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Proiezioni: Quattro film visti con filosofia
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Proiezioni: Quattro film visti con filosofia

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Il capitale umano, di Paolo Virzì, I nostri ragazzi, di Ivano De Matteo, Zoran, il mio nipote scemo, di Matteo Oleotto e L’amore buio, di Antonio Capuano spiegati attraverso Jean Baudrillard, John Rawls, Max Weber e Michel Foucault. Quattro film analizzati ognuno da una diversa prospettiva filosofica per cercare il territorio comune tra immagine e pensiero in cui si incontrano il cinena e la filosofia. Partendo, indifferentemente, o da posizioni teoriche del XX secolo, epocali e decisive per la speculazione filosofica, o da lavori cinematografici particolarmente densi e significativi, l'autore ha cercato di attraversare il testo filmico operando un confronto continuo tra immagine e pensiero, incrociando costantemente il livello del vedere e quello del pensare: mentre un filosofo interrogava il film, il film già aveva in un qualche modo interrogato, o pre-interrogato, quel filosofo.
LanguageItaliano
Release dateJan 1, 2018
ISBN9788827543474
Proiezioni: Quattro film visti con filosofia

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    Proiezioni - Mennato Tedino

    assoggettato

    PREMESSA

    Questo libro è la naturale continuazione di un volume uscito qualche anno fa con il titolo Cinesofemi. In dialogo con due film su tempo ed Edipo. Quel testo mostra oggi certamente qualche difetto tipico dell’età ma l’impianto complessivo, a mio avviso, resta tuttora valido. Ed è proprio questo impianto che qui viene mantenuto. Anche qui sono presentati i tentativi esegetici ed ermeneutici che ho portato avanti analizzando, sia sul piano cinematografico sia su quello filosofico, quattro pellicole proiettate durante la rassegna curata da Gaetano Panella svoltasi al Liceo «Rummo» di Benevento. Le pagine che seguono ne costituiscono la naturale conclusione.

    I quattro film analizzati sono pellicole italiane di diverso tenore. Il capitale umano, di Paolo Virzì, opera di discreto successo del regista toscano, racconta – con i modi della destrutturazione narrativa tanto cara a certo cinema postmodernista – le avventure tristi e deplorevoli di un piccolo borghese ai tempi della crisi. I nostri ragazzi, di Ivano De Matteo, affronta con una regia lineare e non invasiva i dubbi etici di due famiglie alle prese con il male morale che nasce al loro interno. Zoran, il mio nipote scemo, di Matteo Oleotto, è una delicata storia di redenzione – raccontata anche con i toni della commedia – che si realizza per due emarginati attraverso il loro casuale e improbabile incontro. Infine L’amore buio, di Antonio Capuano, è un quadro che dipinge i silenzi e i formalismi in cui è imprigionata una ragazza borghese vittima di uno stupro contrapponendoli ai colori forti e accesi dell’esperienza del carcere che contestualmente vive l’adolescente responsabile della violenza.

    Come già in precedenti lavori, anche in questo testo la mia intenzione non è stata quella di elaborare teorie sul cinema, sulla filosofia e sui loro reciproci rapporti; prima di ogni apparato o dispositivo concettuale che operasse ad un metalivello rispetto alla fruizione dell’opera, ho cercato di operare da subito «sul campo», sporcandomi le mani, analizzando i film, in alcuni casi persino dissezionandoli, guidato non soltanto da una volontà di comprenderne le implicazioni etiche, estetiche, gnoseologiche, religiose, politiche, sociali, ma anche mosso dalla volontà di ricercare nuove prospettive e nuovi sguardi che la narrazione filmica poteva offrire. Non rifiuto, chiaramente, l’idea di operare considerazioni sulla stessa possibilità di un rapporto significativo tra il cinema e la filosofia; credo, al contrario, che questo rapporto si innegabile ed evidente. Credo anche, però, che non si possa definire una struttura gerarchica di comprensione e di esplicazione tra la filosofia e il cinema; piuttosto è vero che l’unica possibilità sia quella di lavorare all’interno di un «circolo della comprensione».

    Perciò, partendo, indifferentemente, o da posizioni teoriche del XX secolo, epocali e decisive per la speculazione filosofica, o da lavori cinematografici particolarmente densi e significativi, ho cercato di attraversare il testo filmico operando un confronto continuo tra immagine e pensiero, incrociando costantemente il livello del vedere e quello del pensare: mentre un filosofo interrogava il film, il film già aveva in un qualche modo interrogato, o pre-interrogato, quel filosofo.

    Dunque non cinema filosofico, neppure filosofia del cinema né, tantomeno e banalmente, cinema e filosofia. Convinto, come sono, che possa esistere un territorio in cui l’immagine è già da sola narrazione filosofica e in cui il pensiero è immediatamente «visione» ― un territorio, cioè, in cui il raccontare per immagini significa teorizzare e filosofare ― ho guardato ai testi cinematografici qui proposti e analizzati come a delle possibilità «ulteriori» di pensiero e, allo stesso tempo, all’immagine filmica come «messa in scena» e «resa drammaturgica» non soltanto di idee, concetti o teorie ma di una qualche loro eccedenza. In questo territorio nasce già qualcosa che non è né pensiero, né immagine, né la sovrapposizione di essi; qualcosa per la quale ancora deve essere «detto» il nome.

    Anche se, come già accennato, questo non è un testo che vuole operare una riflessione teoretica sul significato e sul valore della relazione tra immagine e pensiero, ma proprio perché non rifiuta l’idea di operare considerazioni sulla possibilità di un rapporto tra il cinema e la filosofia, in questa breve premessa converrà spendere qualche parola per definire l’orizzonte teorico entro cui, da qualche anno, ho deciso di operare.

    Imago

    Che relazione, oggi, crediamo di poter stabilire tra immagine e pensiero? La contaminazione settoriale, che dopo la stagione della postmodernità non è più considerata una blasfemia, ci autorizza ad ipotizzare ardite sovrapposizioni e commistioni, persino matrimoni tra campi dell’attività umana e della ricerca se non proprio distanti, almeno distinti. La complessità ermeneutica di una manifestazione iconica, in cui sono stratificati molteplici livelli semantici, ben si presta ad esplorare il terreno della riflessione filosofica non già come «altro» da quella rappresentazione ma proprio come la sua stessa e costitutiva «natura», se mi si consente il termine. D’altro canto, ogni idea per esistere deve essere, a suo modo, «vista», e questo vuol dire non solo e semplicemente che essa debba essere rappresentata ma, soprattutto, che la sua rappresentabilità è un farsi avanti per offrirsi nella visione eidetica in una forma che la individua, diciamo così, in «carne ed ossa», esattamente in quel modo e proprio in quel momento. Anche il pensiero ha il suo «quando», il suo «dove», il suo «come» e ogni immagine ha il proprio «cosa».

    Così ogni immagine racconta e ogni pensiero si mostra. Insomma, l’arte è anche capace di pensare e la filosofia di rappresentare, e non ognuna di esse per proprio conto e separatamente; l’arte rappresenta, e intanto pensa, e la filosofia pensa, e intanto rappresenta; ma anche, in altri termini: l’arte pensa rappresentando, la filosofia rappresenta pensando. Il discorso, ci rendiamo conto, rischia di sembrare più un delirio di pessima matrice idealistica tipico di un hegelismo da quattro soldi più che una pacata considerazione sui rapporti tra pensiero filosofico e rappresentazione artistica. Si pensi, però, che l’antichità classica conosceva già queste modalità della pratica filosofica se si considera che i grandi tragici affrontavano temi che oggi non facciamo fatica a definire filosofici attraverso la forma artistica del dramma teatrale. Allo stesso modo, molti autori contemporanei riflettono sul presente privilegiando il linguaggio delle immagini in generale e quello cinematografico in primo luogo.

    Resta, comunque, la difficoltà di definire compiutamente il topos cinematografico e lo specifico filmico. Quasi inevitabilmente, infatti, al cinema è oggi riservato un ruolo ancillare rispetto alle Lettere; le trasposizioni cinematografiche di capolavori della letteratura mondiale sono un fenomeno apparentemente inarrestabile che, limitando e sacrificando proprio quella specificità del linguaggio filmico, offende il cinema come arte e lo riduce a semplice tecnica di raffigurazione/rappresentazione. Un cinema che si voglia conquistare uno spazio proprio e caratteristico dovrebbe ripensarsi in termini concettuali a partire dalla messa in questione del suo status ermeneutico. Ritornare a porre al centro del progetto narrativo proprio l’immagine che deve fungere contemporaneamente da mezzo espressivo e da nucleo propulsivo della narrazione, pensando alla genesi del film come a qualcosa che può nascere e svilupparsi innanzitutto ed essenzialmente in termini allucinati e fantasmatici. Esso non deve essere soltanto l’ultimo step di un processo creativo ma anche, simultaneamente, il primo. Si prenda, come esempio di questo discorso, l’esperienza surrealista o i molteplici tentativi di portare la comunicazione cinematografica a quei livelli, né verbali né concettuali, in cui la luce e il colore si riappropriano del ruolo centrale nel racconto che diventa così, ancestrale e originario.

    Le difficoltà che si presentano, appena si tenti di chiarire lo spazio in cui agisce il cinema come espressione artistica caratteristica, trovano una curiosa corrispondenza in un campo simile: la canzone popolare. Il recente Premio Nobel per la letteratura assegnato a Bob Dylan ha suscitato non poche polemiche sull’opportunità di attribuire un’onorificenza così prestigiosa non ad un letterato tradizionale ma ad un cantante folk-pop-rock. Trovo giuste le perplessità nate intorno alla decisione degli accademici di Stoccolma non perché Dylan non meriti il Nobel bensì perché non credo si possa parlare, nel caso delle sue opere, di «Letteratura». Se proprio dobbiamo essere costretti ad accettare l’idea che l’arte possa ridursi a «categorie artistiche», allora bisognerebbe assegnarglielo, piuttosto, per la categoria «canzone popolare», riconoscendo in tal modo che opere d’arte come Vision of Johanna, Knocking on heaven’s door, etc. non sono né musica, né poesia, ma qualcosa che costituisce un’espressione artistica unitaria e unica, non una somma di livelli distinti.

    È esattamente per questa ragione che trovo importante riconoscere che il cinema non possa essere ridotto, di volta in volta, a teatro, letteratura, musica, fotografia, pittura, etc. Il suo statuto, a partire dal suo specifico, non può essere pensato in forme servili; al cinema, oggi, va riconosciuto un spazio definitivamente proprio.

    Logos

    «In principio era il Verbo» dice Giovanni. È il Prologo del quarto Vangelo, anche conosciuto come «Inno al Logos».

    Come è noto, l’originale greco recita: Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος («In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e Dio era il Logos»). Nella Vulgata di San Girolamo λόγος è reso con il termine latino Verbum da cui deriva il «Verbo» del testo italiano che suona: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Non è utile, ai fini del nostro discorso, ritornare qui sulla complessità del termine greco λόγος la cui polisemia ha generato una lunga serie di difficoltà traduttive (basterebbe soltanto considerare il senso del logos eracliteo come legge dell’ordine cosmico il cui significato non è restituibile se non giocando su più piani: quello linguistico, in cui logos va inteso come parola, quello del pensiero, in cui logos diventa logica, e quello ontologico, in cui logos ha valore di legge¹).

    Dio è, dunque, il «Logos» (θεὸς ἦν ὁ λόγος). La Dei Verbum esplicita che: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura»². Dio si incarna nella storia attraverso la figura del Cristo, il «Logos» si manifesta e si mostra all’umanità nel messia, Gesù di Nazareth, come dice anche Paolo di Tarso nella Lettera ai Colossesi: «Egli è immagine del Dio invisibile»³.

    Ciò che è importante sottolineare per il nostro argomentare sui rapporti tra film e filosofia è il fatto la cultura dell’Occidente non può disconoscere la sua eredità cristiana in cui il ruolo del «vedere» occupa una posizione centrale se, come credo si possa sostenere, nel cristianesimo l’atto del manifestarsi del «Logos», cioè l’incarnazione di Dio in Cristo suo figlio, è elemento costitutivo e non marginale, essenziale e non accessorio; in un senso molto ampio, ci diciamo «cristiani» perché riconosciamo di appartenere ad un orizzonte socio-culturale in cui la misericordia di Dio e il suo amore per l’uomo sono passati necessariamente attraverso il Cristo, Dio che si è fatto carne, si è fatto vedere, è entrato nella storia mostrandosi.

    In questo senso, il cristianesimo è profondamente diverso da ebraismo e islamismo proprio in relazione alla questione dell’immagine di Dio. E ciò non soltanto pensando a temi come l’iconoclastia o l’iconofilia, ma innanzitutto per l’evento dell’«epifania del divino», del Dio che mostra il suo volto e si traduce in immagine. Questo venire in luce, questo diventare visione del «Logos», questo apparire dell’idea, questo mostrarsi del pensiero, questo manifestarsi dello spirito, questo rivelarsi della parola, si presenta come l’atto essenziale, necessario e ineludibile della redenzione. Tutto ciò significa che solo quando lo spirito e il pensiero si fanno volto e immagine solo allora è possibile la salvezza. Ha osservato Stefano Socci che «il Cristianesimo si distingue dall’Ebraismo in quanto riconosce l’incarnazione di Dio e la resurrezione di Gesù, ovvero afferma il primato della vista sull’udito, dell’immagine sulla parola»⁴.

    All’origine della cultura occidentale proprio in quanto figlia del cristianesimo, dunque, si posiziona l’«epifania del Logos», il venire allo sguardo dello Spirito e il farsi immagine del pensiero. Pensare e vedere evidentemente non si oppongono bensì, al contrario, si integrano; fare filosofia attraverso le immagini, come ho scritto in un’altra occasione, «risulta essere non un modo nuovo di penetrare gli enigmi del pensiero quanto un ritorno alla modalità originaria del pensare»⁵.

    L’idea che si fa visione e che, anzi, deve farsi visione per trovare compiuta realizzazione, rappresenta il nerbo della dottrina cristiana ― e quindi l’orizzonte culturale, morale ed emotivo in cui, nostro malgrado, ci siamo formati e siamo collocati ― tanto che ritroviamo il fenomeno del «farsi vedere» in due aspetti apparentemente lontani ma fondamentalmente interconnessi: il martirio e le apparizioni.

    Il significato di μάρτυς e μαρτύριον è originariamente quello di «testimone» e «testimonianza». Martire è chi rende testimonianza della propria fede e del sacrificio del Redentore mettendo in scena il suo stesso sacrificio attraverso il proprio corpo che si presenta in primo piano e si rende disponibile alla visione. Il martirio prima di essere una dimostrazione di fede o uno strumento di evangelizzazione è innanzitutto uno spettacolo: l’accadere del Logos agli occhi di chi osserva.

    La stessa eucarestia come corpo di Cristo che viene «ostentato» nell’ostensione è lo theatron.

    Il fenomeno delle apparizioni ha assunto nel corso dei secoli un ruolo centrale nelle forme di attuazione e manifestazione della fede. L’apparizione è il divino che si manifesta, anche se non a tutti e in tutte le condizioni. Si manifesta perché non esiste forma di affermazione superiore all’atto dello s-velarsi. Solo di passaggio ricordo qui che ἀλήθεια, la verità, è ἀ-λήθεια, il non nascosto, ciò che si s-vela e nel togliere il velo viene in primo piano, si fa visibile, diventa immagine.

    La fede del cristiano è tanto più salda quanto più poggia sul divino che si fa fenomeno e martirio.

    Ecco perché Giovanni si presenta come «testimone», colui che ha visto.

    È in questo senso decisamente profondo e radicale che Cinema e filosofia, dunque, devono trovare il modo di incontrarsi, riconoscersi, riunirsi perché, almeno dal mio punto di vista, quando il pensiero astratto sa farsi immagine filmica esso, non soltanto si completa e si compie, ma ritrova la strada del suo ritorno a casa.

    Foglianise, nella Valle Vitulanese, gennaio 2018.

    IL CAPITALE DISUMANO

    Non ci accontentammo dell’umano…

    Adesso ci tocca accettare il disumano.

    (G. F. Baveri)

    L’Umano e il Capitale

    Il vero satellite artificiale è diventato [oggi] la massa di denaro fluttuante che circonda la terra con la sua ronda orbitale. Il denaro diventato puro artefatto, con una mobilità siderale e una convertibilità istantanea, ha trovato infine la sua vera collocazione, più straordinaria dello Stock Exchange: un’orbita su cui si leva e tramonta come un sole artificiale.

    A sentire il filosofo e sociologo francese Jean Baudrillard⁷, noto per la sua verve polemica e il suo stile provocatorio, staremmo attraversando un’epoca in cui non un solo astro ci illumina, bensì due; il primo, naturale, riscalda e permette la vita; il secondo, artificiale, raggela e, in un certo senso, distribuisce morte. I raggi di quest’ultimo non si manifestano in maniera inusitata: quando giungiamo a pretende di prezzare l’inapprezzabile, quando crediamo di saper indicare l’esatta quantità di moneta equivalente al valore di una vita umana, quando siamo convinti che con i soldi sia possibile chiudere sempre i conti in sospeso, anche quando in gioco vi è il più decisivo degli eventi dell’esistenza, è

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