arabo ciadiano. Quindi: un rial erano 5 franchi, rialen (che significa due rial, in arabo) dieci franchi, thalata rial (tre rial) quindici franchi. Il tutto poteva scombussolare gli avventori durante i primi contatti col mercato.

    Giravo nella zona riservata alle verdure, e ce n’erano molto poche. Di pomodori non c’era traccia. Poi, per caso, vidi due vecchiette sotto uno di quei ripari che fungeva da bancarella, davanti a loro c’erano quelli che potevano essere dei pomodori. Erano piccoli, con forme surreali e senza colore. Erano dieci in tutto, presentati in due mucchietti da cinque. Quattro alla base e il quinto sopra.

    – Quanto costa il mucchio? – chiesi un po’ in francese e un po’ nel dialetto arabo-ciadiano che si utilizzava nel commercio, di cui avevo imparato qualche numero e parola chiave.

    – Costa thalata rial – rispose una di loro.

    – Allora dammene due, per favore – dissi preparandomi a pagare.

    – Non posso; prendine solo uno – continuò lei.

    – Ma io te li compro tutt’e due al prezzo che mi hai detto – insistetti.

    – Non posso figlio mio. Se te li vendo tutti e due, poi me ne devo andare. E io voglio restare a parlare con la mia amica. Capisci? – disse quasi scusandosi.

    Sorpreso da quelle parole chiesi conferma a una passante che parlava francese, per assicurarmi di aver capito bene, e lei ­confermò.

    – Ma tu, madre, ci guadagni il doppio se me le vendi – continuai in un ultimo tentativo.

    – Figlio mio, cosa me ne faccio dei soldi? Non posso comprare il piacere di stare con la mia amica. Allah penserà a me – spiegò con calma.

    La signora che parlava francese mi confermò che il secondo mucchietto di cinque pomodorini, magri e deformi, davano alla vecchietta la scusa per rimanere con l’amica. Sperando, ma neanche troppo, che alla chiusura del mercato qualcuno le comprasse anche quello. Non riuscivo a crederci, ma pagai e me ne andai con i miei piccoli e poveri cinque pseudo-pomodori.

    Qualche giorno dopo, accompagnato da un amico sudanese conosciuto attraverso Mason, andai al mercato dei ladri, per comprare un pezzo del carburatore per una motoretta che stavo utilizzando. Lì incontrammo un suo amico dell’est con una faccia gioviale e un boubou pulitissimo, color celeste con ricami gialli. Il mio amico mi presentò e lui mi diede la mano. Mi chiese come stavo e io stringendogli la mano gli chiesi come stava lui. Ma non si fermo lì. Continuava a porgermi la mano e a riportarsela poi al petto; questo per almeno tre volte e ogni volta ripeteva la parola afy. Gli chiesi come stava, lui rispose «afy», abbreviazione dell’arabo locale che significava ‘come va’ e si ritoccava il cuore. E lui faceva lo stesso con me chiedendomi: afy? Durante questo scambio, apparentemente insensato, tutti e due mantenemmo un sorriso rassicurante. Poi ognuno continuò per la sua strada.

    Vedendomi un po’ confuso, Ousman, il mio amico sudanese, mi disse: – Sì, la prossima volta che incontri un musulmano è meglio che gli chieda come stanno le sue mogli. È una forma di rispetto e di interesse.

    – Io sono d’accordo, ma come faccio a sapere che si tratta di un musulmano e che per di più ha più di una moglie? Potrebbe averne anche una sola – risposi con la semplicità del neofita appena arrivato in terra straniera.

    – Tutti quelli che vedi in boubou puoi considerarli musulmani, anche se è vero che ci sono animisti e cristiani che lo usano – mi rispose dopo averci riflettuto un attimo.

    Con la mia mentalità occidentale, razionale e logica, che aveva bisogno di etichette pronte all’uso come negli scaffali di un supermercato, proposi: – Quindi, se ho capito bene, è meglio chiedere sempre delle mogli anche se l’uomo potrebbe non essere musulmano, oppure essere musulmano e non essere sposato, oppure essere musulmano e avere solo una moglie? È così?

    Ousman ci pensò su un attimo e disse: – Sì, se vuoi può essere così, sì. Vedi quello che è importante per gli uomini ciadiani è che gli si riconosca il potere di avere delle donne. Il fatto che le abbiano davvero e quante ne abbiano è quasi secondario.

    Vedendo la mia espressione perplessa, Ousman continuò: – Come fai a fare affari o anche solo a comunicare con una persona se non sai chi è? Se non sai se sta bene? Se non sai come sta la sua famiglia? Gli affari si fanno tra uomini che si conoscono non tra sconosciuti.

    Senza ancora percepire le sfumature culturali di questa abitudine ne presi atto e mi adattai immediatamente alle ripetute strette di mano e di afy, senza le quali non solo non si potevano avere relazioni amichevoli e distese con la gente, ma non si poteva neppure cominciare a parlare. Quello che era ancora più importante in una società intrisa di simboli, di segni e parole quasi magiche, era che non si poteva discutere di niente senza prima avere concluso questi rituali. Rituali che erano in fondo quello che noi avremmo definito come buona educazione. Era assolutamente inconcepibile per un nomade vendere un cavallo o una capra, o per un coltivatore del sud vendere un sacco di miglio, senza essere prima passato attraverso questo rituale con l’acquirente. Avrei dovuto imparare molte cose. Quasi a tastoni come se fosse notte e non potessi distinguere quello che per me era ancora incomprensibile.

    Pensavo all’afy, a quanto era distante dalla società in cui ero stato educato, dove spesso capitava di cominciare una telefonata con un: «Buongiorno, dimmi tutto», e qualche volta non si diceva neppure buongiorno. Qui in Ciad sarebbe stato un segno di mancanza di civiltà, di grande maleducazione. Un insulto grave.

    Capanne nel centro del Ciad (1976).

    3. Soldato senza divisa

    Non avevo mai avuto dubbi sul fatto che una volta finiti gli studi avrei lasciato la Sardegna. Ma non sapevo ancora come, né dove sarei andato. Durante il primo anno di Università avevo passato la visita militare alla caserma di Calamosca, a Cagliari. Assieme a me c’erano una quindicina di ragazzi, tutti sui 18-19 anni. E tutti tranne me venivano dall’entroterra, anche se io c’ero nato. Due di loro non sapevano né leggere né scrivere. E tre solamente andavano a scuola. Per me, isolato nel mio mondo di studente, fu un salutare e fermo richiamo alla realtà che mi diceva che parte della Sardegna non riusciva a mantenere il passo con i tempi. Alla fine della visita un sottufficiale dall’aria sveglia e con un pesante accento del sud mi chiese con l’automatismo di chi faceva questa domanda regolarmente: – In che arma vorrebbe andare quando finirà gli studi?

    Mi diede del lei, contrariamente agli altri ragazzi che stavano con me quel giorno.

    – Quando avrò finito l’Università vorrei andarmene, se possibile senza fare il servizio militare – risposi io, come se fosse la cosa più naturale e ovvia.

    – In Italia il servizio militare è obbligatorio. Se non lo farà verrà arrestato e finirà in prigione. Lei è per caso un obiettore di coscienza? – incalzò lui un po’ sorpreso dalla mia risposta.

    – No, non lo sono e credo, purtroppo, che il mondo non sia pronto per la pace. Per il momento gli eserciti sono necessari – risposi con calma, come se fossi uno stratega politico-militare con esperienza planetaria.

    Vedendo che non riusciva a capire quello che intendevo aggiunsi: – Devo e voglio dedicare un anno della mia vita a imparare a difendere la patria, come tutti. Non chiedo favori. Infatti io più che un anno vorrei farne due. Non in Italia come militare, ma fuori in un altro paese come civile, in alternativa appunto al servizio militare. C’è una legge che lo prevede.

    E glielo dissi con tutta la sincerità e chiarezza possibili.

    – Ma se tutti fossero come lei, nessuno imparerebbe a difendere la patria – disse con l’aria di chi non crede troppo in quel che dice. Avevo l’impressione che volesse solo vedere come avrei reagito.

    – Io credo che la patria si possa difendere in molti modi, non solo con le armi. Ma se davvero la leva obbligatoria così com’è strutturata oggi è l’unico modo di difendere la patria, allora che Dio protegga l’Italia.

    Lo dissi più con il cuore che col cervello. Mi pentii immediatamente per il mio eccesso di senso critico e mi preparai a una risposta sarcastica, se non cattiva. Invece, con mia grande sorpresa disse: – Sì lei ha ragione, sono d’accordo. E nell’esercito molti la pensano nella stessa maniera.

    – Ma se è così come lei dice, allora perché non cambiate? – sbottai.

    – Ma lei crede che se fosse così facile l’Italia sarebbe quella che è?

    Mi rispose con un sorriso paternalistico, forse con un po’ di sufficienza. Mi guardò con simpatia, mi strinse forte la mano e mi disse: – Qualunque cosa farà, le auguro buona fortuna.

    Nei due anni precedenti la fine degli studi, mi dedicai a preparare la mia partenza. La Seconda guerra mondiale e la fine del colonialismo avevano mostrato all’umanità che i rapporti tra i popoli non potevano più essere basati su binomi come padrone/servo, ricco/povero. Pian piano si faceva strada l’idea che le relazioni internazionali avrebbero dovuto svilupparsi nel rispetto della pace, evitando l’uso della forza, favorendo gli scambi economici e cominciando a sviluppare quella che si chiamerà cooperazione internazionale. L’idea era che solo un mondo pacifico, equilibrato e relativamente ricco poteva evitare l’uso della violenza.

    Erano soprattutto Regno Unito, Francia, Spagna, Olanda, Belgio, e anche gli USA a mandare volontari e specialisti esperti per aiutare a gestire gli affari dei paesi in via di sviluppo. Specialmente in quelle che fino a pochi anni prima erano state loro colonie. Ma anche l’Italia, per ragioni allo stesso tempo ideologiche e pratiche, cominciò a sviluppare una filosofia di cooperazione internazionale.

    L’Italia era essenzialmente divisa tra comunisti e democristiani, due forze plasmate da una miscela di politica, ideologia e religione che utilizzavano a proprio vantaggio. E così era divisa anche la versione istituzionale della cooperazione italiana.

    Allo stesso tempo la Chiesa aveva delle difficoltà perché non riusciva più a trovare preti e suore che accettassero di partire in missione e vivere in Africa, Asia e America Latina. Le vocazioni di indiani, cingalesi, filippini non riuscivano a soddisfare la domanda. La Chiesa aveva bisogno di missionari laici, persone credenti che, senza far parte della struttura, avrebbero potuto aiutare nella gestione di missioni nei paesi in via di sviluppo. Un deputato democristiano fece quindi votare la legge Pedini n°1033 del 1966, che portò il suo nome e che fu poi modificata nel 1970. Questa prevedeva tra l’altro che un cittadino italiano avrebbe potuto sostituire il servizio militare obbligatorio con due anni di servizio civile da svolgere in un paese in via di sviluppo. L’Esercito non pubblicizzò mai questa possibilità, io stesso, che ero molto interessato, lo scoprii relativamente tardi.

    Naturalmente

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