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La forza di pochi uomini malvagi ha reso nel corso dei millenni questo mondo folle. In un mondo dove la lotta per il predominio era l'unica ragione di vita, un valoroso condottiero scenderà un'ultima volta nell'arena per vincere qualcosa che avrebbe elevato il suo spirito oltre le vittorie conseguite, oltre l'egoismo, oltre l'amore; era in gioco la salvezza del genere umano. Avrebbe combattuto per lo JAHL.
LanguageItaliano
Release dateDec 13, 2017
ISBN9788827533376
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    JAHL - Maurizio Bazzano

    21

    PROLOGO

    La storia che vi sto per raccontare appartiene ad un’era le cui tracce resistono soltanto nei miti più antichi persi nei secoli. Nascosta dall’uomo che provando a controllare la storia, cerca disperatamente di estinguere il fuoco della verità.

    La forza di pochi malvagi ha reso nel corso dei millenni questo mondo folle, convincendoci che sia l'uomo l'unico padrone del pianeta e che la sua supremazia discenda da scatologiche leggi evolutive.

    Ma... in un tempo lontano, un'altra specie vegliava sulla natura primordiale, una razza nobile, possente nel fisico così come in spirito. Possente, poiché la natura selvaggia del pianeta richiedeva un dominio saldo, ma giusto. Leali tra loro, vegliavano sulla natura cercando di preservarne l'equilibrio, scevri da lotte di potere intestine.

    Nobili e potenti custodi della terra primordiale, questi erano i draghi.

    L'universo in quel tempo remoto era in piena espansione ed il nostro sistema solare vorticava nel caos, proiettato verso uno dei tanti confini che fanno parte del tutto e, nello scontro fra stelle e pianeti, l'avvicinarsi della Fascia Fotonica iniziò a creare molta preoccupazione tra i Custodi. Volando in lungo e in largo attraversando i cieli, i draghi poterono osservare l'etere spaccarsi arrivando a lambire le terre emerse. Videro le creature perire inermi sotto tali avversità e i grandi fiumi capovolgersi, devastando il pianeta. Giungendo esausti ad ogni riunione, riportavano con precisione ciò che avevano visto e vissuto negli interminabili voli, fin quando il gran consiglio ordinò loro di fermarsi a riposare, in attesa.

    Ma quando infine la terra venne avvolta dalla Fascia Fotonica, si levarono in volo oscurando i cieli. Aggrappandosi alle quattro funi di energia che sorreggono il creato all'interno del nostro universo, cercarono di mantenerlo in equilibrio. Ma potenti mascelle e artigli capaci di sollevare montagne sospinti da possenti ali, non furono sufficienti a stabilizzare la Terra. Per quanto l'afferrassero, per quanto tirassero il pianeta pareva impazzito. Le ali si spezzarono infine per lo sforzo, colpite da immensi detriti e l'urlo disperato dei draghi in quel giorno senza ombra squarciò l'universo. Caddero in molti, la natura ne uscì sconvolta e molte specie animali scomparvero per sempre. Ancor oggi le stelle ricordano quello straziante lamento. . . il pianto di Gaia.

    Gli dei, sconvolti da tanta pena, si riunirono in consiglio per decidere la sorte dei draghi colpevoli di tale disastro. Infine però li perdonarono in virtù del loro immenso sacrificio. Decisero quindi di affiancare ai custodi un compagno più intelligente e scaltro che fosse in grado di evitare futuri danni ed inviarono l’uomo sulla terra il quale avrebbe lavorato e custodito il pianeta coadiuvato dalla forza e dall’esperienza maturata nei secoli dai draghi. L’uomo, capendo l’errore commesso dai custodi alati, concepì il fuoco come fulcro di energia che avrebbe mantenuto l'equilibrio tra cielo e terra. Creò quattro correnti d'energia, chiamandole funi di vita. Queste, nascendo dal centro della terra si muovono verso i quattro punti cardinali, per poi tornarvi con cadenza regolare, generando così un battito eterno capace di mantenere stabile e vitale l'intero pianeta, preservando ed alimentando tutte le creature che lo abitano. Accettando il pensiero dell'uomo, i draghi cominciarono però a temerne l'intelligenza. Così un giorno, timorosi di perdere parte del loro potere, proposero un patto affinché nulla e nessuno potesse mettere in discussione l'eterna alleanza, estinguendo di fatto il fuoco dell'equilibrio.

    In gran segreto venne forgiato un oggetto sacro composto dalla fusione di quattro metalli, rappresentante quattro draghi impegnati a tenere in tensione le funi di vita del pianeta con al centro il sacro fuoco. L’oggetto, forgiato in un'unica fusione d'oro, argento, bronzo e ferro, conteneva al suo interno una piccola ampolla adornata anch’essa da quattro draghi nella quale fu racchiuso il cuore del più anziano e valoroso tra i custodi alati, sacrificatosi per rendere eterno il battito mistico del pianeta. Il reliquario prese il nome di Jahl.

    Ma poi, dopo secoli di armonia, fu proprio l'uomo ad infrangere il patto rubando lo Jahl, iniziando poi una caccia spietata contro l'antico alleato, colma di menzogne e tradimenti, animata da inutile ferocia che rese infine l'uomo unico ed indegno custode del pianeta.

    Col tempo però non fu più abbastanza e se ne attribuì il possesso, diventandone padrone violento, presuntuoso e dispotico, lontano discendente e orrida ombra dell'essere illuminato dei primordi.

    Il tempo scorreva veloce e il sacro fuoco che ardeva nello Jahl iniziò a estinguersi, il ricordo andò offuscandosi mentre l’umanità perdeva quel poco di armonia ancora vibrante nella terra.

    La lotta per il predominio divenne l'unica ragione di vita e ben presto, piccoli e rozzi duelli si trasformarono in vere e proprie sfide regolamentate e giocate in arene appositamente costruite. Il vincitore di queste competizioni prendeva il controllo dell’intera comunità, diventando ad ogni vittoria, sempre più potente e temuto. Ma poi le sfide e le battaglie nell'arena divennero sempre più pericolose e violente e l'uomo scaltro decise di assoldare altri come lui, affamati di gloria e denaro, mercenari che accettassero di combattere al suo posto, sostituendo definitivamente di fatto la politica all’onore, generando così un vero e proprio gioco a squadre che prese il nome di JAHL. In questo gioco ogni arena veniva creata per racchiudere al suo interno due campi di egual misura contrapposti, delimitati ai quattro lati da enormi teste di drago ringhianti scolpite in basalto. Dalle fauci spalancate una fiamma ardeva eterna, protendendosi verso il cielo. Nelle arene due squadre si fronteggiavano, ognuna composta da un grifone, tre arieti, due paladini e un centauro. Gli arieti, schierati sulla linea centrale, erano i primi a scontrarsi. Senza regole precise, unico loro compito era spingere gli avversari fino ad avanzare oltre la metà campo con ogni mezzo a disposizione. L’esito del loro scontro decideva quale centauro potesse avanzare tra gli avversari per infilare la sua spada in una delle quattro teste di drago scolpite, per fare punto. Ai paladini il compito di difendere l'avanzata del centauro, mentre i grifoni, posizionati dietro le linee erano gli unici a poter correre lungo il perimetro dell’arena, passando alle spalle degli schieramenti fin dall’inizio. Dosando correttamente l'andatura potevano trovarsi dietro la squadra avversaria quando si decideva il gioco. Tutti i giocatori avevano come unico scopo quello di fermare i Centauri avversari, i soli autorizzati a far punto. Vinceva la squadra che per prima infilava quattro spade nelle bocche dei draghi del campo avversario, spegnendone le fiamme. Il gioco durava un massimo di otto tempi ognuno scandito dalla durata di una clessidra. Giudice indiscusso nell’arena era il Sacro Dromo, anziano e valoroso Centauro supremo che armato di una lunga lancia arbitrava il gioco. Lo scontro aveva inizio quando il Dromo abbassava l'arma rituale tagliando simbolicamente il terreno all'urlo di Jahl!. La corsa dei paladini iniziava non appena la lancia puntava la loro metà campo e l'incontro terminava quando la stessa si alzava parallela al terreno. Sollevata tre volte decretava la fine dello scontro. Era questo il gioco dello Jahl e quella che vi racconto è la storia di un grande condottiero. Di nobile stirpe, si era impegnato fin da fanciullo nello studio delle armi ed il suo innato senso dell’onore lo aveva portato a combattere in molte arene uscendone sempre vittorioso e sempre più ricco. . .

    . . . Tyr era il suo nome. . .

    Capitolo 1

    p { margin-bottom: 0.25cm; line-height: 120%; }

    In quella fredda giornata di inizio primavera il sole basso che risplendeva vacuo in un cielo velato, non scaldava ancora abbastanza per poter scacciare l'inverno, mentre nell'arena ormai alle spalle, riecheggiava ancora il suono della loro ennesima vittoria, l'ultima. Immersi nei pensieri, sporchi e maleodoranti, cavalcavano in silenzio cercando di ricordare quando tutto ebbe inizio e da quanto tempo continuasse quella gloriosa avventura. Ognuno di loro, se interrogato, avrebbe dato una versione personale, dettagliata e completa, ma sempre diversa della storia. Mentre avanzavano, il sole perforò la lieve coltre di nubi irradiando con i suoi raggi la terra sottostante e l'improvviso chiarore illuminò i volti tirati. Stanchi, sporchi di fango e sangue i compagni di ventura cavalcavano in silenzio procedendo lentamente verso casa.

    Raggiunto un bivio, spronarono i cavalli, aumentando l'andatura. Attorno a loro la natura non aveva ancora voglia di destarsi eppure pareva che qualcosa stesse cambiando. La strada si snodava sinuosa lungo le radici della collina a sud fino a stringersi prima di iniziare a salire. Tyr e Janisc procedevano come sempre in testa affiancati, seguiti dal resto del gruppo. Al centro della carovana il cavallo col bottino della vittoria caracollava reggendosi a stento sui garretti stanchi. Quel viaggio ormai era un rito, la strada si inerpicava sempre più in alto, verso punta Timoria, cima impervia e vetusta, la parte dei loro domini più vicina al cielo. Su quella strada avevano riso, gioito, pianto per i compagni persi nell'arena ma l'avevano sempre percorsa da vincitori. Il sentiero tornò ad allargarsi sul pianoro portandoli ad una serie di biforcazioni per poi restringersi ulteriormente prima della salita. L'aria intorno a loro cominciò a cambiare sapore. Il secco gusto dell'inverno si stava addolcendo preparando la natura a nuovi frutti mentre le prime api facevano la loro comparsa ronzando nella brezza alla ricerca dei pochi fiori sbocciati. La piccola carovana in arme arrancava, seguita dal freddo silenzio che permaneva ormai dall'inizio del viaggio. Tyr sentiva il peso della sua decisione farsi più greve ad ogni metro percorso ed il silenzio alle sue spalle non lo rincuorava affatto, anche se sapeva d'essere nel giusto, provava un profondo senso di amarezza. Continuando a salire lungo il tortuoso sentiero l'aria cambiò nuovamente sapore tornando ad essere secca e fredda, così i cavalieri alzarono sul capo, uno ad uno, i cappucci di lana ruvida dei mantelli. Cavalcavano in silenzio da ore ormai ben consci che una volta arrivati a destinazione il loro esilio avrebbe avuto inizio. Alle spalle, lontano a nord riposavano le immense terre selvagge e indistinguibili nella foschia, l'arena, troppo lontana ormai per sentirne il rumore che risuonava ora solo nei ricordi. Le mani che tenevano saldamente le briglie scivolarono sotto i pesanti mantelli a sfiorare istintivamente le armi mentre dalle narici dei cavalli la condensa creava disegni tridimensionali che si disperdevano poi nell'aria circostante. Il sentiero divenne improvvisamente molto più ripido e dovettero nuovamente spronare i cavalli per poter mantenere un'andatura decente e mentre gli zoccoli a stento reggevano gli animali sul muschio molle e odoroso, i pensieri turbinavano vorticosi mentre il malessere cresceva. Non era semplice pensare o anche solo concepire, per chi è abituato a vincere che non si può vincere per sempre.

    Capitolo 2

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    L'alba offriva ai due corpi abbracciati sotto la pesante pelle di capra un inaspettato arcobaleno. Elisabeth continuava a strusciarsi felina sul suo petto possente, costringendo Tyr a letto. Rimasero stretti ancora qualche istante perché ormai quel magico momento era diventato una sorta di rituale, un saluto al nuovo giorno, poi però, il guerriero, svincolandosi con un bacio, si mise in piedi lasciando che il fresco del mattino aggredisse la sua pelle coriacea. « Perdonami mio fiore, ma devo andare a mungere le bestie, cominciano a scalpitare.». Detto questo, si vestì velocemente, seguito come sempre dallo sguardo civettuolo della sua amata, uscendo poi nel sole. Raggiunta la stalla prese i secchi riposti come sempre dietro la porta il giorno prima e sedendosi sul suo comodo sgabello di legno d'acero, munse le due vacche e poi le capre. Poi svuotò i recipienti ormai colmi in una capiente tinozza alta in rame e fece uscire gli animali dalla stalla lasciando che si nutrissero della prima erba primaverile ancora velata di rugiada. Li osservò procedere in fila indiana intenti a cercare il loro pezzo di pascolo mentre in silenzio rifletteva sul nuovo giorno appena sorto «Oggi sarà una giornata calda, quasi estiva», pensò, osservando il cielo terso, quando un rumore alle sue spalle lo fece trasalire. Si voltò di scatto cogliendo di sorpresa il cane che stava bevendo furtivamente il latte appena munto. Sgranò gli occhi assumendo lo sguardo che nell'arena faceva tremare i suoi avversari e gli si scagliò contro. L'animale guaì atterrito per poi fuggire temendo la giusta punizione. «Continua pure a fare il furbo che prima o poi te la taglio quella coda!», inveì sulla porta della stalla mentre il cane correva a rifugiarsi dietro la casa. Elisabeth affacciata alla finestra osservava la scena divertita e Tyr le sorrise scuotendo il capo mentre lei gli faceva cenno di rientrare.

    Era bellissima affacciata a quella finestra con i capelli ondulati illuminati dal primo sole del mattino ancora basso ad est mentre una lieve brezza primaverile li scuoteva dolcemente incorniciandole il viso di un bianco etereo, impreziosito da due grandi occhi chiari e trasparenti come acqua di sorgente. Aveva indossato quel vestito di un rosso rubino acceso, impreziosito da pizzi bianchi, che l'aria pulita del mattino rendeva più brillante esaltandone le forme, aumentandone se possibile lo splendore. Il suo sorriso racchiudeva la bellezza del firmamento e quelle fossette sulle guance lo facevano impazzire.

    Gli saltò addosso stringendosi forte a lui non appena ebbe varcato la soglia di casa. Stringendo tra le delicate mani un bel mazzolino di fiori primaverili, gli sussurrò all'orecchio che la colazione lo attendeva fumante sulla tavola. Afferrandola per i morbidi fianchi, la sollevò senza sforzo alcuno e sorridendo la baciò a lungo, dolcemente. «Pensi di rimettermi a terra prima o poi?». Elisabeth si divincolava nella sua morsa cercando di liberarsi ridendo, Tyr a quel punto, liberandola, accettò il mazzolino di fiori e annusandolo fece finta di fuggire con il bottino mentre Elisabeth lo afferrava nuovamente alle spalle divertita. «Questi fiori non profumano come dovrebbero. Siamo alle porte dell'estate ormai, ma l'aroma e flebile, quasi primaverile, la stagione delle piogge quest'anno sarà forse più abbondante del solito.». Elisabeth lo precedeva ora mentre si dirigevano in cucina, «Dovremmo mettere tutto il fieno per gli animali nella stalla, all'asciutto.». Tyr ascoltava annuendo mentre si sedeva a tavola davanti ad una ciotola di latte caldo e pane al sesamo. La cucina era addobbata a festa come sempre. Elisabeth amava i colori della natura, manteneva i fiori nei vasi sempre freschi e la casa profumata. Le piaceva quell'atmosfera gioiosa e leggera e a lui andava bene così. Dopo anni di sangue e morte nell'arena, quella dimensione lo rasserenava, colmandogli l'anima di gioia. Aveva arredato la casa utilizzando con gusto gli arredi e gli arazzi preziosi provenienti dalle innumerevoli vittorie conseguite dalla sua squadra nei decenni di gloria. Ricchi tappeti dai mille colori giacevano sul pavimento a coprire la fredda pietra. Disposti con maestria, formavano un caldo caleidoscopio di immagini e colori sempre vivi. Sulla parete ad ovest un bel caminetto in pietra faceva mostra di sé adornato da quattro belle mensole in legno di frassino che Tyr aveva costruito mesi prima per reggere una magnifica collezione di ceramiche e maioliche dipinte in oro, provenienti dalle terre ad est, stracolme di gusti essiccati cresciuti nel loro piccolo orto.

    Dopo la colazione la giornata corse via veloce e spensierata, tra giochi e amore. Nei giorni successivi si misero al lavoro per conservare le derrate destinate agli animali temendo la pioggia imminente. Il cielo sereno e il silenzio attorno a loro era rotto a tratti dallo stormire delle querce mosse da un leggero vento da sud. Suddivisero paglia già secca e fieno ancora odoroso di linfa per poter meglio alimentare vacche e capre. Trasportarono ogni balla perfettamente rilegata fuori dal fienile e poi la divisero per poterla meglio immagazzinare usando i due accessi dello stesso. Attraverso una larga scala robusta Tyr, trasportando le balle su di una gerla a spalle appositamente costruita, deponeva il fieno in muri ordinati vicino alla botola posta direttamente sopra la mangiatoia nella stalla, una comoda scala a pioli a lato della travatura di supporto del fienile, permetteva poi di accedere alla stessa con facilità. A livello del terreno invece il piccolo portone di legno aperto lasciva entrare il primo sole caldo della primavera accogliendo Elisabeth che spingeva una graziosa e robusta carriola di legno colorata di verde e giallo carica di paglia. Ci vollero due giorni per finire il lavoro, ma poi tornarono alla vita di tutti i giorni più sereni.

    In un assolato pomeriggio Tyr si trovava nella piccola rimessa appoggiata al fienile nella quale riposavano una decine di gabbie piene di conigli e galline. Elisabeth voleva cucinare un succulento coniglio al vino e gli aveva chiesto di sceglierne uno bello grasso. Il guerriero osservava i caldi corpi pelosi dalle lunghe orecchie con attenzione, poi, finalmente deciso, afferrò un esemplare corpulento dal manto maculato che cercò invano di liberarsi dalla ferrea stretta della sua mano enorme. Tyr, tenendolo per le orecchie, lo colpì velocemente sul naso umido con forza, uccidendolo all'istante. Prese dalla cintola il lungo ed affilato coltello che recava sempre con sé, ricordo dell'arena e tenendo sollevato il corpo ormai inerme del grasso animale, recise la pelle delicata del basso ventre con un solo, sapiente movimento del braccio muscoloso. Afferrando poi la stessa, tirò con forza liberando la carne dal collagene che tratteneva la pelliccia. Agganciò quest'ultima a quattro grossi chiodi di legno affissi al muro per farla seccare in attesa di essere conciata poi finì sviscerando l'animale mentre fuori il cane latrava eccitato dall'odore del sangue, in attesa del solito boccone.

    Tyr uscì nel sole affrontando con un sorriso il discolo compagno di caccia che a grandi balzi cercava di afferrare con i denti la carcassa del coniglio posta sopra il suo muso adunco. Dal canto suo Tyr si divertiva ad eccitare l'animale, poi però, dopo qualche minuto di inutili e divertenti salti, aprì la mano che stringeva le interiora ancora fumanti lasciandole cadere in terra. Subito il cane vi si avventò sopra voracemente, consumando però con delicatezza l'inaspettato, goloso pasto come a volerlo gustare con calma. Infine pulì dal sangue rappreso la mano del suo padrone ed attese le sue carezze scodinzolando felice, continuando però a puntare il coniglio nell'altra mano. «Non fare il furbo, il resto è mio lo sai.». Tyr si avviò poi verso casa, seguito dall'amico peloso mentre il cielo si rabbuiava annuvolandosi, colmando l'aria di fredda umidità. Osservando le nuvole nere gigantesche e minacciose, aprì la porta ed entrò compiaciuto per aver previsto la pioggia imminente.

    Il mattino dopo pioveva copiosamente, il cielo plumbeo e carico d'acqua oscurava il sole, simulando la notte. Fu svegliato dal rumore delle gocce che battevano sul secchio di rame usato solitamente da Elisabeth per bagnare i fiori che riposava ora sotto lo spiovente del tetto. Osservò il sonno della sua compagna per un paio di minuti poi si alzò silenziosamente per la mungitura, tornato poco dopo dalla stalla recava con sé una brocca di latte fresco ancora caldo. Silenziosamente diede un'occhiata in camera per accertarsi che la sua amata stesse ancora dormendo. La camera immersa nella penombra si presentava semplice con un pagliericcio al centro e due spogli armadi a due ante in legno naturale. Una sedia stava di fronte ad un grazioso tavolino in castagno che aveva costruito lui stesso, impreziosendolo con uno specchio incorniciato in oro e pietre preziose anche questo parte del bottino delle arene. Ad Elisabeth piaceva molto stare seduta a pettinarsi osservando la sua immagine riflessa. Accese il fuoco e preparò la colazione poi andò a darle il buongiorno. Si sedette sul ciglio del letto passandole dolcemente una mano tra i capelli color grano. «Buongiorno dormigliona.», «Che ci fai tutto vestito?», rispose lei con voce rauca sorridendogli. «È ancora buio.», « Piove tesoro. Ho preparato la colazione e sono già stato in stalla.», «Allora vieni qui.». Lo afferrò per il collo tirandolo a se. Si rotolarono facendosi il solletico e poi fecero l'amore. Tyr strusciando il naso su quello di lei sussurrò, «Avevo preparato la colazione...», «La scaldo io, maschiaccio.».

    Nel pomeriggio la pioggia continuava a cadere incessante mentre Elisabeth cucinava per la sera. Tyr se ne stava alla finestra controllando di tanto in tanto la porta della stalla e poi le nubi. Le gocce d'acqua scendevano tanto fini e vicine che a stento si riusciva a distinguere le familiari assi di legno della stalla e di tanto in tanto qualche tuono irrompeva nell'aria carica di elettricità scatenando muggiti e belati di terrore dall'interno. Senza dire nulla si spostò poi nella camera a fianco, un piccolo salottino formato da un divano di cuscini finemente ricamati da Elisabeth e addossati alla parete più lunga che dava all'esterno. Un delizioso tavolino riposava al centro della modesta stanza, ricoperto di cesti in vimini pieni di filo per ricami e lana. Andò alla finestra guardando il cielo anche da quella direzione. La perturbazione era immensa, si estendeva a perdita d'occhio in ogni direzione, ma nonostante tutto ogni cosa andava bene. Allora perché si sentiva comunque stranamente inquieto? Istintivamente ripensò all'arena. Il suono ed il clamore delle urla provenienti dagli spalti gremiti, risuonò con violenza nelle sue orecchie come se fuori dalla porta di casa la sua squadra di un tempo lo stesse aspettando battendo le armi sugli scudi, mentre il ricordo del sapore della terra mista a sangue invadeva nuovamente la sua bocca. Immediatamente la voglia di stringere nuovamente l'elsa delle sue temibili spade gemelle dimenticate ormai da troppo tempo lo pervase. Non le vedeva più dai giorni dell'esilio volontario, era stata tanta la fretta di dimenticare i giochi che non le aveva nemmeno più pulite. «Forse potrei ripulirle ed oliarle a dovere, controllare se il filo e ancora quello di una volta.», riflettendo, cercando di convincere se stesso che sarebbe stato un modo come null'altro per passare il tempo, cercò con lo sguardo il baule di mogano nero che conteneva le armi e le vesti da battaglia dimenticate. Silenzioso e tetro, riposava come sempre nell'angolo a sud del salottino, lì dove le mura si univano a formare la divisione tra le stanze. Lo aprì quasi timoroso, fermandosi ad osservarne il contenuto. La coperta di spesso broccato verde era ancora dove l'aveva lasciata anni prima, stretta da un cordone di canapa naturale, all'interno dell'involto giacevano le spade che fecero la storia. Sotto le armi, la bisaccia e lo spesso corpetto in pelle di leone, giù in fondo, poco discosto dai finimenti intarsiati d'oro ancora sporchi di sangue di chissà quali vittime ormai dimenticate, gli attrezzi per la manutenzione delle preziose lame sembravano protendersi verso quella nuova, inaspettata luce, quasi chiamandolo. Prese una sedia sistemandola vicino alla finestra per poter approfittare della poca luce ancora offerta dal giorno, quindi depose il lungo involto verde sul divano per poterlo svolgere più agevolmente. La sua mente riprese in parte il corso dei pensieri quotidiani. Sentiva la presenza di Elisabeth nell'altra stanza e questo lo rilassava. «Hai tenuto da parte la pelle del coniglio?». Chiese lei dalla cucina. , «Si amore, l'ho messa ad asciugare.», le rispose intento a svolgere la coperta, «Voglio farti un paio di guanti per il prossimo inverno.», Tyr sorrise scuotendo il capo. Tutto questo gli piaceva, la casa calda, il profumo del cibo e soprattutto lei che nonostante il benessere e la ricchezza, gli cuciva ancora i guanti su misura. Divertito, non disse nulla ben sapendo che quello era uno dei tanti modi che la sua donna aveva per prendersi cura di lui, per renderlo felice. La coperta era ora completamente aperta e rivide le sue armi. Le osservò per qualche istante ripensando a quanto tempo era passato dall'ultima volta che le aveva impugnate e l'emozione lo colse impreparato. Poche, calde lacrime cominciarono a rigare gli zigomi spigolosi mentre i palmi delle mani callose stringevano le comode else. Erano identiche, nessuno avrebbe potuto distinguerle, ma lui sapeva perfettamente qual era la destra e la sinistra. Le soppesò piacevolmente guardandole fendere lentamente l'aria, le adorava. Andò verso la finestra per osservarle in controluce ricordando quanto gli era costato in termini di denaro e fatica quel viaggio a est per raggiungere il mastro ferraio che gliele aveva forgiate e quanto tempo gli ci era voluto per imparare ad usarle e sorridendo, guardò il cielo ricordando quel piccolo uomo dai polsi d'acciaio, chiuso nella sua mirabile fornace. In quell'antro magico ed infernale al tempo stesso, aveva visto un informe pezzo di metallo divenire foglio per poi ripiegarsi su se stesso più e più volte, fino a trasformarsi in lama, la più flessibile, la più tagliente. Si sedette sempre sorridendo e prese dalla bisaccia il panno per la lucidatura mentre fuori dalla finestra continuava a diluviare.

    Elisabeth stava girando il sugo con le patate chiedendosi cosa stesse facendo nell'altra stanza il suo uomo. Sorrise immaginandolo addormentato sul divano quando un suono metallico la fece trasalire. Si fermò per ascoltare meglio, il suo viso si incupì. Lasciò andare ciò che stava facendo e silenziosamente si avvicinò alla porta. Lo vide seduto alla finestra intento a lucidare la lama di una delle sue spade curve e le si gelò il sangue. Entrò nella stanza quasi urlando! «Cosa fai?», «Le pulisco cos'altro.», riuscì a stento a deglutire il nodo che aveva in gola mentre continuava ad incalzarlo sommessamente. «Non le avevi mai più prese da quel giorno.», «È per questo che le sto pulendo.». Rispose sorridendo ingenuamente Tyr, poi si volse in tempo per vederla impallidire appoggiata allo stipite della porta. Posò la spada a terra correndole in contro con tanta veemenza che la sedia cadde all'indietro. «Stai bene!? Cosa ti succede?!», fece sorreggendola dai fianchi, «Nulla, scusami e solo che..... pensavo le avessi scordate.», «Non potrei mai scordarle. Le stavo solo pulendo, così per passare un po' il tempo. Le metto via appena finito e vengo di là con te.», «Grazie.», gli sussurrò lei, appoggiando poi dolcemente la fronte alla sua. Intanto l'odore del coniglio al vino con patate aveva ormai saturato l'aria resa umida dal freddo temporale che da ore imperversava sulla regione. Tyr, riposto nuovamente l'involto verde nel baule nero, si sedette a tavola, servito da Elisabeth, ma appena ebbero iniziato a pranzare il cane prese ad abbaiare con forza, allontanandosi sotto la pioggia. Tyr si alzò andando verso la finestra con sguardo interrogatorio mentre la sua donna lo osservava preoccupata. Sul sentiero brullo pieno di fango, un cavaliere ricoperto da un manto di pelle nera, procedeva al piccolo trotto scortato dal ringhiare minaccioso del cane. La tesa abbassata sul viso lo rendeva irriconoscibile. Tyr raggiunse la porta, spalancandola, mentre il cavaliere raggiunta la casa, cercava riparo sotto la tettoia dopo aver legato il cavallo fradicio e fumante alla staccionata di legno bianco. Tyr lo fissò immobile sull'uscio, i pugni poderosi stretti lungo i fianchi. Il cavaliere si tolse il cappuccio per farsi riconoscere, pur rimanendo a distanza di sicurezza. «Ciao Tyr, visto che tempaccio?», «Janisc?». Elisabeth quasi svenne per la sorpresa, il ritorno di Janisc non presagiva certo buone notizie. Si fece forza dicendosi che forse si sbagliava. Forse quella era solo una visita di cortesia e dopo qualche bevuta Janisc sarebbe tornato nell'inferno che lo aveva generato. Aveva quasi dimenticato gli anni di angoscia e tormenti passati ad aspettare il suo uomo di ritorno dalle arene, le notti solitarie trascorse a fissare il soffitto con la paura di non rivederlo più o peggio di ritrovarlo disteso sulle ruvide assi di un carro con gli occhi chiusi nel freddo sonno della morte. Trasse un profondo respiro e raggiunse la porta per salutarlo. Tyr e Janisc si stavano già

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