Scambio d'Identità - Innamorati per errore
By Sierra Rose
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Dall'autrice di "A.A.A Cercasi Finta Fidanzata per Miliardario" e "Ops, mi sono innamorata del mio capo" ecco il primo libro di una nuova bollente trilogia: Mistaken Identity.
Che cosa fai quando ti ritrovi in una situazione molto più grande di te? È quello che è successo a me dopo aver accettato di partecipare a una festa fingendo di essere mia sorella gemella. Lei è un'autrice di best seller. Emily non può andare agli eventi a causa dei suoi attacchi di panico. L'accordo era che avrei dovuto fingermi lei UNA sola volta per salvare la casa editrice per cui lavora.
Ho conosciuto un bellissimo scrittore durante la festa. Il suo nome è Max. Lo so! Pessima idea dato che non sono Emily... ma non potevo ignorare la chimica tra di noi.
I fans ci adorano e le vendite stanno salendo alle stelle grazie alla nostra "finta" relazione... ma la situazione mi sta sfuggendo di mano!
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Scambio d'Identità - Innamorati per errore - Sierra Rose
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CAPITOLO UNO
Quando ricevetti la telefonata, mi trovavo nel mio appartamento e stavo dando gli ultimi ritocchi a un dipinto.
Vortici di un magenta acceso e un olio viola avvolsero le mie dita e braccia non appena inclinai il capo e osservai attentamente la tela. Era una raffigurazione del Ponte dei Sospiri a Venezia, uno dei quattro pezzi che volevo dare in beneficienza il prossimo giovedì per un evento che promuoveva l’insegnamento dell’arte nelle scuole di New York. Stringevo un pennello tra i denti, e gli altri due fungevano da fermaglio per i miei lunghi e scombinati capelli neri. Era necessario che l’olio si asciugasse in un momento specifico prima che diventasse impossibile aggiungerlo. Quel momento stava per arrivare.
Quando ricevetti quella telefonata, c’era un uomo sul mio letto.
Era svenuto con il viso sul cuscino e puzzava di vino. Si chiamava Chris, o Brad, o Jake o un qualsiasi nome con una sola sillaba—un’altra monotona rappresentazione del bambinone da confraternita con cui finivo a letto ogni notte dopo una lunga serata al bar. Carino ma niente di eccezionale. Muscoloso ma per niente interessante. La cosa buona di questa città era l’infinita quantità di uomini e donne di diverso temperamento e livello che attraversavano la medesima porta girevole. Brad non era stato di tuo gradimento la scorsa notte? Prendi un Jake questa mattina. Era un infinito gioco delle sedie. L’ultimo senza un compagno alla chiusura del locale andava a casa da solo.
Quando ricevetti la telefonata, non ebbi tempo di rispondere.
Ma non era il genere di chiamata cui non rispondi. Ha una suoneria speciale per una specifica ragione. Il rilassante suono degli Stormtroopers di Darth Vader che annientano i ribelli. Se la mia vita fosse stata un film, avrei ricevuto la telefonata su un telefono speciale. Un telefono rosso. Quello che comincia a tremare e capisci si tratti del Cremlino.
Sentii un gemito non appena Brad o Chris si lamentò del fastidioso squillo, cercando di lottare contro la sua sbornia. «Chi cazzo ti sta chiamando?» mormorò contro il cuscino. «Sono le cinque del mattino.»
Scattai in piedi all’istante, asciugando le mani sui jeans già sporchi di pittura mentre attraversavo il loft per prendere il telefono da un vaso. «Può essere solamente una persona,» mormorai, chiedendogli di tornare a dormire. Uscii in balcone, fissando le luci della città sotto di me. «Pronto?»
Non mi sorprese sentire la voce di una sconosciuta. «Miss Waters?»
«Sono io.»
«Miss Waters, sono Shireen Dobbs, un’infermiera del New York-Presbyterian Hospital a Manhattan. Non vorrei spaventarla, ma sua sorella è qui, e speravo che lei—»
«Me la passi,» la interruppi, staccando una foglia secca da una delle mie begonie osservandola mentre cadeva. Un secondo dopo, una voce diversa cominciò a parlare. Una voce tremante e affannata. Una che conoscevo benissimo.
«Eve?»
Sorrisi istintivamente. «Ehi, Ems. Va tutto bene?»
Potevo sentire il rumore di un macchinario, accompagnato da un mormorio di voci. L’immagine era completata con mia sorella distesa su un letto al centro della stanza.
«Non proprio...» chiamava sempre quando non proprio
era la versione attenuata di una vera risposta. «Ho avuto un altro attacco. Eve, odio chiedertelo, ma potresti—?»
«Arrivo,» stavo già prendendo il cappotto. «Fai respiri profondi e prova a rilassarti—arrivo subito.»
«Grazie, Eve. Ciao.»
Il telefono fece bip e la chiamata si interruppe, lasciandomi molto perplessa. Sembrava più stremata del solito. Più fragile.
Io... sono stata programmata in maniera differente.
«Alzati!» Colpii il letto non appena indossai gli stivali, e il mio compagno di una notte cominciò a pronunciare delle profanità. In realtà, sarebbe corretto definirlo una scappatella di sole tre ore. Ma chi stava tenendo il conto? «Ascolta, ho un’emergenza. Mia sorella è in ospedale. Devo andare. Vuoi che ti chiami un taxi o Uber?»
«Ho fame.»
«Um, ti va bene una barretta o una Poptart? Che mi dici di Uber?»
«No, ci penserò io quando andrò via. E andrò via quando sarò pronto. Ho un terribile mal di testa. Torno a dormire.»
«Non puoi restare.»
«Hai paura che ti derubi. Non hai niente, tesoro.»
«Ti prego, devo andare.»
Mi fissa con occhi assonnati prima di controllare l’orologio. «Fai sul serio? Non sono nemmeno le sei.»
«Sì. Mi dispiace. È un’emergenza, e devo andare in centro.»
Ero completamente vestita a quel punto—trench, taser, e anfibi—e cominciai a fissare con impazienza il letto. Quel tipo non aveva intenzione di muoversi, figuriamoci indossare dei vestiti. Aveva bisogno di una spinta.
«Ecco.» Gli sorrisi desolata non appena raccolsi i suoi abiti dal pavimento e glieli lanciai—colpendogli il viso per errore con i suoi boxer. «Sei pronto. C’è una caffetteria all’angolo aperta tutta la notte. Puoi prendere la metro, altrimenti posso chiamarti un taxi.»
Mia sorella mi stava aspettando in ospedale, era il massimo che potessi fare per lui al momento.
Tra la parola caffè
e taxi
lo studentello sembrò aver recepito il messaggio e cominciò a rivestirsi.
Gli do del Tylenol e un bicchiere d’acqua. «Prendilo. Ti aiuterà con il mal di test.»
Una volta in piedi, mi fissò con un sorrisetto assonnato. «Sai, sei piuttosto sexy quando fai l’autoritaria.»
«Sei molto carino,» lo interruppi con voce smielata, spingendolo verso la porta. «Mi sono divertita, buona fortuna... piccolo.»
In un mondo perfetto, lo avrei chiamato per nome. Ma scherzi a parte, non lo ricordavo sul serio. Prima di uscire, si voltò verso di me.
«Sì, anch’io mi sono divertito...» Aha! Nemmeno lui ricordava il mio nome. «Dovresti darmi il tuo numero così potremmo—»
«Certo!» Gli chiusi la porta in faccia. «Ciao!»
Aspettai un paio di minuti e poi aprii la porta. Prima di uscire lanciai un’occhiata al mio dipinto. L’olio si sarebbe asciugato rovinando il dipinto.
Fermare un taxi a New York era più facile prima dell’alba. Tra le tre e le cinque e trenta. Lo avevo imparato dopo anni di studio.
«Manhattan Presbyterian,» dissi attraverso la grata.
L’uomo mi fissò non appena si immise nel traffico, concentrandosi sulle mie mani sporche di colore. «Yo, signorina, non toccare niente, va bene? Ogni volta che porto a pulire quest’affare, detraggono i soldi dalla mia busta paga.»
Sollevai le mani come un criminale e mi appoggiai allo schienale di pelle—riflettendo su ciò che avrei detto a Emily una volta arrivata.
Alcune persone soffrono di attacchi di panico. E altri hanno attacchi di panico. Come se le sue due menzioni sulla lista dei best-seller del New York Times non fossero una prova sufficiente, mia sorella è una persona piuttosto ambiziosa. Quando andava a fondo, crollava sul serio. Io ero sua sorella gemella, la sua esatta copia, e l’unico membro della famiglia che le era rimasto, quindi era compito mio aiutarla nei momenti di crisi.
Questo era il settimo negli ultimi sette anni. Non un numero esorbitante per una persona con una paralizzante socio-fobia il cui successo l’aveva portata ad avere degli attacchi d’ansia che continuavano a peggiorare. Temevo sempre l’arrivo della prossima chiamata.
Arrivai in ospedale circa dieci minuti dopo e diedi all’autista una banconota da venti un po’ sbiadita. La guardò infastidito, ma la accettò ugualmente.
Le infermiere mi conoscevano—soprattutto quelle del turno notturno—e parecchie mi salutarono e abbracciarono prima di salire in ascensore e raggiungere il terzo piano. Qui, era molto più silenzioso. Una rilassante melodia riecheggiava dagli altoparlanti sulle pareti dipinte di beige.
Sentii il ticchettio dei miei tacchi prima di aprire la porta in fondo al corridoio.
Emily sembrava davvero minuta e fragile, accoccolata al centro dei suoi cuscini. Tecnicamente avrebbe dovuto essere la sorella maggiore—mi aveva battuto di soli tre minuti—ma ero sempre stata io a occuparmi di lei. Da quando eravamo piccole, lo sapevano tutti—importunavi Emily, allora Eve ti prendeva a calci in culo. Eravamo una squadra. Due lati della stessa moneta—unite come tutti i gemelli e gli orfani.
«Ehi,» dissi con calma per non farla saltare in aria. «Come ti senti?»
Mi fissò e sorrise. «Meglio adesso. Grazie per essere venuta. Mi dispiace di... di averlo rifatto.»
«Non essere sciocca.» Feci un gesto con la mano e mi accomodai sul letto. «Mi hai salvato da un imbarazzante discorso da il mattino dopo
.»
Emily ridacchiò debolmente, musica per le mie orecchie. «Come si chiama? Dave? Steve? Oppure non lo sai proprio?»
Sospirai e osservai la flebo che le avevano attaccato. «Oh, sono certa sia uno dei due.»
Rise di nuovo, giocherellando con il braccialetto al polso. «Perché continui a farlo? Perché sprechi il tuo tempo con questi tipi? Potresti avere di meglio—lo sai. Ma hai paura di avere una relazione.»
«Così è più semplice.» Scrollai le spalle. «Ho più tempo per concentrarmi su ciò che è veramente importante. I miei dipinti.» Le scostai i capelli umidi dalla fronte e le sorrisi. «Te.»
«Ho interrotto anche questo.» Si ritrasse controllando il punto in cui l’avevo sfiorata, cercando traccia di pittura. «Come prosegue? Hai concluso il Ponte dei Sospiri?»
«Quasi.» In quel momento Il Ponte dei Sospiri
si stava asciugando nel mio appartamento e non avrei potuto fare niente per rimediare, ma era inutile dirglielo. «Tu che mi dici? Hai concluso l’epilogo?»
Appoggiò la testa sul cuscino e sospirò. «Ho impiegato tutta la notte per scriverlo. L’ho inviato a Marcy questa mattina. Ha detto che lo adora.»
Marcy Collins era l’editore di Emy e anche una vecchia amica. In effetti, l’unica persona su cui poteva fare affidamento a parte me. Aveva creduto nel primo libro di Emily—uno squarcio sul modo di pensare dei bambini che sono cresciuti senza genitori in città. Quel libro era stato un enorme successo, così quando anche il secondo libro fu pubblicato—il racconto della moglie di un marinaio—Emily era riuscita a vincere il Premio Pulitzer a soli ventitré anni.
Dire che ero fiera di mia sorella era riduttivo. Era un genio intrappolato nel corpo di una fragile ed emotivamente instabile giovane donna.
«L’ha adorato,» ripetei, cercando di capire