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Nel dolore e nella gioia
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Nel dolore e nella gioia

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About this ebook

L’implacabile sole iberico sembrava alleato delle truppe napoleoniche nell’opprimere il morale del maggiore Zachary Foster. Il suo eroismo e i suoi valori, erano costantemente messi alla prova dalla forzata contemplazione delle scene di violenza senza fine offerte da una guerra non sua.

La dolcezza lenta e bucolica della campagna inglese aveva sempre rappresentato l’ideale di vita della giovane Lavinia Hall. Le rive verdi del lago prossimo alla casa, le sue acque gelide tutto l’anno, i boschi ombrosi dove rifugiarsi d’estate, il giardino e l’orto che amava coltivare. Tutte sfaccettature della sua vita quotidiana, diventate, oramai, concrete sicurezze sulle quali aveva fondato la sua esistenza e nelle quali immaginava di radicare il suo futuro.

Zachary e Lavinia, distanti nel tempo e nello spazio eppure accomunati dalle esperienze dell’abbandono e della perdita. Succubi della perseverante apprensione causata dalle dolorose metamorfosi imposte loro dall’esistenza.

Due storie. Due destini che non sembra possano avere null’altro in comune se non il senso di privazione e sacrificio. Due esistenze, invece, inevitabilmente destinate a collidere, come attratte dalla forza gravitazionale del loro rimpianto. Nel dolore e nella gioia.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 19, 2017
ISBN9788827801376
Nel dolore e nella gioia

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    Nel dolore e nella gioia - Ezio Testa

    Gozzano)

    Capitolo 1

    Portogallo/Spagna, 27 luglio del 1809

    La tenda da campo del generale Arthur Wellesley era afosa, ma il maggiore Foster non se ne rese neppure conto. Il suo battaglione era accampato sulle alture a nord della città di Talavera, a sudovest di Madrid, da troppi giorni per fare ancora caso al caldo soffocante. I ventimila uomini dell’armata britannica erano stremati e lui con loro. Era nervoso e sfiduciato. Nulla di quello che faceva sembrava portare a un decisivo cambiamento. Quella lenta guerra, nata per preservare le istituzioni in cui credeva dall'irruenza napoleonica, che rischiava di metterle in dubbio persino in patria, sembrava oramai protrarsi all'infinito.

    La giacca rossa della divisa aveva visto giorni migliori e nessun attendente, neppure uno bravo come il suo, avrebbero potuto renderla più presentabile. Ciò nonostante, ne tirò l'orlo per cercare di mitigarne l'aspetto stropicciato. Quel giorno il suo umore era tetro per il caldo, per la spossatezza ma, soprattutto, a causa della rinnovata consapevolezza che mesi prima avevano perso una grande occasione. C'era stata, infatti, l'opportunità di impartire una lezione, forse decisiva, all’armata di occupazione francese, agli ordini del maresciallo Victory. In quel frangente avrebbero potuto scrivere un’altra storia, a loro vantaggio ed invece, non ne avevano approfittato. Questa persistente percezione, se avesse avuto ancora sufficiente energia, lo avrebbe fatto ribollire dalla rabbia, invece lo costringeva in uno stato di nero sconforto.

    Se gli spagnoli, al comando del generale Questa, sfiniti dopo la sconfitta subita a Medellìn, non avessero rifiutato di unirsi a loro a Oropesa, il risultato sarebbe stato ben diverso. E questa certezza lo avviliva.

    L’aiutante di campo del generale rispose meccanicamente al suo saluto e, a un cenno del suo superiore, li lasciò soli.

    «Signore, il maresciallo Victory ha appena attraversato il fiume Alberche.» Annunciò, senza che il comandante alzasse neppure la testa dalla mappa che aveva dispiegato davanti a sé.

    Troppo concentrato, lo giustificò Zachary Foster, restando immobile sull’attenti. E si predispose ad aspettare. Aveva iniziato a conoscere quell’uomo e a rispettarne alcune eccentricità, ampliamente superate dalle sue rassicuranti capacità di comando. Il rispetto nei suoi confronti era sempre maturato nel tempo.

    «E gli spagnoli?» Domandò infine Wellesley, con tono neutro, apparentemente poco sorpreso.

    «Si sono limitati a morire o a indietreggiare.»

    Il generale alzò solo allora la testa e osservò Foster pensoso.

    «Avete compreso quale sarà la prossima mossa di Victory, maggiore? Forse un attacco frontale?» Foster dovette dare atto a quell'uomo di non perdere mai tempo in tanti giri di parole. Era una delle poche persone ancora capaci di metterlo in soggezione.

    «Mi sono affrettato a raggiungervi, generale, prevedendo che sia sua intenzione arroccarsi a Cerro Medellìn. Gli alleati sono stati già allertati.»

    «Mmh, non sono convinto che sia sufficiente.» Alcune mosche iniziarono a volteggiare nella tenda, apparentemente indecise su quale sudore prediligere tra quello dei due uomini. Il silenzio si protrasse, rotto solo dai rumori esterni che giungevano ovattati. Zachary aveva imparato ad aspettare. Era una delle tante trasformazioni che aveva avuto il suo carattere e, attendere, oramai lo sapeva fare molto bene, adeguandosi al ritmo di pensiero del suo comandante.

    «Le truppe di Bonaparte sapranno già quali sono le nostre difese e l’entità delle nostre truppe.» Sospirò infine Wellesley, scuotendo il capo. «Se hanno deciso di provarci, allora vuole dire che ritengono di avere delle possibilità.» E ridivenne pensieroso.

    «Foster,» ordinò infine, «non sono tranquillo. Recatevi subito alla 2° Divisione, dal generale Hill. Informatelo di quello che sta accadendo e ditegli che gli ordino di andare a supporto nella zona. Vi unirete anche voi, maggiore, precedendoli con i vostri cavalieri.» Poi, come dando voce a un suo ragionamento parallelo, precisò ancora: «Ho saputo che i francesi dispongono di una notevole potenza di artiglieria.»

    «L’artiglieria si muove lentamente, generale.» Asserì il maggiore, sapendo di precisare l'ovvio. «Non riusciranno a utilizzarla pienamente se vogliono condurre l’azione già in giornata.»

    «Mmh, la rapidità determinerebbe un indubbio vantaggio tattico.» Confermò il generale. «Va bene, andate adesso e salutatemi Hill.»

    E, Zachary Foster, fatto un breve cenno di commiato, uscì volentieri da quella tenda soffocante.

    Il terreno era duro sotto le suole, reso crepato e polveroso da un sole più implacabile che in patria. Quel giorno, però, il clima era migliore. Delle nubi procedevano pigre, apparentemente incerte se addensarsi o scomparire, donando un minimo di tregua dalla calura opprimente.

    Era sbarcato in Portogallo l’anno precedente e, da allora, era stato catapultato in un inferno di calore e morte e violenze senza fine, che l’avevano prima sorpreso, poi sconvolto ed infine piegato. Ma alle quali non si era ancora assuefatto.

    Aveva partecipato a innumerevoli azioni, in groppa al suo frisone nero. Seguendo l’esempio del suo generale, non si era mai risparmiato nel condurre sempre in prima persona i suoi uomini, ma era riuscito a non essere mai stato raggiunto dalle lame affilate del nemico né dalle sue pallottole roventi.

    Quest’apparente immunità, non gli aveva impedito di provare comunque orrore per le violenze cui era costretto ad assistere, né dolore per la perdita di tanti dei suoi uomini, nella cui morte aveva diluito parte della sua arroganza, della sua superficialità. Della gioia di vivere così imprescindibilmente legata alla giovinezza.

    Suo padre, il conte Vernon Foster, gli aveva acquistato il grado di ufficiale due anni prima di morire. Zachary, in quell’occasione, aveva combattuto con la sua coscienza, che gli gridava di non accettare più nulla da quell’uomo che tanto disprezzava ma, alla fine, aveva ceduto. Aveva avuto giusto il tempo di farsi confezionare un paio di divise e acquisire un po’ di dimestichezza con le armi, che era stato inviato in missione nel continente. Quello che lo faceva sorridere era il pensiero che, allora, al momento della partenza, si era sentito colmo di eccitazione e spavalderia. Era salpato senza voltarsi indietro, rassicurato dallo sguardo orgoglioso di una donna e pronto ad affrontare le battaglie con lo spirito alimentato dal senso dell'onore e della giustizia. Due valori che avrebbe detto incrollabili e inattaccabili da qualsiasi esperienza l'attendesse.

    Adesso aveva ventidue anni. Gli sembrava, però, di aver realmente vissuto solo negli ultimi due e di aver a provato consapevolezze bastanti per molto più di un’intera vita.

    Non aveva mai invidiato suo fratello Peter, primogenito ed erede, proprio per le responsabilità e i grattacapi derivanti dal titolo. Ma, adesso, dopo quasi due anni di combattimenti, tutto quello gli appariva sfumato e patinato. L’intera sua esistenza precedente al suo arruolamento, era diventata sfocata e inconsistente, fatta di abitudini formali e passatempi vuoti

    Eppure, Dio come li aveva desiderati! Avrebbe voluto farvi ritorno anche l'indomani ma, nello stesso tempo, aveva l’impressione che sarebbe stato impossibile per lui, riadattarsi a quei ritmi intensi ma vuoti e frequentare le stesse amicizie di allora, senza poter condividere con loro le lezioni di vita che gli erano state impartite suo malgrado.

    In certi momenti di particolare apprensione, d’incertezza o di dolore, cercava conforto nella sua tenda e scriveva a Sarah. Su quei fogli, un po’ stropicciati, confidava tutto. Talvolta aveva temuto che la sua crudezza e i dettagli non edulcorati, potessero sconvolgerla, ripugnarla, farle temere per lui ma, col tempo, gli era stato impossibile censurare proprio quelle immagini che più lo facevano stare male. E lei aveva sempre risposto.

    Perlomeno all’inizio.

    Non era stata tanto la percezione della morte ad averlo cambiato.

    Da lei non era mai stato soggiogato. Neppure al suo primo assalto quando, molti suoi pari si erano bloccati, come statue di sale, incapaci di compiere qualsiasi azione, persino la fuga, lui era sempre avanzato, affrontando il nemico, quello francese e quello dentro di lui. Ad affliggerlo, poco alla volta, come un veleno assunto con costanza e metodo, era stata la continua consapevolezza della violenza e della sofferenza che permeavano tutto e con le quali era costretto a convivere e di cui era direttamente anche causa. C’era quella fisica, visibile, percepibile ovunque intorno a lui, e quella mentale, più subdola e meno evidente ma, forse, più devastante. Troppi uomini erano stati spazzati via dalle truppe francesi di occupazione, al servizio di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone. Erano stati uccisi oppure orribilmente mutilati e, alla fine, resi comunque inabili non solo al servizio, ma a riprendere una qualsiasi forma di vita attiva una volta tornati in Inghilterra. Molti avevano famiglie e Zachary, era tristemente cosciente che, anche a loro, sarebbe toccato condividere lo stesso destino di atroce misera e desolazione a cui erano destinati quegli uomini. La madre patria, infatti, non prevedeva nessuna forma d'indennizzo o di pensione per coloro che rischiavano o donavano la vita per lei.

    Dopo essersi lasciato la tenda del comando alle spalle, attraversò l’accampamento della prima divisione guardando dritto davanti a se. Aveva imparato a non indugiare più sui volti tesi e sfatti degli uomini, stravolti dalla stanchezza e dalla graduale diluizione delle motivazioni che li avevano sostenuti nel combattere una guerra che non sentivano più loro. L’apporto del comando, in quei casi, era determinante e, il generale Wellesley, si era sempre dimostrato ben oltre le aspettative nel gestire il morale delle sue truppe. Ma oramai, il suo massimo, sembrava non essere più abbastanza.

    Raggiunto finalmente il suo frisone, Zachary lo spronò a percorrere quel sentiero indefinito e polveroso che l’avrebbe condotto sino alla seconda divisione. Si disse che voleva correre per riportare celermente gli ordini appena ricevuti ma, soprattutto, a incalzarlo nell'incitare il cavallo, era il desiderio di allontanarsi dall’accampamento. Voleva ritrovare, seppure per pochi minuti appena, la sensazione di libertà e bellezza, creata da quell'illusione di normalità prodotta dall’assenza del conflitto. E, cavalcare in prossimità di terre ancora non intaccate dalla devastazione, così apparentemente immuni da quella rovina che pareva accompagnare ogni sua azione, gli donava una sensazione di casa e di consuetudine che non avrebbe mai pensato di dover rimpiangere.

    Capitolo 2

    Inghilterra estate 1814

    Il piccolo giardino dietro casa, era il suo rifugio e il suo orgoglio.

    Era adibito in maggioranza a roseto ma, verso la staccionata a sud, per separarlo più nettamente dalla strada, Lavinia aveva piantato dei gelsomini, immaginandosi il profumo che avrebbero diffuso la prossima estate. Il suo timore era che non resistessero al rigore dell’inverno inglese ma, adesso, non voleva ancora preoccuparsene.

    Aveva sempre considerato Harefield come un buon luogo dove vivere e lo preferiva, istintivamente, a Londra, pur non avendola mai visitata. A essere precisi, la casa di sua madre era un po’ fuori dal paese, trovandosi nell’area boschiva di Pynesfieldlake, un luogo verde in un mondo verde.

    Adorava quelle terre, che possedevano tutto quello che potesse desiderare una ragazza nata in campagna e cresciuta ai suoi ritmi, morbidi e costanti. Aveva a disposizioni un giardino e un bell'orto, prati su cui passeggiare e boschi nei quali cercare rifugio e pace, in certi giorni particolari, in cui preferiva stare più in confidenza con sé stessa. A ovest della sua casa, si estendeva persino un lago, concedendole vedute da fiaba oltre a rare occasioni di bagnarsi nelle sue acque, fredde tutto l'anno.

    I suoi diciannove anni di vita erano trascorsi nel dolce conforto di una discreta felicità. Lavinia ne era del tutto consapevole.

    L’unico grande dolore era stata la morte di suo padre, quasi sette anni prima, ma allora era molto giovane. Aveva ovviamente sofferto standogli accanto durante il decorso della malattia e, in quell’occasione, era stata costretta, suo malgrado, ad affrontare, per la prima volta, il concetto di decadenza e di fine.

    Ma, Arthur Hall, era sempre stato un uomo di poche parole. Devoto alla moglie e interessato a Lavinia, possedeva però un limite nel suo stesso carattere, che gli aveva sempre impedito grandi moti di espansività e affetto. Così, quando l'aveva lasciata, nella vita della giovane non erano subentrati cambiamenti significativi, le era mancata soprattutto la sicurezza che la presenza del padre aveva sempre rappresentato. Aveva pianto, naturalmente, ma il dolore era stato presto stemperato dall’affetto che, al contrario, sua madre era sempre stata tanto generosa nell’esternare e che, in quei giorni, aveva saputo manifestarle con una sensibilità commovente.

    Stava estirpando delle erbacce, seduta sui talloni, alla base di un cespuglio di rose quando, Valéry, la tuttofare di casa, che era diventata negli anni una sorta di seconda madre per lei, uscì di corsa dalla porta sul retro e le andò incontro sconvolta.

    «Lavinia! Lavinia, presto, torna dentro! La signora non si sente bene.»

    Lei, prima ancora che la donna avesse terminato la frase, immaginando dal tono che fosse accaduto qualcosa di grave, aveva abbandonato ai piedi delle rose le forbici per la potatura e il cestino e aveva iniziato a correre.

    Mamma, mamma! Gridava dentro di sé senza fermarsi, sino a quando non ebbe spalancato la porta della sua camera e non l’aveva trovata distesa sul letto, col volto tanto pallido da confondersi con la federa immacolata. Stava gemendo a occhi chiusi.

    Le fu subito accanto, accarezzandole il volto per costatare che fosse cosciente e, allo stesso tempo, per accertarsi che non avesse la febbre.

    La donna, allora, spalancò gli occhi ma, a Lavinia, apparve confusa e con lo sguardo assente. Non riconobbe sua figlia, ma cercò di parlare per chiedere qualcosa e le uscirono dalle labbra solo una serie di versi incomprensibili.

    «Mamma, come vi sentite?» Chiese ugualmente la giovane, adesso davvero terrorizzata di fronte allo stato della madre e alla propria impotenza.

    «Mmh» Bofonchiò la donna, senza dare segno di aver compreso neppure la domanda.

    Lavinia allora, si sforzò di sbottonarle il corpetto del vestito per farla respirare più agevolmente. Per fortuna proprio in quel momento, Valéry la raggiunse, ansimando per lo sforzo di aver salito le scale quasi di corsa e le fu accanto.

    La spogliarono e la misero sotto le lenzuola, anche se, certamente, non faceva freddo in quel Luglio soleggiato e poco ventoso.

    «Cos'è successo?» Ebbe solo allora la forza di chiedere.

    «Eravamo in cucina,» Iniziò a spiegare la domestica, «io sbucciavo le patate e tua madre puliva i fagiolini che ci ha portato la signora Habbed. Chiacchieravamo sul matrimonio un po’ affrettato della figlia di quest’ultima quando però, a una mia domanda tua madre non ha risposto. Così ho alzato gli occhi dal coltello e l’ho vista sbiancare. Poi ha cominciato a farfugliare e ha lasciato cadere per terra la ciotola con la verdura. Si lamentava e si teneva un braccio.

    Ha provato subito ad alzarsi ma non si reggeva sulle gambe.

    Al secondo tentativo si è diretta traballante verso le scale. Io l’ho raggiunta e abbiamo appena fatto in tempo ad arrivare al letto che si è accasciata sul materasso come senza vita.

    Ho preso uno spavento tremendo!

    Ho provato a darle qualche schiaffetto, ma non ha neppure aperto gli occhi. Allora sono andata in camera mia e ho preso i sali. Ho provato anche con quelli ma solo adesso, con te, ha socchiuso le palpebre.

    Dio mio, Lavinia, non mi sembra in buone condizioni.

    La vecchia Lotti aveva avuto un attacco simile, anni fa, e adesso è paralizzata in un letto. Non muove più nemmeno le braccia!»

    Lavinia l’avrebbe cacciata fuori dalla stanza se non le avesse voluto così bene.

    Lei era terrorizzata già per suo conto e non capiva come, quella donna, potesse dimostrare tanta poca sensibilità da assalirla, prospettandole eventualità tanto nefaste.

    «Tu rimani con lei, magari rinfrescale la fronte con un panno umido, anche se non mi pare abbia la febbre.» La interruppe allora. «Io andrò a Harefield a chiamare il dottore.»

    Era già sulla porta quando si voltò di nuovo. «Mi raccomando, se anche lo volesse, impediscile di alzarsi e falla restare sdraiata sino al nostro ritorno.»

    Valéry, ancora col volto congestionato, si affrettò ad annuire.

    Lavinia contò mentalmente il tempo che avrebbe impiegato per svolgere quell’incarico. Almeno un quarto d’ora per andare, poi avrebbe dovuto avere la fortuna di trovare il medico allo studio, altrimenti avrebbe dovuto attenderlo sino al suo ritorno. All’ansia che già la possedeva, se ne aggiunse di nuova.

    Il viaggio fu breve come aveva previsto, ma batté istintivamente il piede sul pavimento stizzita quando, la moglie del dottore, la informò che il marito si era allontanato in calesse oltre due ore prima, per assistere una partoriente prematura.

    Si lasciò cadere su una sedia della piccola sala d’aspetto, intanto che la signora, accortasi dello stato d’agitazione della ragazza, le restava vicino per assisterla come poteva.

    Lavinia le accennò allo stato della madre e restò con le mani tra quelle dell’attempata signora per qualche momento, col capo abbassato a fissarsi le punta degli stivaletti.

    Poi fu lasciata sola.

    Capitolo 3

    Spagna, luglio del 1809

    Zachary salutò distrattamente le sentinelle a guardia dell’accampamento della seconda divisione, ma non accennò a fermarsi sino a quando strattonò bruscamente le redini di fronte all’alloggio del generale Hall.

    Gli riferì i succinti ordini ricevuti da Wellesley e, senza aggiungere nulla, si affrettò ad allontanarsi per raggiungere i suoi uomini, accampati qualche chilometro più a nord. Non amava la compagnia del generale ed era certo che la poca stima fosse ricambiata. Per fortuna le occasioni di relazionarsi con lui non erano mai state numerose e Zachary cercava di non crearne di nuove.

    Raggiunta la sua compagnia, non scese neppure da cavallo intanto che dava l'ordine di prepararsi. Smontò solamente quando venne raggiunto dal suo secondo, il capitano Jorge Carter, scuro in volto in attesa di essere ragguagliato sulle novità.

    «Ho appena parlato col generale Wellesley.» Esordì Zachary, conciso. Conosceva molto bene l’uomo che aveva davanti e sapeva che non occorrevano molti giri di parole per farsi capire. Entrambi avevano perso il conto di quante volte si erano salvati la vita reciprocamente e la fiducia tra loro era accresciuta di pari passo con i pericoli superati.

    «Ebbene? Dovremmo stare ad aspettare che gli spagnoli si prendano tutto il merito di scacciare i francesi?» Si sforzò di scherzare, l’altro.

    «Il generale doveva essere al corrente della tua perenne voglia di combattere a ci ha ordinato di coadiuvare le truppe di Hall, precedendoli sulle alture per cercare di tagliare il fianco ai francesi.

    Mi raccomando, ricorda agli uomini che non voglio inutili eroismi, ma pretendo che si comportino come seri professionisti. Canning ci ha ficcato in quest’inferno caliente..

    «perché vincessimo la guerra non perché perdessimo tempo a scrivere alle vedove.» Termino Jorge per lui. Cercò di mantenere un atteggiamento marziale, ma non riuscì a trattenersi dall’esternare un risolino che andò a contrastare con la durezza dei suoi tratti. Quelle raccomandazioni erano una sorta di rito tra di loro e lui le aveva ascoltate già sin troppe volte.

    «Questo vale, naturalmente, anche per te, amico mio. Voglio solo rammentartelo.» Precisò Carter.

    Allora anche il maggiore piegò le labbra in uno sfuggente sorriso che durò solo un battito di ciglia.

    Dovette trascorre oltre un’ora in attesa che le truppe si armassero e radunassero mentre, il pomeriggio, stava progredendo inesorabile. Tra alcune ore avrebbe iniziato a essere più buio, anche se l’estate, in quelle zone, concedeva delle giornate interminabili.

    Infine, una sentinella lo raggiunse, avvertendolo che il resto della divisione stava mettendosi in marcia verso Cerro Medellín, dove gli uomini in avanscoperta avevano confermato la presenza dei primi plotoni francesi.

    Zachary fece un cenno a Carter che, immediatamente, diede ordine a due sergenti di iniziare ad avanzare. Poi, entrambi gli ufficiali, si portarono davanti alla compagnia a cavallo e procedettero al trotto, affiancati.

    Non si aspettavano di incontrare nemici durante le prime miglia, ma restarono all'erta.

    Un paio d’ore più tardi, Zachary sollevò e strinse il pugno segnalando ai suoi uomini di fermarsi. Davanti a loro, ai piedi di una breve vallata, i primi plotoni francesi stavano già procedendo per raggiungere le alture.

    «Maledizione Zachary, sono stati maledettamente veloci!» Esclamò il capitano, intanto che retrocedeva per nascondersi alla vista del nemico. «Saranno almeno cinquanta soldati a cavallo, seguiti da altrettanti fanti. Il maresciallo è dannatamente in gamba, doveva aver sospettato la nostra tattica e ci ha preceduti. Che cosa facciamo adesso, aspettiamo il resto delle truppe o vediamo di tenerli impegnati?» Il capitano lo fissava, aspettando solo un suo comando.

    Zachary non rispose, intanto che la cavalcatura scalpitava sotto di lui, desiderando proseguire, ancora eccitata dalla corsa e poco propensa a prolungare la sosta.

    «Tu raggiungi quella costa montuosa con metà degli uomini.» Decise allora, indicando un’altura poco distante. «Io resterò qui in attesa di un tuo segnale, poi li attaccheremo assieme. Vediamo di facilitare un po’ il lavoro del vecchio Hall.»

    E si voltò per dare ordini al suo sergente intanto che, Jorge, faceva lo stesso col suo.

    Dopo poco, Zachary vide scomparire parte della sua compagnia dietro la collina e si augurò, come sempre in quei frangenti, di aver preso la decisione più giusta. Odiava dover fare delle scelte dalle quali poteva dipendere il destino di così tanti uomini. Non gli era di consolazione la consapevolezza che, comunque, lui avrebbe rischiato e lottato come tutti gli altri.

    Passarono i minuti. Dal suo punto di osservazione sopraelevato, vedeva le truppe francesi compattarsi e aumentare di numero, intanto che procedevano lentamente sul fianco della collina.

    Fai in fretta Jorge! Pensò preoccupato.

    Poi vide sventolare una bandiera sul lato opposto della cresta e, immediatamente, una nuvola di polvere si levò al cielo prodotta dagli zoccoli dei cavalli al galoppo.

    C’era chi gridava e chi, semplicemente, fissava il nemico con la spada sguainata come a focalizzare su di lui tutto il suo odio. Zachary, cercò invece di identificare subito gli ufficiali, per poterli affrontare per primi.

    Notò un tenente circondato dai suoi uomini, al margine del plotone e strattonò il cavallo per farlo dirigere in quella direzione, intanto che notava Jorge, affrontare i francesi dal lato opposto. Non se l’aspettavano, si disse con soddisfazione. Pensavano di avere ancora tempo per raggiungere la sommità dell’altura e assumere una posizione di vantaggio, ma siamo stati più rapidi e determinati.

    Il tenente, intanto, si era accorto delle sue intenzioni e aveva estratto la pistola. Fu proprio allora che il sole fece capolino dalle nuvole grigie che, per tutta la giornata, avevano attraversato pigre, il cielo spagnolo. Zachary abbassò istintivamente gli occhi infastidito. Fu solo un attimo, ma bastò a distrarlo dall’ufficiale francese che, nel frattempo, aveva preso la mira.

    Quando tornò ad alzare lo sguardo su di lui non fece in tempo a intercettarlo che un’esplosione di dolore e di luci gli esplose in volto, disarcionandolo e facendolo precipitare al suolo, quasi privo di conoscenza. Così si accorse appena del suo possente frisone che, spaventato da quel movimento repentino, dopo essersi sollevato sulle zampe posteriori, scivolava a sua volta sull’erba e, con gli occhi dilatati dalla paura, precipitava sul suo fianco destro.

    Capitolo 4

    Inghilterra estate 1814

    Il dottore uscì dalla camera di sua madre scuotendo mestamente la testa, senza neppure guardare negli occhi Lavinia, che si tormentava le mani davanti alla porta.

    «Raggiungila pure, cara.» Disse semplicemente.

    E lei entrò nella camera, col cuore pesante, grata alla penombra della stanza che avrebbe impedito a sua madre di scorgere la preoccupazione presente nei suoi occhi.

    «Lavinia.» Sentì chiamare e, subito, si accostò al letto, passando una mano sulla fronte della madre.

    «Lavinia.» Ripeté la donna, farfugliando appena, con un timbro di voce diverso dal solito, che lei stentò a riconoscere.

    «Sono qui mamma. Come vi sentite?» Chiese con tono esitante, senza riuscire a nascondere la preoccupazione.

    «Mi sento strana. Non riesco a muovere il braccio destro e neppure la gamba.»

    «State tranquilla adesso. Cercate di riposare e di riprendervi. Col tempo vedrete che riacquisterete tutte le vostre facoltà.» Cercò di consolarla non sapendo che altro dire.

    «Non so se avrò ancora abbastanza tempo, cara figlia mia. Non so se avrò abbastanza tempo.» Poi tacque di nuovo, come se pronunciare ogni parola le costasse un enorme sforzo di volontà. Sembrava avesse difficoltà a trovare le parole giuste. Le sue frasi erano lente e stentate. Persino la sua voce era diversa. Si era fatta più acuta e flebile e la giovane faceva fatica a riconoscerla.

    «Ci sono delle cose che devi sapere.» Lavinia stava per farle cenno di riposare ma, la determinazione che lesse nel volto della madre la trattenne. «Questa casa, che era del tuo povero padre, non è mai stata mia. E’ tuo cugino che l’ha ereditata ed è solo per una clausola nel testamento se abbiamo potuto viverci sino a oggi.» Poi tornò a prendere fiato.

    Lavinia la fissava senza capire, troppo amareggiata per quello che stava accadendo per concentrarsi realmente sulle parole dell’amata madre.

    «Lavinia cara, sono così dispiaciuta.» Le parole si ruppero in un singhiozzo.

    «Mamma…» Ma la donna la zittì, alzando una mano aperta.

    «Purtroppo il vincolo è limitato temporalmente alla mia stessa vita.

    Quando morrò, bambina mia, non avrai più un posto dove stare. Questa casa e tutto quello che contiene, saranno di tuo cugino che l’ha già promessa alla figlia per il suo matrimonio. Se mai ci sarà.»

    Lavinia finalmente iniziò a capire la gravità e la portata di quanto stava ascoltando.

    «Ho messo da parte un po’ di soldi, sono nel cassetto, in mezzo alle mie cose. Non ti basteranno per molto tempo ma, perlomeno, avrai di che vivere per qualche mese. Anche di più se farai economie. Mi dispiace tanto Lavinia cara. Avrei voluto dirtelo in tante occasioni, ma che differenza avrebbe fatto se non quella di preoccuparti anzitempo?» Aveva gli occhi chiusi, adesso. Come se non volesse che sua figlia vi scorgesse il dolore, la paura e la vergogna.

    Poi il suo respiro si calmò poco alla volta e parve essersi addormentata.

    Lavinia le prese una mano tra le sue e la tenne stretta, costatando quanto fosse gelata.

    Poi uscì in silenzio, per non disturbarla oltre.

    «Ha detto che non riesce e muovere la parte destra, dottore. È molto grave?» Chiese, una volta raggiunta la cucina.

    «Lavinia, ti conosco da quando sei venuta al mondo, quindi sarò franco, ho visto già casi come quello di tua madre e non sono da sottovalutare. La testa sembra essersi ripresa piuttosto bene, ma ho paura che il cuore sia stato compromesso dall’ischemia. Tieniti forte cara, ma non so se riuscirà neppure a passare la notte. » Affermò scuotendo il capo.

    Lavinia, stranamente, di fronte all'enormità di quella notizia, fu pervasa da una strana calma, come se pretendesse tutte le sue forze per essere assimilata e non farle perdere i sensi.

    La sua mamma stava per andarsene. Si ripeté una volta che il medico fu uscito. Ma, anche così, le riusciva difficile farsene una ragione, semplicemente ammettere che fosse possibile.

    La sua vita non sarebbe mai più stata quella di prima senza di lei. Senza quella parte della sua famiglia che l'aveva sempre sostenuta e compresa e che era stata prodiga nel dimostrarle il suo affetto. Un amore incondizionato che lei non aveva mai dovuto fare nulla per meritare.

    Dio mio, pensò, mamma potrebbe andarsene ed io avrei ancora tante cosa da dirle. Si disperò.

    A quella dolorosa consapevolezza, si sommarono le parole di sua madre, il pensiero di perdere anche la sicurezza rappresentata da quella casa. La sua casa. Ma non volle indugiarvi, non adesso, non con la persona che amava in quelle condizioni. Avrebbe ragionato e affrontato la questione solo in seguito. Sperando che, magari, il medico si fosse sbagliato e che i problemi non si sarebbero mai presentati.

    «Cara, cosa ha detto il dottore?» Le domandò Valéry, andandole vicino.

    «Niente di buono. Teme addirittura per la sua vita. Non so proprio cosa dire. Mi manca il coraggio per azzardare qualsiasi supposizione in questo momento.» Avere accanto quella donna che, negli anni era diventata a tutti gli effetti parte della famiglia, le faceva bene.

    «La mamma ti aveva mai detto nulla della casa? Del vincolo testamentario di mio padre?» Chiese allora, sperando forse, di essere smentita.

    «Hai saputo, allora.» Sospirò la donna, scuotendo il capo. «Purtroppo tuo padre non è riuscito a lasciarti nulla. Questa casa sarebbe già nelle mani di tuo cugino Harnold, se non fosse stato per quella benedetta clausola. Forse contava che, nel frattempo, ti saresti sposata e avresti avuto modo di andare ad abitare altrove. Aveva pensato solo a tua madre.»

    «E tu?»

    «Oh piccola mia, non ti devi preoccupare per me. Io ero preparata a questo già da tempo. Ho una fratello che vive a nord. E' vedovo. Ha una piccola casa, ma ci abita da solo e sono anni che mi esorta ad andare a stare con lui. Ma non pensare ancora al peggio. Confortati sinché puoi nella speranza.» La spronò, accarezzandole la testa che teneva china, oppressa da una tristezza incolmabile.

    Capitolo 5

    Spagna, luglio del 1809

    Il capitano Jorge Carter, eseguiva sempre al meglio gli ordini ricevuti. Era bravo in quello ed era conscio della fortuna di essere sotto il comando di un uomo giusto e responsabile come il maggiore Foster.

    Adesso stava dirigendo parte della compagnia sul fianco della collina, come gli era stato comandato, pronto a dare manforte al resto degli uomini che avrebbero condiviso l’assalto alle truppe di Napoleone, dal versante opposto. Insieme alla rinnovata cautela e all'attenzione, sentiva farsi strada in lui il familiare senso di eccitazione e di paura che aveva imparato a riconoscere dalle tante occasioni in cui aveva messo a repentaglio la propria vita. Sensazioni purtroppo troppo frequenti perché riuscissero ancora a compromettere le sue iniziative.

    Intanto che procedeva, aveva seguito gli spostamenti del maggiore Zachary Foster, sul fianco dell’altura, pronto a recepire un suo eventuale cenno o un’indicazione su qualche repentino cambiamento di strategia nell’assalto. Ma non aveva notato nulla. Era il suo secondo da oltre un anno, da quando erano sbarcati dall’Inghilterra, insieme. Con in comune lo stesso entusiasmo e le stesse incertezze. Potrebbe sembrare un lasso di tempo troppo breve per permettere di instaurare rapporti consapevoli. Vivere ogni giorno a stretto contatto e, spesso, a rischio della vita, aveva però consentito loro, una conoscenza amplificata dalla reciproca condivisione delle emozioni più spontanee e viscerali. Si erano trovati immediatamente a proprio agio ed era sorta tra loro, una certa forma di cameratismo, basata sul rispetto, la stima e la fiducia reciproci.

    Parte di quella sintonia, presumeva fosse dovuta alle difficoltà che entrambi avevano avuto nell’adattarsi alla nuova vita che li aveva strappati dagli agi derivati dalla loro condizioni di secondogeniti, per vederli piombare nel caldo suolo iberico, con i soli esigui privilegi derivati dal grado. Accolti da una terra resa cocente dal clima ma, come appresero presto, soprattutto dalla foga dei conflitti.

    In diverse occasioni, si erano dati manforte e sostegno, pur consci dei loro gradi che li collocavano in posizioni differenti nella catena gerarchica. Entrambi, potevano vantare di aver salvato, in più di un caso, la vita dell’altro ma, soprattutto, erano consapevoli che la loro amicizia aveva reso quel periodo più sopportabile.

    Zachary aveva sempre dovuto fare i conti col suo carattere, che lo costringeva a venire continuamente a patti col comando.

    Per Jorge, invece, era stato più facile adattarsi agli ordini. Suo padre aveva sempre preteso disciplina e obbedienza dai suoi figli e lui aveva ben presto compreso di non essere nella condizione di opporsi a quella fermezza. Ma sapeva anche di essere stato fortunato. Era sul primogenito, infatti, che ricadevano, le maggiori aspettative del padre e, con esse, anche il suo controllo. Più giovane di lui c’era Mathilda, la sua sorellina di appena quattordici anni, alla quale era consapevole di essere affezionato forse in maniera eccessiva. Non riusciva a limitare l’affetto e il bisogno di controllo e protezione nei suoi confronti, attenzioni che la giovane sembrava tollerare sempre meno. Era su di lei che si focalizzavano i sentimenti di nostalgia e di rimpianto che non facevano che aumentare col passare dei mesi. Era Mathilda, l’unica persona alla quale cercava di scrivere con una certa regolarità, per aggrapparsi a quel senso di normalità che

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