Berserkr
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Berserkr - Alessio Del Debbio
casuale.
PROLOGO
La serata al Club der Visionäre era stata deludente. Musica pessima, troppa gente e soprattutto troppi turisti e studenti. Hansel odiava l’inizio della primavera, quando Berlino si riempiva di ragazzetti da mezza Europa che pensavano di fare i grandi fuori casa, solo per ritrovarsi a vomitare la terza birra nel canale di Kreuzberg, tra le risate dei compagni, lieti di sputtanare così i soldi dei genitori. Se Lars non l’avesse trattenuto, avrebbe spaccato la faccia a quell’italiano che faceva lo scemo con la cameriera, soprattutto quando lei aveva iniziato a ridere alle sue ridicole battute, biascicate in un tedesco tentennante.
L’aveva adocchiata la domenica precedente e Lars aveva scommesso duecento marchi che non sarebbe riuscito a scoparsela in una settimana.
«Le colleghe la chiamano ‘figa di legno’. Non dà mai corda a nessuno», gli aveva detto. Adesso erano passati cinque giorni e quel bastardo rischiava sul serio di vincere, a meno che Hansel non avesse pensato a una scusa decente per mollare Carla a casa con le gemelle anche l’indomani.
«Allora, ultima tappa? Facciamo un salto all’Artemis? La serata non è ancora finita», propose Lars, mentre uscivano dal locale. Si fermarono a un chiosco lungo il canale e si accesero una sigaretta.
Hansel sfogliò qualche rivista porno e comprò una birra e un pacchetto di patatine, guadagnandosi un’occhiata torva dall’edicolante. «Quella topaia? C’è da prenderci i funghi o peggio!» disse prima di incamminarsi lungo il Landwehrkanal.
«Allora andiamo a Oranienburger Strasse. Quella puttana domenica mi ha quasi strappato l’uccello. Julia la Vorace la chiamerò. I cento marchi spesi meglio della mia vita. Uuh, uuh, ulula bel lupetto, mi diceva!»
Hansel scoppiò a ridere, strozzandosi col fumo, mentre l’amico gli illustrava le prospettive della loro notte brava. Poi, d’un tratto, lo sentì irrigidirsi e si fermò, seguendo la direzione del suo sguardo. Tra gli alberi di Görlitzer Park, vicino al canale, camminava una ragazza che, a colpo d’occhio, non doveva avere più di vent’anni, sempre che non fosse addirittura minorenne. Indossava un vestitino bianco che le arrivava appena alle ginocchia, di una stoffa così trasparente che pareva fatto d’acqua e lasciava intravedere le sue forme, morbide e aggraziate, bagnate dalla luce della luna. E no, adesso che la guardava meglio, non stava camminando, bensì danzando, avanti e indietro, sollevando le braccia e scivolando sull’erba, leggera più dell’aria.
«Oh cazzo! Neanche ad andare fino a Mitte. Ci scopiamo questa!» disse Lars. «Dai, oh, quanto hai? Magari prende anche la carta. Gliela struscio tra le tette. Ma l’hai vista?»
«L’ho vista, l’ho vista», mugugnò Hansel, improvvisamente infastidito. Non era la prima che si scopava dopo il matrimonio e, anche se a Lars non l’aveva detto, neppure la prima minorenne. A sua difesa, ripeteva sempre, di Angela l’aveva scoperto solo alla fine e neanche i tenutari del bordello lo sapevano, ma questa… in lei c’era qualcosa di strano, che lo inquietava soltanto a guardarla.
«Andiamo al King George. Si sta meglio. Comodi, sul letto. Non mi va di scopare contro un albero.»
«Ma dai! Troppo vecchio?»
«No, troppo ubriaco», disse, ma ormai l’amico si era avviato verso la preda. Hansel gettò via la cicca e gli andò dietro. «Neanche una parola con Carla. Né con Vincent, lo sai com’è pettegolo lui. Come minimo lo va a dire a tutto l’ufficio; se mia moglie lo viene a sapere, sono fottuto.»
Lars fece per ribattere, quando Hansel si ritrovò la ragazza addosso. Aveva davvero un fisico esile, al punto che, scorrendo con le dita lungo la schiena, poteva sentirle le ossa della colonna vertebrale.
«No, no», ridacchiò lei, la voce di una bambina. «A Carla non diremo proprio niente!» Si mise un dito sulle labbra e iniziò a succhiarlo avidamente, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Lars, al suo fianco, soffocò un gemito, ma prima che Hansel potesse parlare, la ragazza lo tirò a sé e lo baciò. L’ultima prostituta con cui era stato si era messa subito in ginocchio e Hansel aveva apprezzato che non perdesse tempo, ma a quella bambina avrebbe perdonato di essere romantica, lo erano stati tutti a quell’età, in fondo.
Stava pensando a com’era lui a sedici anni, durante la Guerra, quando sentì qualcosa entrargli in gola e tappargliela. Annaspò, cercò di ritrarsi, ma la ragazza lo teneva stretto, con una presa che Hansel non pensava potesse essere così solida. Tentò di spingerla via, ma gli sembrò di scivolare sul fango, ritrovandosi la giacca umida, le mani e il petto bagnati, e la gola… che diavolo gli era entrato in gola?
Fissò la ragazza con sguardo terrorizzato e notò i suoi occhi verdi allungarsi e tingersi di giallo, come quelli di un serpente, mentre la sua lingua si faceva strada nella trachea, devastando i bronchi e scavando dentro con foga. Sentì le arterie che scoppiavano, il riflusso di sangue e chissà cos’altro salirgli su, ma la ragazza non lo mollò; continuò a guardarlo, divertita, finché la lingua non si avvinghiò al suo cuore e prese a strattonarlo. Hansel la sentì biascicare qualcosa poi, con un ultimo strattone, gli strappò il cuore.
Lars era rimasto in disparte, a controllare i soldi a disposizione. Non voleva passare da pezzente e farsi pagare la scopata dall’amico anche quella sera. Doveva ancora rendergli i soldi del festino all’Artemis senza che Gertrude si accorgesse dei continui prelievi. Lo sentì gemere e si voltò ridendo per dirgli qualcosa, magari di prendersi una stanza al King George, e vide la lingua della ragazza rientrarle in bocca, depositandole in mano un grumo sanguinolento.
«Ehi, ma che diavolo?» domandò, mentre il corpo dell’amico si afflosciava, con un rigurgito di sangue e altre sostanze organiche dalla bocca. «Hansel! Che succede?»
Soltanto allora parve accorgersi di quel che la ragazza teneva in mano.
«Si è un po’ rovinato, peccato. Sfigurerà nella nostra collezione, ma spero che mia madre lo apprezzi lo stesso», disse. Per tutta risposta, Lars si pisciò addosso, lasciò cadere il portafoglio e corse via lungo Görlitzer Ufer, solo per trovarsi di fronte una donna, in un rigido tailleur nero, a sbarrargli il passo. Non fece in tempo a chiedersi dove l’avesse già vista, che sentì qualcosa afferrarlo per una caviglia e sollevarlo da terra, e si ritrovò a volare fin dentro il canale. «È tutto vostro, sorelle», disse la ragazza, ritraendo la lunga lingua.
Lars agitò le braccia, tentò di rimanere a galla e di raggiungere il molo più vicino, ma attorno a lui comparvero decine di donne nude. Alcune avevano i volti di ragazze con cui si era divertito, mogli che aveva sedotto e abbandonato; altre sembravano creature bellissime, avvolte da un’aura angelica, e tutte lo chiamavano, tirandolo a sé. Si lasciò carezzare, cullato dal desiderio, poi le vide mutare aspetto.
Pelle squamata, lunghi filamenti verdastri al posto dei capelli, chiazze di fango tra i denti appuntiti. Urlò, ma fu spinto sott’acqua. Lo ritirarono su. Le sentì ridacchiare, prima di tornare a ingoiare acqua. Poi sentì un morso a un braccio, uno a un altro, mentre le creature si stringevano attorno a lui. Ne vide una masticare un grumo di carne e sangue, poi avventarsi di nuovo sulla sua spalla. Strillò, le implorò, ma le sue parole si persero nella notte berlinese, sovrastate da una delicata melodia.
Ne cercò l’origine e vide la fanciulla china sul cadavere di Hansel pulirsi le labbra sulla sua camicia. Lei ricambiò il suo sguardo e sorrise, poi ricominciò a cantare.
«Urla, se vuoi. Nessuno verrà in tuo aiuto», disse la donna, avvicinandosi. «Se anche qualcuno passasse, vedrebbe soltanto una ragazza dedicare una canzone d’amore al suo innamorato. È facile confondere i sensi, sai? Perché è questo che la gente vuole, questo ciò che cerca: riempirsi la bocca col lieto fine, credere che la vita abbia un senso e sia solo l’amore. Tutte stronzate.» Scansò la ragazza e diede un calcio al corpo di Hansel, gettandolo nel canale. Subito le creature vi si avventarono, tingendo l’acqua di bagliori vermigli.
«Woglinda, avete finito?»
«Sì, madre. Grazie, era delizioso», disse la fanciulla. «C’era del succo di ananas dentro di lui.»
«Ma no, era papaya», rise un’altra.
La donna sollevò un braccio e le zittì. Infilò il cuore di Hansel in uno scrigno a forma di conchiglia, poi indicò Lars. La ragazza si tuffò e in un attimo se la trovò addosso, le gambe strette attorno alla sua vita. Lars non capì più nulla.
«Succo di papaya», ridacchiò.
Un attimo dopo scomparve nelle acque del canale di Kreuzberg.
1
DECEIVER OF FOOLS
Lo svegliò lo sferragliare della metro e un’emicrania che poche ore di sonno non avevano lenito. Sollevò appena la testa e sbuffò infastidito contro la luce che proveniva dalle finestre aperte, per poi rituffarsi sotto il piumone sfatto, chiedendosi perché non avesse tirato le tapparelle la sera prima. Fece per stirare le gambe e sbatté in un corpo accanto al suo, che gemette in risposta, allungando le braccia verso di lui.
Ulrik si drizzò di scatto e guardò il ragazzo che dormiva nel suo letto, con l’espressione beata di chi non avrebbe voluto essere altrove. L’aveva avuta anche lui, un tempo, o era sempre stato così, in perenne tensione? Non aveva voglia di rispondersi, non a quella domanda che lo perseguitava un giorno sì e l’altro pure, non all’alba dell’ennesimo giorno infame in quella città che puzzava di metropolitana, birra e donuts.
Gettò via il piumone e si alzò dal letto scricchiolante, camminando a piedi nudi sulla moquette consumata. Sul tavolino del monolocale i cartoni di pizza ancora aperti e sette bottiglie di birra gli ricordarono la serata appena trascorsa. Si voltò verso il ragazzo addormentato e allora lo associò al cameriere della pizzeria Italia, che gli offriva sempre le porzioni più abbondanti e che, dopo il lavoro, era spuntato sotto casa sua con due cartoni di avanzi e tanta voglia di sesso.
A giudicare dalle tre bustine aperte di preservativi, dovevano essersi divertiti parecchio, anche se Ulrik non ricordava granché. Ormai quegli incontri li metteva in un cassetto defilato della memoria, in attesa che inventassero il tasto per svuotare il cestino delle cose futili. Magari un incantesimo l’avrebbe aiutato a dimenticare, ma non voleva che quelle stronze delle streghe mettessero le mani nella sua testa, già incasinata di suo.
Afferrò una bottiglia e vide che c’era rimasta della birra, doppio malto, la sua preferita; la finì poi mise i vuoti in una cassetta. Aprì la porta del terrazzino che dava sul Lietzensee e la depositò sopra le altre, che un giorno avrebbe portato al supermercato per prendere qualche moneta del Pfand. Nell’attesa avrebbe fatto incazzare ancora un po’ i condomini, che mal sopportavano quella deturpante esposizione sulla facciata del palazzo storico. Uno dei pochi usciti intonsi dalla Guerra.
A Ulrik quel palazzo aveva sempre fatto cagare, con quel colorito smunto e le ringhiere dei balconi incrostate di ruggine. Era come se uno Jötunn ci avesse vomitato sopra e quel vomito stesse ancora colando, lento, su tutti loro. Ma almeno la vista sul lago al tramonto non era male, se ti piacevano quel genere di stronzate romantiche.
Tirò fuori l’uccello e lo infilò tra le sbarre, dando il buongiorno a Berlino con mezzo minuto di pisciata. Salutò la vecchia dell’appartamento accanto, incollata al vetro con espressione indignata, e se lo scrollò facendole l’occhiolino. Quando rientrò, la vicina era ancora lì e Ulrik se la immaginò a leccare il vetro per tutto il resto della sua vuota giornata.
Perché continuava ad abitare a Charlottenburg era un mistero oltre l’umana comprensione. Il palazzo e il quartiere erano uno più morto dell’altro e di certo i festini di Neuntoter a Pankow erano ben più animati; ma in poche altre zone all’interno della Ringbahn avrebbe trovato un monolocale per cinquecento marchi al mese, più una scopata alla settimana a Frau Birke, quando il marito andava a caccia in Baviera. Guardò il cucinotto incassato tra il muro del bagno e la finestra, il ripiano sporco di caffè, e pensò che tutto sommato poteva andargli peggio.
«Ehi, già sveglio?» lo chiamò una voce assonnata.
Ulrik si voltò e vide che il ragazzo si stava stiracchiando. Denny? Donald? Dante? Vent’anni, occhi verdi da cerbiatto, piercing alla tetta destra e un groviglio di capelli scuri a cui doveva essersi aggrappato mentre lo montava. Sì, era proprio il tipo che un tempo gli avrebbe fatto perdere la testa.
Un tempo.
«Hai fame? Non c’è molto. Devo fare la spesa.»
Frase con cui faceva partire il disco di circostanza del mattino dopo e che sottintendeva un molto più semplice «togliti dalle palle». Ma Denny non parve cogliere l’allusione, limitandosi ad allungarsi sul letto e a tirarlo a sé. La voglia non si era ancora placata.
Ulrik fece per prendere un preservativo dal comodino, quando notò l’ora e realizzò di essere in ritardo. Scostò Denny e cercò il telefono tra i vestiti sparsi sul pavimento.
Batteria scarica. Meraviglioso!
Lo collegò al caricatore e corse a darsi una lavata. Si stava strusciando i denti con lo spazzolino bagnato – il dentifricio era in cima alla lista delle cose da comprare – quando Denny sgattaiolò in bagno e lo abbracciò da dietro, appoggiandosi alla sua schiena.
«Ehi!» gli disse, tirandosi su e scrollandoselo di dosso. L’altro sembrò non capire, continuando a fissarlo con quegli occhi da trovatello, così Ulrik gli indicò la doccia, accompagnandocelo con uno schiaffo sul culo. Almeno l’acqua calda, in quel bugigattolo, era sempre garantita.
Rientrò nell’unica stanza che gli faceva da camera, salotto e cucina, e annusò i vestiti per scegliere i più indossabili. Con una mano accese il telefono, che iniziò subito a lampeggiare tra messaggi e chiamate non risposte, mentre con l’altra si infilava calzini, jeans e una maglietta dei Within Temptation. La giacca era tutta unta e sperò fosse soltanto birra. La pulì con una spugnetta, non ottenendo altro che allargare la macchia, poi la gettò sul letto e optò per un giubbotto di pelle. Fabian avrebbe di sicuro avuto da ridire e anche il Comandante Nutz, ma si augurò di passare tutto il giorno dietro una scrivania a riordinare casi, così da evitare il contatto umano. E magari si sarebbe fatto un pisolino sopra quella montagna di fascicoli che nessuno avrebbe risolto mai. Anche