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Fernik
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Ebook449 pages6 hours

Fernik

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About this ebook

Nella fittizia cittadina di Asèria, durante una ricerca scolastica, Giulia e Riccardo si avventurano all’interno di un Magazzino infestato, dove vengono colpiti da una maledizione: tutte le persone che li avevano conosciuti dimenticano la loro esistenza, e si ritrovano così catapultati in un mondo senza di loro. Mentre si mettono in viaggio per restituire la memoria ai loro amici e familiari, potranno toccare con mano come sarebbe stata la vita delle persone a loro vicine se non fossero mai nati. Dovranno mettere in discussione, e in costruzione, sia la loro identità che quella di tutti i protagonisti coinvolti: perché quanto di noi lasciamo a ognuna delle persone che incontriamo, e quanto di loro influenza il nostro essere?

LanguageItaliano
PublisherAlexis Saints
Release dateDec 14, 2017
ISBN9781370101054
Fernik
Author

Alexis Saints

Alexis Saints (25 Agosto 1995) nasce a Taranto, in Italia. Inizia a scrivere già da una giovane età, prendendo parte con successo a diversi concorsi e laboratori di scrittura. Nel 2019, si laurea alla facoltà di Lingue, Civiltà e Scienze del Linguaggio presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, e inizia un'attività parallela come traduttrice e interprete. Il suo primo romanzo pubblicato, "Fernik" è il primo di una trilogia fantasy ambientata in Italia, "Storie d'Asèria".

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    Fernik - Alexis Saints

    Prologo

    C’era stato un tempo, precedente a ogni era conosciuta dall’uomo, in cui la magia non abitava questa Terra. Le scintille di potere che muovevano le creature ultraterrene erano sufficienti a creare spaccature nel nostro mondo, che si aprivano su più e più universi, paralleli quanto chiusi in se stessi, in cui esse si muovevano con libertà e senza regole.

    Non vi era lotta — non vi era conoscenza gli uni con gli altri, e ogni essere interagiva solo con i suoi simili, senza che ci fosse causa di scontri o discordie. Ognuno di loro, relegato nello spazio che la Natura gli aveva donato, viveva in pace e prosperità.

    Tutto questo finì tanto all’improvviso quanto inaspettatamente. Venne la Diaspora, e la magia iniziò a esaurirsi, le crepe tra gli universi a chiudersi. Chi non riuscì a scapparne, perì; i superstiti si trovarono rigettati in una Terra priva di magia che non era pronta ad accoglierli, dove non c’era spazio per tutti, dove ogni angolo celava un pericolo.

    Quando vi è caos e paura, vi è guerra. Le razze magiche iniziarono a scontrarsi: chi fu forte abbastanza da adattarsi, vinse; chi non riuscì, ne rimase schiacciato. Una gerarchia fragile e sanguinosa iniziò a instaurarsi tra creature di diverso genere, costantemente in allerta, spaventati uno dall’altro e tutti dall’uomo, quell’essere diverso che non poteva comprenderli.

    Tutto quello che rimase dei vecchi mondi erano gli oggetti che vi erano stati trafugati in tempo, quegli oggetti che recavano in loro il potere e il ricordo degli universi perduti: appetibili alle creature più deboli, custoditi con gelosia dalle più potenti, furono cause di scontri e battaglie.

    Vennero nascosti, sepolti, rinchiusi, sotto stretta sorveglianza — ogni tentativo di furto veniva pagato con la vita, e mentre, lentamente, le creature imparavano ad abitare in mezzo agli uomini, secolo dopo secolo si arrivò a uno stato di cose che iniziò a venir considerato come naturale, bilanciato, e corretto.

    Persino le guerriere più tenaci, dopo anni di lotta, fecero marcia indietro per leccarsi le ferite: chi voleva di più, rinunciò alla conquista, e chi già aveva costruì fortezze e stratagemmi perché nulla andasse perduto. La stanchezza per quella lotta continua fu il fattore vincente della pace che venne stretta di tacito accordo, mentre le creature magiche imparavano a vivere nascoste, nell’ombra, ritirate, la stessa vita di cui prima potevano godere alla luce del sole.

    Ma la diga dello scontento, prima o poi, finisce per cedere. Le pressioni aumentavano di giorno in giorno, e al tempo in cui questa storia viene narrata, i popoli scalpitavano per riprendersi lo spazio che credevano fosse stato sottratto loro.

    Prima parte

    I. La Ricerca

    Cap. I

    La Ricerca

    Infuriata! La strada di ritorno da scuola a casa Giulia la percorse a passo svelto, le mani infilate nelle tasche e lo sguardo puntato sui sassi del marciapiede che calciava davanti a sé, le labbra strette e il respiro rapido, i ricci scuri che parevano balzare al ritmo del suo passo.

    Non c’era nessuno nei paraggi, e questo era un bene, considerato si trovasse in quello stato d’animo molto delicato in cui il nervosismo poteva sfociare in una bella sfuriata al primo stimolo: questo, almeno, prima che una voce sottile quanto familiare la richiamasse da dietro con uno sbuffo impaziente.

    «Aspetta, tu!»

    Giulia si sfilò le cuffie dalle orecchie, che per altro stavano là in bella vista con il solo intento di darle un’aria impegnata, visto che non si era curata di tirare fuori l’i-pod per accenderlo, tanta fretta aveva avuto di tornare a casa. Voltò la testa, e quasi immediatamente notò il passo corto di Virginia che pareva zampettare nel tentativo di raggiungerla, l’espressione più contrariata del mondo sui lineamenti fini. Le labbra di Giulia si distesero quasi immediatamente in un sorriso morbido, e concesse all’amica di rallentare il proprio passo, per darle tempo di avvicinarsi.

    «Sapevo che saresti scappata via a brontolare appena suonata la campanella» esordì immediatamente Virginia, appena le parve di trovarsi a una distanza ragionevole per farsi sentire senza gridare. Aveva una voce fragilissima, che pareva sempre sul punto di spezzarsi e molto spesso diventava rauca per il mal di gola: lei lo trovava fastidioso, gli altri interessante. «Che modi!»

    Giulia si limitò ad alzare le spalle, e non disse nulla: non era lei la più loquace delle due, e quando era nervosa parlava ancora meno. Virginia lo sapeva, e decise di parlare per tutte e due, attaccandosi al braccio di lei come per assicurarsi che non scappasse via. La pelle bianchissima delle sue dita sembrava quasi traslucida, a confronto con quella bronzea di Giulia, e la cosa la fece sorridere.

    «Non è così male, in realtà» continuò, e quella frase bastò per far roteare pericolosamente gli occhi a Giulia, che aprì la bocca per sbuffare — solo per venire interrotta dalla risata di Virginia, che si corresse in fretta.

    «Non parlavo di lui!» Arricciò le labbra, allungando appena il passo per tenere il ritmo con quello svelto delle gambe lunghe di lei. «Intendevo il lavoro, sai. La Pianura è interessante, meglio di quella noia di chiesa che devo studiare io. E poi abbiamo un mese. Con un pomeriggio a settimana te la cavi. Posso fermarmi a pranzo?»

    Giulia si passò le dita tra i ricci scuri scostandoseli dalla fronte, prima di sciogliere le labbra strette in un broncio per risponderle. «Non mi darebbe fastidio, se potessi lavorare da sola». Questo era scontato, naturalmente, ma le persone arrabbiate hanno una buona tendenza a sottolineare l’ovvio e crogiolarcisi dentro. «Rovinerà tutto» aggiunse poi, scrollando di nuovo le spalle. «O non rovinerà niente, ma mi farà sudare sette camice facendomi credere che rovinerà tutto».

    «E il pranzo?» domandò Virginia, arricciando le labbra in un sorriso furbo. Non c’era bisogno che chiedesse, in realtà, perché erano ormai anni che la casa di Giulia era la sua seconda casa, ma era una di quelle situazioni in cui cambiare argomento poteva essere un piacevole diversivo.

    «Il... oh, puoi rimanere, certo che puoi rimanere». L’altra era davvero troppo furba, o troppo nervosa, per cascarci, così si limitò a scostarsi un’altra ciocca ribelle dal viso e ripartire alla carica. «Quello che voglio dire, è che in ogni caso sarà un disastro, per me o per la mia carriera scolastica».

    «Oh, rilassati!» Virginia rise appena, mettendo le mani sulle spalle di Giulia per indirizzarla verso il vialetto della casa di lei, che l’amica, nella foga, stava mancando per un soffio. «Senti, parliamo di te, okay? Questa sarà solo... tipo, l’occasione giusta per mettergli la testa a posto una volta per tutte. Buongiorno, signora Achaari!»

    La madre di Giulia fece capolino con la testa dalla cucina, una cascata di capelli di un nero sbiadito raccolti disordinatamente in una crocchia, e sorrise. «Ciao, Virginia! Ti fermi da noi? Giulia, potresti dare un occhio ad Andrea, finché preparo il pranzo? Grazie!»

    Neanche il tempo di un secondo saluto, ed era sparita richiudendosi la porta alle spalle: l’atmosfera di casa, però, parve rilassare Giulia, che si lasciò sfuggire un sorriso e prese per mano Virginia per condurla al piano di sopra, dove stava la camera sua e di Andrea. Fece all’amica segno di fare silenzio, mentre socchiudeva la porta di legno di qualche centimetro, il giusto necessario per sbirciare dentro e richiudere, con un mezzo sospiro.

    «Sta giocando, grazie al cielo» sbuffò, ma il tono aveva preso una sfumatura di tenerezza. «Il che, ovviamente, vorrà dire che dovrò passare il pomeriggio a riattaccare la testa alle sue bambole. Oh, beh!»

    Virginia rispose con una risata leggerissima, che, come del resto tutto di lei, parve dissolversi nell’aria appena vi entrò a contatto: poi afferrò con le dita il polso di Giulia, tirandola appena nella sua direzione. «Allora ora ne approfittiamo, e ci infiliamo in camera tua. Mi intrecci i capelli e in cambio ti lascerò borbottare a ruota libera su Riccardo, anche se è l’argomento di conversazione più noioso che potremmo mai scegliere» sottolineò, con un sorrisetto.

    Giulia roteò gli occhi, ma accettò — poteva forse rifiutare? — e dopo pochi minuti erano entrambe scalze e raggomitolate sul letto di lei, il luogo ideale per qualsiasi tipo di conversazione, essendo spazioso, morbido e provvisto di più cuscini del necessario, ammesso che tale cosa potesse essere possibile.

    «E lo so, sono stata venti volte più fortunata di te... Non tirare! Quindi, in cambio, prometto solennemente di non lamentarmi neanche una volta per le cose che dovrò studiare per questa ricerca». Il tono di Virginia aveva preso un nuovo accento di allegria, mentre giocherellava con una matita che aveva trovato tra le lenzuola; e che aveva tutti i diritti di trovarsi là, visto che quel famoso letto era tanto comodo da venire usato periodicamente anche come scrivania.

    «Come se ne fossi capace!» Aveva riso, Giulia, il che era decisamente un bel progresso visto l’umore con cui era arrivata a casa, e aveva continuato con dita più che abili a intrecciare i capelli chiarissimi dell’amica con movimenti fluidi. «Giuro che non te ne farò una colpa. Come mai ti sto rifacendo l’acconciatura? Ti fai bella per stasera?»

    Virginia drizzò le spalle minute, un sorriso sul viso, che vi era comparso non appena aveva sentito l’altra ridere. «Mi faccio bella esclusivamente per me stessa, perché casa mia è piena di specchi e sarà una gioia vedermi con tutte le treccine magistralmente sistemate» annunciò, prendendone una già pronta tra due dita, neanche dovesse saggiarne la consistenza. «E soprattutto, perché sono un’amica eccezionale e lavorare di mani ti distrae dai cattivi pensieri».

    «Questo non è vero!» Giulia sbuffò, tirandole leggermente una ciocca di capelli. «Sono ancora... arrabbiatissima, cosa credi».

    Virginia alzò un indice per aria, continuando a sorridere. «Come dico sempre, ci sono due cose per cui non vale la pena sprecare la rabbia, e sono i ragazzi e l’eccessivo spazio vuoto nei coni gelato».

    «Ma se sei la prima a lamentartene!»

    Virginia scoppiò a ridere. «Ehi, già ti do consigli meravigliosi, se li seguissi sfiorerei la perfezione. Però ti ho fatto sorridere, dovresti darmi un premio».

    «Ho in mano il tuo premio, lo avrai quando tra quaranta ore avrò finito».

    «Chiamo un time-out, sento odore di pranzo!»

    In realtà, non aveva sentito tanto l’odore del pranzo, quanto la voce della madre di Giulia che le chiamava: in ogni caso, Virginia saltò fuori dal letto, con una treccia mezza sfatta che scivolò via dalle dita di Giulia; la quale una volta superata la sorpresa sbuffò ancora più forte, lanciandosi a inseguirla scalza giù per le scale fino alla cucina, dove effettivamente la madre di Giulia stava apparecchiando. Andrea era già al suo posto e dondolava le gambette corte, che non arrivavano ancora neanche lontanamente al pavimento.

    Il pranzo venne consumato e smaltito piuttosto in fretta, senza che Giulia avesse la minima idea che, solo quattro strade più in là, lo stesso Riccardo di cui avevano così animatamente discusso in camera si stesse gustando un meraviglioso pranzo riscaldato al microonde, senza che gli avvenimenti della mattina gli avessero in alcun modo turbato l’appetito.

    C’era da dire, a discolpa di Riccardo, che lui era completamente all’oscuro della sfuriata magistrale con la quale Giulia era uscita di classe quella mattina. Aveva un talento naturale nel lasciarsi sfuggire le cose, specie quando aveva la mente occupata da altri pensieri, e al momento del suono della campanella stava discutendo con particolare interesse con un compagno i programmi per il fine settimana, motivo per cui le occhiatacce di lei e la porta sbattuta alle sue spalle erano andate completamente a vuoto. A rigor del vero, c’era da dire che se anche ne fosse stato al corrente, non sarebbe cambiato poi molto: quello che per Giulia era assoluta tragedia, a lui pareva un puro accidente, che non avrebbe avuto alcun diritto di intaccare il sapore dei suoi deliziosi spaghetti al brodo.

    Per completare il quadro, poi, si può dire un’ultima cosa: era una fortuna che il ragazzo avesse la naturale propensione a smaltire ogni problema come di poca importanza, perché se così non fosse stato, non avrebbe trovato nessuno disponibile con cui lamentarsene. Se il chiacchiericcio, il rumore di padelle, le risate o le sfuriate erano parte integrante della casa di Giulia, quella di Riccardo era tanto silenziosa che pareva i muri fossero fatti di carta assorbente, in grado di inghiottire qualsiasi suono fosse prodotto al loro interno. Lui, sì, ne era abituato; e se si può dire così, era diventato tutt’uno con la casa. Un osservatore esterno avrebbe potuto notare con stupore la maniera in cui il ragazzo, che dal di fuori pareva sempre incredibilmente chiassoso, allegro, e con la risata in bocca, si zittisse improvvisamente varcata la soglia di casa propria, con una sorta di deferenza simile a quella di un fedele che entra in chiesa.

    Non amava pensarci, però — affatto. Specie negli ultimi tempi, aveva preso l’abitudine di alzare il volume della televisione al massimo, in particolar modo quando mangiava; ma per qualche strano motivo, gli sembrava tutto esageratamente silenzioso comunque. Ora si trovava esattamente in uno di quei momenti, e per ripicca pareva star arrotolando, masticando e ingoiando gli spaghetti nella maniera più rumorosa possibile. Era una sfida alla casa, ma la casa vinceva sempre.

    Solo per quel pomeriggio, Riccardo decise che né la sconfitta né la tregua gli andavano bene: per nessun motivo in particolare, il silenzio gli parve d’un tratto di troppo, così finì con un sorso il brodo, gettò via il cartone umido, prese uno zaino già pronto dal divano, e con le chiavi in tasca uscì di casa. Fu curioso come, nonostante fosse Maggio e il sole battesse più forte che mai, appena fuori a Riccardo parve di sentire una ventata d’aria fresca che lo fece sorridere.

    Essendo uscito rispondendo solo al bisogno di scrollarsi di dosso i propri quattro muri bianchi (che non erano esattamente quattro, a esser precisi, perché Riccardo abitava in una casa piuttosto grande, per quanto spoglia), non aveva una meta precisa; la cosa, com’è ovvio, non lo impensieriva affatto. C’erano davvero poche cose che lo impensierivano, e d’altronde Asèria era tanto piccola che ovunque fosse andato, sarebbe stato sicuro di ritrovarsi sempre vicino a casa.

    Per capire la fisionomia della sua passeggiata, bisognerebbe immaginarsi di guardare la città dall’alto: aveva la particolare forma di una chiocciola, come se al principio ci fosse stata una sola casa e tutte le altre si fossero divertite a spuntare come funghi tutt’attorno, a spirale, per poi allargarsi e sparire diventando più e più rare. In mezzo alla spirale c’era una dimora vecchissima, con un giardino che coincideva, più o meno esattamente, con il centro di Asèria. Era quasi impossibile andare da qualche parte senza passarci davanti almeno una volta, e tuttavia quasi tutti gli abitanti erano diventati maestri nell’arte di girare intorno alla vecchia casa, che era uno di quei posti che ispira tutto fuorché bei pensieri. Riccardo, e questo andava forse a suo merito, faceva parte della piccola cerchia di persone che credeva la comodità di una scorciatoia valesse la pena di qualche brivido su per la spina dorsale, e non si faceva di questi problemi.

    Capita, più spesso di quanto non si noti, che quando si esce senza destinazione si finisca per ritrovarsi da qualche parte e scoprire che era proprio là che si voleva andare, come se lo si fosse sempre saputo: e senza rendersene conto, era quello che stava accadendo a Riccardo, che si era fermato davanti al vecchio cancello della casa di cui abbiamo parlato e lo stava osservando con una distratta attenzione che era tipica del suo sguardo. Se si volesse trovare un motivo per cui il ritrovarsi là gli era parso improvvisamente giusto, si poteva sottolineare come fosse un po’ da quel giardino che era partito tutto, quella mattina.

    Il professor Tomaselli, infatti, faceva parte della ancora più ristretta parte di abitanti che invece di evitare o ignorare la vecchia dimora, la trovava estremamente affascinante, e non si era risparmiato di passarci davanti neppure quella mattina, allungando appena il tragitto che lo portava alla scuola. Osservando i muri decadenti, la facciata che presentava un miscuglio di stili tanto diversi che avrebbe fatto impazzire uno storico dell’arte e il giardino incolto, aveva avuto il buon gusto di pensare che era decisamente un peccato che nessuno se ne interessasse più. Quel pensiero gli era rimasto fisso in testa per tutti i restanti dieci minuti di camminata, e mentre prendeva dalle macchinette il primo, scadente caffè della mattina, gli era improvvisamente tornato in mente che dopotutto, era un professore — insomma! — e che in quanto professore era suo sacrosanto dovere essere il primo a stimolare l’interesse per la città nella quale i suoi studenti abitavano.

    Gli ci era voluto un secondo caffè, un’ora buca ben spesa e una mappa di Asèria perché quei pensieri si traducessero in qualcosa di concreto: e per l’inizio della sua lezione mattutina di storia, aveva spezzettato la città in undici parti e ne aveva assegnata una per ogni coppia di studenti, con il compito di farne una approfondita e curata ricerca da presentare alla classe a partire dal mese successivo.

    La consegna a sorpresa aveva fatto storcere parecchi nasi, ma in particolare quello di Giulia si era arricciato in una smorfia di protesta, quando aveva saputo che il suo compagno di ricerche sarebbe stato nient’altro che Riccardo — a farla breve, la persona con cui andava meno d’accordo al mondo. Aveva persino protestato, chiesto un cambio, sbuffato: tutto questo mentre il ragazzo si limitava a sorridere divertito da quella curiosa situazione che avrebbe sicuramente portato a sviluppi, se non interessanti, quanto meno divertenti.

    È importante, se non necessario, sottolineare che il forte rancore che Giulia provava nei confronti del ragazzo non fosse assolutamente ricambiato. Questo non deve voler dire che Riccardo, al contrario, trovasse la compagnia di lei piacevole: la differenza sostanziale tra i due era che il ragazzo non era fatto per emozioni così estreme. Odio e amore gli erano quasi del tutto sconosciuti: la sua maniera di approcciarsi alle cose era con un atteggiamento di vago piacere o mite scontentezza, esattamente l’opposto delle fiere emozioni di Giulia. Si sarebbe potuto dire di lei che le emozioni non le provava, ma se ne appropriava: quando era arrabbiata, era una forza della natura. Quando era felice, lo era con ogni cellula del suo corpo. Era davvero un piacere osservarla in quegli scoppi di umanità, che la rendevano incredibilmente facile da leggere, come un libro aperto: ma un libro che aveva spalancato da sé, perché tutti sapessero con precisione a cosa andavano incontro quando la incontravano. E così, quando il professor Tomaselli aveva assegnato le coppie, Giulia si era infervorata alla ricerca di una soluzione, e Riccardo aveva solo pensato: Che buffo.

    Lo aveva pensato di nuovo, quel pomeriggio, quando si era ritrovato davanti al cancello della vecchia villa, con le mani in tasca e un sorriso vago sulle labbra. Buffo davvero, perché la parte di Asèria che avrebbero dovuto studiare lui e Giulia era esattamente quella: la villa, il giardino, e la Pianura, la stessa che si era meritata l’appellativo di ‘interessante’ da Virginia qualche ora prima.

    Quando abbiamo detto che la città era fatta a spirale, per quanto sia indiscutibilmente vero, abbiamo tralasciato un dettaglio, dettaglio senza il quale il quadro non sarebbe completo: e si tratta esattamente della Pianura, una parte integrante di Asèria alla quale tutti gli abitanti erano più o meno affezionati. Anni, molti anni prima, quando la città non era altro che un paese e la vecchia dimora era stata solo di recente abbandonata, un terremoto di piccola scala era bastato a far crollare il muro del retro del giardino. Il fatto era rimasto ignorato da tutti, meno che dal giardino stesso: piano piano, seguendo i processi che solo la natura conosce, si era fatto strada fuori dalle mura che gli erano state designate. Come una creatura dotata di vita propria, un Minotauro che volesse fuggire dal labirinto nel quale era rinchiuso, dal centro di quella spirale nascente aveva divorato la propria via per tutta la città, coprendo con i propri cespugli una parte di Asèria allora ancora priva di case. E priva di case sarebbe rimasta, perché piano piano ne era risultato un vero spiazzo erboso, più lungo che largo, che dal muro si diramava per parecchi ettari fino a sfumare in cespugli secchi e sabbia, e sfociare, come un fiume di terra mista a spiaggia, nel mare.

    Nessuno aveva più costruito su quel suolo, considerato comunemente un prolungamento del giardino privato dei vecchi proprietari della villa: ed essendo Asèria una cittadina in collina, piena di salite e discese, quel terreno eccezionalmente piano si era guadagnato il nome con cui tutti, ancora oggi, lo conoscevano. Sarebbe stato un parco, se qualcuno lo avesse curato: ma era nato da sé, senza dare spiegazioni a nessuno, e nessuno voleva rivendicarlo come proprio, neppure la città stessa. Aveva finito per inselvatichirsi, l’erba troppo alta che si mescolava ai fiori, agli alberi, e alla terra secca, in un intreccio che nessuno voleva prendersi la briga di sbrogliare. Per onestà storica, dovremmo dire che nei ventenni successivi qualche tentativo di qualche sindaco ambizioso venne fatto, ma finirono male, e piano piano la Pianura venne accettata esattamente per com’era: uno spicchio di terra senza padroni con cui la natura faceva ciò che più le pareva.

    II. Scheletri nell’armadio

    Cap. II

    Scheletri nell’armadio

    Nella spirale di Asèria, il liceo scientifico A. Lovidio occupava una posizione centrale, in uno dei cerchi più interni: era infatti quello che i professori definivano un edificio antico, e gli studenti uno vecchio; e davvero avevano ragione entrambi. Negli anni, i muri che un tempo dovevano essere stati scarlatti avevano preso una sfumatura sbiadita, chiazzata di bianco là dove l’intonaco aveva ceduto; disponeva però di finestre ampie, incorniciate elegantemente, e di un giardino piccolo ma ben tenuto.

    Se anche non ci fosse stato un vecchio orologio, a scandire le ore, sarebbe bastato quel piccolo spiazzo d’erba a determinare a che punto fossero le lezioni: la mattina, prima che iniziassero, si riempiva lentamente di studenti che rimanevano lungo la cancellata, seduti sui muretti che costeggiavano tutta la costruzione, come a ritardare al massimo il momento dell’entrata, e il cortile era pressoché vuoto. Al suono dell’ultima campanella, si riempiva di colpo del chiacchiericcio e del rumore degli studenti che uscivano in tutta fretta per poi ciondolare in giro il tempo necessario per gli ultimi saluti.

    In quel momento era appena trillato l’inizio dell’intervallo, e i piccoli gruppetti di ragazzi se ne stavano appollaiati nelle zone d’ombra, sui cornicioni delle finestre e sulle quattro panchine agli angoli, godendosi pigramente i loro quindici minuti di sole e ozio prima delle ultime ore.

    Giulia e Virginia erano sedute nell’erba, la schiena contro al muro il cui interno delimitava la loro classe: complice l’afa di quei giorni, erano anche loro vittime dell’indolenza di metà mattinata, e se ne stavano in un silenzio annoiato, interrotto solo di tanto in tanto da un mezzo sbadiglio.

    «Glielo dico?»

    La voce di Giulia, appena roca per il lungo silenzio, sorprese Virginia, che nel frattempo aveva appoggiato la testa sulla spalla di lei e sembrava sul punto di mettersi a sonnecchiare. Aprì prima un occhio, poi l’altro, sbatacchiando le ciglia chiare, e quando tirò su la testa notò che Giulia non stava affatto oziando come lei, ma era impegnata a osservare con espressione piuttosto accigliata il punto del cortile in cui Riccardo stava chiacchierando con un gruppo di ragazzi della classe.

    «Oh, dio». Virginia roteò gli occhi con un sospiro, e osservò l’altra per qualche istante, prima di arricciare le labbra in una smorfia eccessivamente drammatica. «Ti stai ossessionando con un ragazzo. Chi sei, tu, che ne hai fatto della mia Giulia...»

    Il commento bastò per farla sbuffare infastidita — esattamente la reazione che Virginia stava cercando! — e scrollare la testa con decisione. «Mi sto ossessionando con questa dannata ricerca. L’hai detto tu, no? Prima cominciamo, prima finiamo. Glielo dico, di iniziare a lavorare?»

    «Se hai voglia di litigare in piena mattina...» rispose Virginia con uno sbadiglio, ma allo stesso tempo si era di nuovo attaccata al braccio di lei, riappoggiandosi comodamente sulla sua spalla e chiudendo gli occhi. La cosa fece sorridere Giulia, e il fatto era di per sé notevole, per quanto affatto sorprendente: già da anni, ormai, il velo di tranquillo distacco con cui Virginia pareva approcciarsi alle cose si era rivelato utile a mitigare l’indole tempestosa di lei.

    Giulia passò distrattamente le dita tra le treccine chiare dell’altra, per poi concludere con un mezzo sospiro. «Hai ragione. Se mi vedi andare in quella direzione, per favore, legami da qualche parte».

    Virginia sorrise, sempre a occhi chiusi, soddisfatta del proprio risultato. Non si deve pensare che fosse all’oscuro della propria influenza sull’amica, anzi! Era pienamente consapevole che acconsentire alle sue parole era la maniera migliore per farla dubitare delle proprie intenzioni.

    «Tu hai un bisogno disperato di distrarti, credi a me» sussurrò poi, le labbra incurvate in un’espressione divertita. «Stasera ti porto fuori. Andiamo a bere qualcosa».

    «Oh, il tuo infallibile metodo per smaltire lo stress?» domandò Giulia, sorridendo a sua volta, mentre continuava a carezzarle distrattamente il nido di treccine di cui era artefice.

    «Ma quale stress». La voce di Virginia, che era chiaramente sul punto di prendere sonno, si era ridotta a un mugolio stanco. «È il mio infallibile metodo per passare una bella serata. È la fine dell’anno, i professori sono stanchi, si avvicinano le vacanze, che stress dovresti smaltire? Se rispondi che è per la ricerca, ti... ti mordo una spalla» minacciò debolmente, per poi sbadigliare di nuovo, strofinandosi un occhio con il dorso del pugno chiuso.

    «Allora farò meglio a non rispondere» rise Giulia, scrollando appena il braccio come a mettere alla prova il suo equilibrio. «Tu ce l’hai almeno una vaga intenzione di iniziare a lavorarci?»

    Ne seguì una piccola pausa, che si concluse con un borbottio contrariato da parte della ragazza. «Lunedì» fu tutto quello che si udì prima che Virginia sospirasse sonoramente, alzandosi in piedi come se fosse l’operazione più faticosa del mondo. «Adesso ho bisogno di un caffè. Vuoi?»

    Giulia scosse la testa con un mezzo sorriso di ringraziamento, per poi osservarla allontanarsi. Solo quando sparì all’interno dell’edificio chiuse gli occhi, appoggiando la nuca sul muro per godersi i raggi del sole che filtravano attraverso gli alberi. A differenza di Virginia, che era talmente bianca che la minima luce pareva in grado di scottarla, a lei il sole, qualsiasi temperatura ci fosse fuori, non dava mai fastidio: un po’ perché la metteva di buonumore, un po’ perché faceva brillare la sua, di pelle, dando al proprio color bronzo una sfumatura dorata che personalmente adorava.

    Purtroppo per lei, le furono concessi solo pochi minuti di pace, prima di sentire una voce — decisamente non quella di Virginia — disturbare la sua quiete.

    «È libero, questo posto?»

    Giulia emise un sospiro di esasperazione ancora prima di riaprire gli occhi, e ritrovarsi il volto di Riccardo che la osservava dall’alto. Tra i due, Giulia vantava di qualche centimetro di più a cui era ormai abituata, e la posizione di svantaggio non le fece affatto piacere. Scosse vigorosamente la testa: Riccardo sorrise e si sedette comunque nell’erba, accanto a lei. Non poté che darle estremamente fastidio: non tanto il gesto in sé, ma il fatto che avesse, come al solito, completamente ignorato il suo parere.

    Considerò l’ipotesi di spostarsi per stargli lontano, ma l’idea di doversi togliere dal suo posticino accogliente per colpa sua le fece storcere il naso, e non mosse un muscolo. «A che scopo chiedere, se non hai intenzione di ascoltare?»

    «Pura cortesia» rispose Riccardo, arricciando le labbra in un sorriso divertito. Giulia rimase perfettamente seria, per contrasto, inarcando appena le sopracciglia.

    «La cortesia non ti porta da nessuna parte, se ti comporti comunque da idiota» rispose, roteando gli occhi. «Te lo avrò detto... mezzo milione di volte».

    «Lo stesso». Riccardo scrollò le spalle, sempre con un mezzo sorriso sul viso. «Mi dà un’aria da bravo ragazzo». Giulia emise uno sbuffo piuttosto rumoroso di scherno che l’altro decise di ignorare. «Allora, che mi dici? Iniziamo la nostra appassionante ricerca insieme? Ho il pomeriggio libero, oggi».

    «Tu hai sempre il pomeriggio libero, Riccardo».

    «Per tua fortuna» replicò immediatamente lui, sorridendo. «Allora?»

    Lei finse di pensarci per qualche secondo, mordicchiandosi il labbro inferiore, per poi finalmente voltare la testa nella sua direzione. «Hai mai considerato l’opzione che la gente non abbia voglia di passare del tempo con te?»

    Riccardo, per tutta risposta, rise. Non con cattiveria: sinceramente divertito, gli occhi che brillarono per un secondo. «Sarebbe irragionevole» concluse poi, tranquillo. «E nel tuo caso, beh... devi per forza».

    «Io non devo fare un bel niente» replicò immediatamente lei, che si era appena irrigidita nel sentire la sua risata. Se c’era una cosa che davvero la infastidiva, era la consapevolezza che Riccardo non riusciva a prendere sul serio niente di quello che lei diceva: era come se per il ragazzo, le sue non fossero che brillanti battute — una volta, lui si era addirittura dichiarato deluso per come Giulia ignorasse il suo apprezzamento verso il senso dell’umorismo di lei. «Ci sono milioni di modi per concludere il compito senza vederci neanche una volta. Mai sentito parlare di internet?»

    «Oh, andiamo!» Riccardo sporse appena il labbro inferiore, deluso. «Almeno dammi una possibilità. Ti stupirei!»

    «Te la sei giocata secoli fa, la tua possibilità». Aveva ripreso a guardare davanti a sé, Giulia, con un mezzo sbadiglio che, per quanto chiaramente simulato, fece comunque corrugare la fronte al ragazzo.

    «Una volta sola. Oggi» insistette lui, testardamente. «Decidiamo come impostarla e poi...»

    «Ehi, era il mio posto, questo».

    La voce roca e monocorde di Virginia fece sorridere Giulia, che alzò lo sguardo per osservare l’amica appena tornata, che aveva a sua volta gli occhi fissi su Riccardo, un sopracciglio pallido inarcato.

    Riccardo azzardò un sorriso. «Chi va a Roma...»

    «Ho un bicchiere di caffè bollente in mano e la tua faccia è molto vicina» rispose quasi immediatamente Virginia, sempre con il suo particolare tono distaccato, come se stesse annunciando le previsioni del tempo.

    «Ho capito, ho capito!» Riccardo alzò entrambe le mani in segno di resa, scattando in piedi. Aveva il sorriso ancora sul volto, ma era piuttosto incerto, ora, come se non fosse sicuro del fatto che stesse scherzando o meno, e si rivolse nuovamente a Giulia. «Ultima offerta: ci troviamo in biblioteca a studiare. Ognuno per conto proprio, e la conversazione sarà esclusivamente sulla ricerca».

    Forse influenzata dalla presenza di Virginia — o semplicemente piacevolmente colpita dal fatto di starlo facendo dannare così tanto, Giulia incurvò le labbra in un piccolo sorriso. «Forse ci sarò, forse no. Chi vivrà, vedrà».

    Riccardo si illuminò di colpo. «Alle cinque! Ti aspetto». Senza aggiungere altro, miracolosamente, salutò entrambe con una mano camminando all’indietro, prima di raggiungere di nuovo il suo gruppetto di amici. Se Giulia lo avesse seguito con lo sguardo, lo avrebbe visto alzare entrambi i pollici in direzione dei compagni che lo aspettavano con le braccia incrociate sul petto e il fiato sospeso.

    Non vi è alcun dubbio che se avesse assistito alla scena, avrebbe evitato accuratamente di presentarsi in biblioteca, più o meno sette ore dopo: ma dato che in quel momento aveva appena accettato l’offerta di un sorso di caffè da Virginia, ne conseguì che a l’ora stabilita si presentò davanti alla porta di legno dell’edificio con una sacca piena di quaderni su una spalla, solo per trovare Riccardo già ad aspettarla all’ingresso. Per quanto Giulia apprezzasse la puntualità, comunque, non bastò per farle evitare di salutarlo con un solo cenno della mano, prima di precederlo all’interno, entrando a grandi passi.

    In un’ipotetica classifica degli edifici più frequentati di Asèria, la biblioteca avrebbe senza dubbio occupato i primi posti: così come sarebbe stata in cima in quella per la costruzione più grande o il palazzo meglio decorato, insieme a una nota di merito per essere con una buona probabilità una delle poche biblioteche in cui l’unica cosa non costruita in legno fossero i libri stessi.

    Era il fiore all’occhiello di Asèria, un orgoglio cittadino che tutti gli abitanti contribuivano a far rimanere tale frequentandola il più possibile, per ogni sorta di motivo: e d’altronde la biblioteca non deludeva mai, visto che i volumi contenuti negli alti scaffali trattavano degli argomenti più disparati. E se anche così non fosse stato, era un piacere anche solo osservare la minuzia artistica con cui le piccole scale a chiocciola si intersecavano con le mensole e le pareti, in un tale intreccio di legno che era impossibile distinguere dove finiva la libreria e iniziava la parete. Entrando, l’impressione era quella di introdursi all’interno di un’enorme quercia di novecentocinquanta metri quadrati, nella quale erano state intagliate le singole stanze. Inutile aggiungere che il solo ingresso era uno spettacolo mozzafiato, responsabile almeno per una buona metà del primato di Asèria come città più letterata dell’isola di cui era capitale. Chiunque, entrando in un posto del genere, finiva con un libro in mano e con il trattenersi fino all’orario di chiusura.

    Quando Giulia scivolò dentro, i tavoli al piano terra erano già tutti occupati. Riccardo, che l’aveva seguita col suo passo lento e cadenzato, le tamburellò su una spalla indicandole le scale che portavano al piano superiore — e se lei non replicò, fu solo per rispetto del silenzio sacrale che regnava in quel luogo.

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