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Galdash - Le gemme dei draghi
Galdash - Le gemme dei draghi
Galdash - Le gemme dei draghi
Ebook604 pages9 hours

Galdash - Le gemme dei draghi

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About this ebook

Una bambina senza memoria, un mago ramingo, un corvo dagli occhi celesti, un villaggio raso al suolo, un potente talismano in grado di richiamare i draghi nei cieli di Galdash.

Galdash è un regno incantato, governato dalla magia e gremito di creature fantastiche. Cinque popolazioni si spartiscono le sue terre: gli elfi di Farland, i nani di Zandor, le aquile delle nevi, i barkish del deserto e gli avidi umani. La pace è minacciata dal ritorno delle tre razze malvagie: korbac, habrad e shuhar. Confinate da secoli al di là delle Montagne Incantate da una barriera magica eretta dai possenti dragoni alati, la loro esistenza era stata dimenticata persino dalle più antiche leggende. Liberate dal misterioso Signore del Nord, le bestie hanno fatto ritorno per portare morte e distruzione nelle terre dalle quali erano state bandite.

Sarà compito dei tre protagonisti salvare le sorti del regno. In compagnia di due elfi e un arrogante cavaliere dai dubbi propositi, si impegneranno in un lungo viaggio, che li condurrà alla ricerca di sei preziose pietre: le Gemme dei Draghi. Lungo il percorso dovranno guardarsi le spalle da innumerevoli pericoli, dai predatori della foresta, dalle spie del Signore del Nord, dagli attacchi dei feroci korbac.

Fortunatamente non mancheranno validi alleati, quali la Grande Quercia – guardiano della Foresta Intricata e custode della magia dei draghi – i briganti del bosco e la bizzarra strega della casa di pietra.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 9, 2018
ISBN9788827805190
Galdash - Le gemme dei draghi

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    Galdash - Le gemme dei draghi - Cristina Bergesio

    draghi

    1.

    Un volo disperato

    L’inverno era ormai giunto al termine e la Grande Foresta Intricata si preparava al suo lento risveglio. Gli alberi millenari, ancora nudi e spogli, già fremevano nel vento tiepido di marzo, impazienti di riprendere finalmente vita. Scoiattoli e furetti saltellavano e si rincorrevano tra i rami brulli, mentre lepri e cerbiatti si avventuravano timidamente nel sottobosco in cerca dei primi ciuffi d’erba. Centinaia d’uccelli cinguettavano allegri e spensierati, preparando i nidi che avrebbero ospitato i prossimi nascituri.

    L’imminente arrivo della primavera si respirava ovunque e quel mondo incantato si apprestava ad accogliere la nuova vita, incurante di ciò che avveniva all’esterno dei suoi confini.

    Il corvo volava veloce su quell’immensa distesa scura. La notte era serena e la luna piena illuminava d’argento la sua corsa sfrenata. L’istinto animale scalpitava per prendere parte alla rinascita della sua vecchia terra, ma la voce nella sua mente gli intimava di non fermarsi. Aveva una missione da portare a termine. Doveva arrivare ad Asten, trovare la donna ed avvertirla del pericolo. Non l’aveva mai vista prima di quel giorno. L’avrebbe riconosciuta grazie alla gemma, ma doveva fare in fretta.

    Un peso gli gravava sul cuore, un dolore che non gli apparteneva ma che poteva sentire come un artiglio conficcato nelle carni. Tentò di ignorarlo. Proseguì il suo volo e – dopo cinque giorni e cinque notti di viaggio ininterrotto – giunse finalmente in prossimità del villaggio. Sorgeva ai piedi delle colline, poco lontano dal margine settentrionale della Foresta. Una piccola comunità di umani come se ne potevano vedere molte nelle fredde Terre del Nord. In una di quelle insignificanti casette di legno, tuttavia, era custodito un talismano dai poteri inimmaginabili.

    Benché la minaccia fosse in agguato, la zona appariva piuttosto tranquilla.

    Troppo tranquillo, pensò il corvo con una voce che non era la sua, mentre una sensazione d’inquietudine iniziava a crescergli nell’animo.

    La piana era immersa in un silenzio innaturale, non si scorgeva la luce di un singolo lume e l’intero borgo appariva come avvolto da una leggera foschia.

    Si rese conto, soltanto un istante più tardi, che non era affatto nebbia quella che vedeva. Era fumo ed ora riusciva a sentirne l’odore acre. Era arrivato tardi. Non avrebbe più potuto avvertire la donna. Forse, però, avrebbe ancora potuto trovarla e portarla in salvo. Spronato da una forza alimentata dalla disperazione, si lanciò in picchiata lungo il lieve pendio, ma anche l’ultima speranza si estinse quando giunse infine alle porte del villaggio.

    Il fuoco era ormai spento da ore. Restava solamente il fumo che si alzava in lugubri spire da quelle che erano state le case degli umani. Tra le macerie carbonizzate si distinguevano appena i corpi straziati di coloro che erano stati trucidati nel sonno e poi dati alle fiamme. Uno stormo di uccelli deformi stava già banchettando con quel poco che ne restava.

    Il corvo sentì la rabbia crescere dentro di sé, una collera antica e profonda che proveniva da tempi remoti. Non poteva trattenerla poiché non gli apparteneva, perciò si arrese e lasciò che si sfogasse. La voce esplose in un grido impetuoso, carico dell’odio che era stato represso troppo a lungo. Spaventato dall’improvviso frastuono, l’intero stormo si levò in volo per fuggire oltre le colline in un macabro frullio d’ali.

    Il corvo si posò a terra ansimando, stremato dal lungo viaggio e distrutto dall’orribile eccidio che riempiva i suoi occhi. Attese immobile, tentando di riprendere le forze, poi vide un bagliore tra gli alberi della foresta ed ebbe la conferma che anche lui era arrivato.

    Veloce come il vento e silenzioso come un’ombra, la sua presenza era tradita soltanto dall’aura celeste che lo circondava. In pochi secondi gli fu accanto ed il corvo si risollevò prontamente in volo. Insieme iniziarono a perlustrare il villaggio, frugando tra le ceneri ed ispezionando ogni singolo corpo. Proseguirono le ricerche per tutta la notte, setacciando ogni angolo, ma non trovarono né la donna, né la gemma, né un solo sopravvissuto.

    Era ormai prossima l’alba, quando infine si arresero e tornarono sulla collina. Il corvo si appollaiò sul ramo di un vecchio abete, sospirando sconsolato per la tragedia che non avevano potuto evitare. Lui si avvicinò e, guardandolo fisso negli occhi, si riprese il suo dolore. Una lacrima solitaria gli scese lungo la guancia, mentre diceva: Siamo arrivati tardi. Di nuovo. Vieni corvo, torniamo a casa.

    Era la prima volta che lo vedeva piangere e sentì la sofferenza che tornava a lacerargli il petto, ma questa volta il dolore era il suo. Gli volò mestamente sulla spalla e, con la morte nel cuore, si addentrarono nella Grande Foresta che riprendeva vita.

    Mentre al nord l’inverno volgeva al termine, nei territori meridionali la primavera era già arrivata da un pezzo. La volpe rossa si aggirava furtiva tra gli arbusti, già pregustando il sapore della caccia. Si muoveva attenta e silenziosa in cerca di una succulenta preda, quando, sbucando da un cespuglio, si trovò davanti una bizzarra creatura. Coperta da una pelliccia scura, giaceva inerte al centro di una piccola radura.

    Forse è morta, pensò annusando cautamente l’aria, ma non sento odore di morte. Più probabile che sia ancora in letargo.

    All’improvviso, un lieve alito di vento soffiò nella sua direzione, portandole un odore familiare, rassicurante ma allo stesso tempo inquietante.

    Un umano! Pensò allarmata bloccandosi all’istante, pronta a fuggire al minimo segnale di pericolo.

    No, non può essere un uomo, è troppo piccolo. Potrebbe trattarsi di un nano o di un cucciolo di umano. Comunque sia, non appartiene a queste terre e non è saggio restare nei paraggi.

    Alla fine, tuttavia, la curiosità ebbe la meglio e decise di avvicinarsi ancora un po’.

    Sì, è decisamente un cucciolo di umano, stabilì, quando si fu trovata a pochi passi dal fagotto. La pelle è troppo chiara e delicata, e poi i nani hanno il muso ricoperto di pelo fulvo.

    Nessuno, a parte gli animali, osava inoltrarsi in quel territorio tanto ostile, ma la sapienza degli alberi era infinita e tutti i figli della Foresta conoscevano la storia delle cinque razze di Galdash.

    La volpe, dunque, non aveva mai visto un nano in vita sua, ma sarebbe stata in grado di riconoscerne uno. Aveva già incontrato un umano, invece. Viveva da quelle parti, ma non lo vedeva da svariate lune. Era una creatura solitaria ed emanava un odore molto simile a quello del cucciolo che aveva appena trovato. Non le aveva mai fatto del male, ma, d’altro canto, gli uomini non mangiavano le volpi. Lo aveva visto cacciare, una volta, ed aveva avuto la conferma che si trattasse di un predatore freddo e letale. Le si era fermato proprio accanto, eppure non si era accorta di lui, fino a quando non era esploso il tuono. Un istante più tardi, un bel coniglio grasso era stramazzato a terra con un bastone piantato nel cuore.

    Non è prudente restare qui, pensò, ricordando la paura che aveva provato quel giorno. Gli umani non appartengono alla foresta e non portano mai niente di buono.

    Quasi a voler confermare i suoi timori, la creatura si mosse, emettendo un debole gemito. Spaventata, la volpe si gettò di corsa tra i cespugli. Si voltò un’ultima volta, con il cuore che le martellava nel petto, e vide che il cucciolo portava al collo una zampa d’uccello, proprio come l’altro umano.

    Forse tutti ne hanno una, pensò mentre già correva lontano.

    2.

    Un risveglio senza nome

    Immagini sfocate le scorrevano davanti agli occhi. Una donna le sorrideva. Un gatto bianco la guardava incuriosito. Di nuovo la donna che questa volta cantava. Una collina innevata alle spalle di una fila di capanne. Ancora la donna, ma questa volta sembrava spaventata. Una luce abbagliante proveniente dal suo petto. Grida confuse, fiamme, una foresta sterminata, poi più niente.

    Aprì gli occhi ancora stordita e si guardò intorno, ma vide soltanto alberi che peraltro non riconosceva. Non ricordava nulla. Come fosse arrivata in quel luogo, da dove venisse, quale fosse il suo nome. La sua mente era vuota come un sonno privo di sogni.

    Chi sono? si domandò smarrita, e dove mi trovo?

    Aveva freddo e si accorse di non indossare nulla, a parte una vecchia coperta ed uno strano ciondolo con una pietra nera che le penzolava al collo.

    Si alzò a sedere, stringendosi più forte nella coperta, mentre brividi di paura si mescolavano ai tremiti che già scuotevano il suo esile corpo nudo.

    Una borsa da viaggio le giaceva accanto, semi-sepolta dall’erba alta. La raccolse con mano incerta, scoprendo un braccio smagrito dalla pelle candida come la neve. Sembrava che il suo corpo non avesse mai incontrato il sole prima di quel giorno.

    Frugando nella sacca, trovò alcuni vestiti, un otre pieno d’acqua, qualche mela ed una pagnotta.

    Che cosa diamine ci faccio in mezzo al bosco senza nemmeno uno straccio addosso? si domandò confusa.

    Sola ed infreddolita, dispersa chissà dove e completamente nuda, si sentiva estremamente vulnerabile. Gli alberi, altissimi e maestosi, la circondavano come sentinelle silenziose. Benché non si udissero rumori di passi, sentiva il peso di centinaia di occhi puntati su di sé. Tormentata da un’ansia crescente, si infilò di corsa dietro un cespuglio ed iniziò ad estrarre i vestiti dalla borsa.

    Questa sacca non può essere mia, pensò, mentre ne esaminava più attentamente il contenuto. Questi sono abiti maschili e non sono della mia misura. Inoltre, sono tutti neri. Non si addicono per niente ad una bambina.

    Non poteva essere arrivata da sola in quel posto dimenticato dagli dei. Doveva esserci qualcun altro nei paraggi. Il padrone della borsa, con tutta probabilità, ma perché se n’era andato lasciandola addormentata ed indifesa?

    Chiunque sia, tornerà presto e mi spiegherà cosa stia succedendo, si disse fiduciosa. Non credo che si arrabbierà, se prenderò in prestito i suoi vestiti. D’altro canto, non posso andarmene in giro senza niente addosso!

    La blusa era davvero enorme. Le arrivava al di sotto delle ginocchia e le maniche le coprivano completamente le mani, ma il tessuto era caldo e morbido. I calzoni erano un po’ lunghi e decisamente troppo larghi, ma, fortunatamente, c’era anche una cintura. Tirandola fuori dallo zaino, notò che vi era agganciato un pugnale.

    Forse siamo usciti per una battuta di caccia e ci siamo persi, ipotizzò, estraendo l’arma dal robusto fodero di cuoio.

    L’elsa era stata ricavata da una roccia nera scolpita nella forma di un drago in volo. Il corpo sinuoso costituiva l’impugnatura, mentre le ali spiegate fungevano da paramano. La lama, lunga e sottile, fuoriusciva dalle fauci spalancate, dando l’impressione che il drago la tenesse stretta tra le zanne.

    Lo maneggiò con estrema cautela, poiché misurava oltre tre spanne di lunghezza e sembrava piuttosto affilato. L’impugnatura, fredda e levigata, si adattava quasi perfettamente alla sua mano di fanciulla. Provò una strana sensazione nello stringere quell’arma tanto bella quanto potenzialmente letale. Fu colta da un impulso incontrollabile e, senza alcun preavviso, il pugnale sfuggì dalla sua presa per andare a conficcarsi nel tronco di un albero ad una ventina di passi di distanza.

    Che le stelle mi aiutino! esclamò, muovendo un passo titubante verso l’albero, ma inciampò nell’orlo dei calzoni e rovinò malamente a terra. Che cosa mi sta succedendo? Non volevo lanciarlo! Avrei potuto ferire qualcuno! Come mi è venuto in mente di fare una cosa tanto stupida e pericolosa? Chi sono io? Che cosa sono io?!

    Le lacrime cominciarono a scorrere copiose, rigando le guance pallide, scendendo lungo il collo sottile, inzuppando la blusa che indossava ma che certamente non le apparteneva. Non fece alcuno sforzo per trattenerle. Al contrario, si lasciò andare e pianse.

    Pianse per quel luogo che non conosceva, per il misterioso accompagnatore che l’aveva abbandonata, per quel pugnale ribelle che si era impadronito di lei, per un nome che non riusciva a ricordare e per un passato che si era dissolto nel vento. 

    Passò quasi un’ora prima che riuscisse a calmarsi. Si rialzò a fatica, soffocando un ultimo singhiozzo ed asciugandosi il viso con una manica scura. Il pugnale era ancora lì, ignaro della tempesta che aveva scatenato, la lama lucente conficcata fino all’elsa nel tronco massiccio. La bambina senza nome lo osservò allibita.

    Non so come ho fatto a scagliarlo con tanta forza, ma non riuscirò mai più a tirarlo fuori di lì.

    Ci provò comunque e, con sua grande sorpresa, la lama scivolò fuori dal legno senza il minimo sforzo.

    Quante volte ancora mi dovrò stupire di te, Lama di Drago? sussurrò. Oh, fantastico, non conosco il mio nome, ma sono riuscita a darne uno ad uno stupido coltello! Vediamo se almeno mi puoi servire a qualcosa.

    Prestando attenzione a non ferirsi, tagliò una striscia dalla blusa, in modo da adattarla alla propria statura. Dal tessuto in avanzo ricavò due lacci, che si legò poi attorno ai polsi per bloccare le maniche. Infilò la blusa nei calzoni, li fermò con la cintura e vi agganciò il pugnale. Tornò a recuperare la borsa e ne tirò fuori quel che restava: un paio di stivali ed un mantello. I calzari le arrivavano sopra le ginocchia, ma non erano eccessivamente grandi. Vi infilò dentro i calzoni e li allacciò fino a metà, in modo che non le impedissero di piegare le gambe. Il mantello era lunghissimo e strisciava a terra, ma le dispiaceva rovinarlo, così decise di non tagliarlo, almeno per il momento.

    A parte le misere provviste, la borsa non conteneva altro, dunque vi ripose la vecchia coperta ed il tessuto nero avanzato dalla blusa. Mangiò metà della pagnotta ed una mela, poi fece ritorno alla radura in cui si era svegliata. Del suo ignoto accompagnatore non c’era nemmeno l’ombra, e le uniche impronte visibili erano quelle che provenivano dai cespugli in cui si era appena vestita.

    Temo che non verrà nessuno a prendermi, sospirò demoralizzata. E adesso che cosa faccio? Se sono venuta fin qui a piedi, il villaggio non può essere molto distante. Già, ma da che parte?

    Perlustrò la radura alla ricerca di qualche traccia che le indicasse la via da seguire, ma l’erba era troppo alta per individuare una pista e non si scorgevano sentieri battuti. Ad un tratto inciampò in qualcosa di rigido e per poco non cadde lunga e distesa. Si chinò a raccoglierlo, pensando ad un bastone o un ramo spezzato, ma si trattava invece di un lungo arco. A fianco, giaceva una faretra di pelle contenente una dozzina di frecce.

    Lo sollevò e ne osservò affascinata la fattura. I flettenti a doppia curvatura erano in legno scuro ed erano intarsiati con linee ricurve sovrapposte che ricordavano il soffio del vento. L’impugnatura era leggermente più chiara e molto piccola, come se fosse stata costruita per un bambino o per una donna. La corda era bianca e sottilissima, quasi trasparente, tuttavia appariva piuttosto robusta.

    Questa volta non fu l’arma ad impadronirsi di lei, ma sentì comunque un forte desiderio di provarla.

    So lanciare un coltello. Sarò anche in grado di tendere un arco? si chiese incuriosita, provando a tirare indietro la corda.

    Nonostante le dimensioni – era alto quasi quanto lei – l’arco era leggero ed incredibilmente flessibile, e riuscì a tenderlo senza fatica. Sull’altro lato della radura c’era un albero con un grosso buco nel tronco.

    Un bersaglio perfetto, pensò, incoccando una freccia.

    Non ebbe nemmeno il tempo di prendere la mira. La corda scattò con tanta violenza da farle perdere l’equilibrio, producendo il rumore di un impetuoso soffio di vento.

    Sentì un dolore pungente alla mano sinistra e si accorse che lo sfregamento della corda le aveva ferito le dita. Si affrettò a versarci sopra un goccio d’acqua per alleviare il bruciore, poi tagliò una nuova striscia dalla stoffa della blusa e l’avvolse attorno alla mano escoriata.

    Non credo affatto di essere portata per il tiro con l’arco, pensò con una punta di delusione, poi alzò lo sguardo e sgranò gli occhi: la freccia si era conficcata proprio al centro del grosso buco. O, forse, mi serve solo un po’ di pratica!

    Raggiunse l’albero per recuperare la freccia, ma non ci fu verso di estrarla dal legno. Dopo vari tentativi, sebbene a malincuore, fu costretta a rinunciare.

    Si caricò i pochi bagagli sulle spalle e decise che avrebbe cercato un ruscello.

    Tutti i villaggi sorgono nei pressi di un torrente. Devo soltanto trovarne uno e seguirlo fino alle prime case. Forse qualcuno mi riconoscerà, o avrà saputo della scomparsa di una bambina.

    Le chiome degli alberi erano incredibilmente fitte e non lasciavano filtrare che qualche debole raggio di sole, perciò era difficile orientarsi.

    Prenderò una direzione a caso e proseguirò sempre diritto. La foresta è rigogliosa in questa zona, quindi i corsi d’acqua devono essere numerosi. Prima o poi ne incontrerò uno.

    Non avendo altro su cui basarsi, si affidò all’istinto e si incamminò verso quello che credeva fosse il sud.

    3.

    La caverna abbandonata

    Il sole aveva già superato lo zenit, quando la fanciulla senza nome udì finalmente lo scroscio di un ruscello. Aveva bevuto l’ultima goccia d’acqua un’ora prima e la sete iniziava a tormentarla. Attraversò di corsa gli arbusti e si gettò in ginocchio sulla riva senza tante cerimonie. Immerse entrambe le mani nell’acqua fresca e bevve avidamente, gli occhi chiusi per la piacevole sensazione. Non appena la sete si fu spenta, riaprì gli occhi e rimase senza fiato a fissare la propria immagine che la guardava di rimando.

    I lunghi capelli castani e perfettamente lisci incorniciavano un viso pallido ed allungato. Le labbra fini erano di un rosa tanto tenue da risultare pressoché indistinguibili sulla pelle chiarissima. Gli occhi verdi, dal taglio sottile e lievemente obliquo, brillavano sbigottiti sul pelo dell’acqua.

    Dunque è questo il mio aspetto, pensò.

    Durante l’intera mattinata aveva tentato invano di ricordare il proprio nome, il proprio passato e gli eventi che l’avevano condotta nella foresta, ma non si era mai chiesta quale potesse essere l’aspetto del proprio volto. Ammirava incredula quel viso sconosciuto – che pure era il suo – quando un luccichio attirò la sua attenzione. 

    Il pendente che portava al collo dondolava leggero, sfavillante nella luce del sole. La piccola ne osservò l’immagine riflessa e si accorse con orrore che la pietra nera era scomparsa.

    Per tutte le stelle del cielo! L’ho perduta!

    La collana – assieme alla vecchia coperta – era l’unico oggetto che potesse affermare di possedere. Il resto l’aveva trovato nella radura, ma non poteva giurare che le appartenesse davvero.

    Mentre vagava tra gli alberi, aveva osservato spesso il bizzarro pendaglio nella speranza che potesse aiutarla a recuperare la memoria. Il ciondolo d’argento era modellato nella forma di una zampa d’uccello. I cinque artigli – tre nella parte superiore, due in quella inferiore – si chiudevano attorno ad una pietra nera, lucida e perfettamente rotonda.

    Si portò una mano al petto ed abbassò uno sguardo disperato sul pendente. Gli occhi smeraldo si spalancarono a dismisura nel vedere la pietra ancora stretta tra gli artigli d’argento. Eppure, sul pelo dell’acqua, la zampa d’uccello agguantava soltanto il nulla.

    Questa collana ha qualcosa di strano, pensò, infilando rapidamente il ciondolo sotto la blusa.

    Non si trattava certamente di un gioiello comune. La pietra in sé non sembrava particolarmente preziosa, ma il fatto che la sua immagine non venisse riflessa dall’acqua la rendeva in un certo qual modo speciale.

    Si guardò furtivamente attorno, quasi a volersi accertare che nessuno avesse assistito al curioso fenomeno. Assicuratasi di non essere stata sorpresa, si affrettò a riempire il piccolo otre e si rimise in marcia seguendo la riva in direzione della corrente.

    Camminò per tutto il pomeriggio, attingendo di tanto in tanto alle magre provviste che aveva con sé. La foresta sembrava diventare più fitta ad ogni passo. I piedi iniziavano a farle male, il mantello seguitava ad impigliarsi tra i rovi e l’arco strisciava a terra sbilanciandola ogni volta che sbatteva contro un sasso o una radice. Era sfinita e la luce cominciava ad affievolirsi.

    Devo assolutamente trovare un riparo prima che faccia troppo buio, pensò e, ignorando la stanchezza, si impose di accelerare il passo.

    Ad un tratto la vegetazione si fece impenetrabile e le fu impossibile proseguire.

    Non posso tornare indietro, si disse, così estrasse Lama di Drago e si aprì la strada con la forza tra rovi, rami ed arbusti.

    Il bosco sembrava vivo ed in continuo mutamento. Oltrepassato un cespuglio, un altro le si parava di fronte, sbarrandole la via e costringendola a cambiare direzione. Aveva l’impressione di muoversi all’interno di un labirinto dotato di una coscienza propria. Gli alberi parevano protendere i loro rami frondosi appositamente per ostacolarle l’avanzata ed allontanarla dal ruscello.

    Sudata e ricoperta di graffi, era quasi rassegnata a tornare sui propri passi, quando, uscendo dall’ennesimo groviglio di spine, si ritrovò all’interno di una vasta radura.

    I suoi occhi furono immediatamente catturati dall’enorme quercia che vi sorgeva al centro. Fiera e maestosa, l’immensa chioma dominava la piana come un possente sovrano degli alberi circondato da una schiera di sudditi riverenti. Centinaia d’uccelli dimoravano tra i suoi rami possenti ed un coro di cinguettii incessanti suggeriva un’aria di festa e serenità.

    Date le dimensioni, doveva essere molto antica, e la bambina senza nome vi si avvicinò timidamente, incapace di distogliere lo sguardo da quel meraviglioso spettacolo della natura.

    Sentendosi improvvisamente sola ed abbandonata, si lasciò scivolare tra le radici sporgenti, appoggiando la schiena al tronco nodoso in cerca di conforto. Milioni di foglie sfrigolavano nella brezza del crepuscolo, tinte di porpora dall’ultimo raggio del sole morente. I loro lievi sussurri giungevano incomprensibili alle sue orecchie, ma la fanciulla si sentì pervadere da un senso di pace.

    Fu proprio allora che la vide. Al limitare della radura, in netto contrasto con il verde circostante, si ergeva una collina spoglia e desolata. Sui fianchi scoscesi non cresceva nemmeno un singolo filo d’erba. Un’isola morta in un oceano di alberi.

    Il suo interesse, tuttavia, fu attirato da ciò che si trovava alla base del brullo pendio: una zona d’ombra di forma semi-circolare che poteva essere l’ingresso di una piccola caverna.

    Questo sì che è un colpo di fortuna! pensò rialzandosi a fatica.

    La lunga camminata aveva messo a dura prova le esili gambette, ed ogni passo verso la misteriosa apertura le strappava una smorfia di dolore.

    Si trattava realmente di una piccola grotta. Era buia e silenziosa, ma poteva benissimo essere la tana di qualche belva feroce. Raccolse un paio di sassolini e li lanciò all’interno, l’orecchio teso e pronta a fuggire al primo segnale di pericolo. Non accadde nulla, quindi, dopo alcuni istanti d’esitazione, si decise ad entrare.

    Avanzò con cautela, appoggiando una mano alla parete umida, in attesa che gli occhi si adattassero all’oscurità. La cavità si estendeva per una quindicina di passi. Non ci viveva alcun animale, ma qualcuno doveva averla utilizzata come rifugio.

    Forse un viandante di passaggio, o un vagabondo.

    Nei pressi dell’ingresso, si riconoscevano chiaramente i resti di un focolare. Accanto alla parete di fondo, un mucchietto disordinato d’erba secca ricordava un giaciglio di fortuna. Non c’era altro, dunque, chiunque fosse stato lì prima di lei doveva essersene andato da tempo.

    Posò a terra i pochi averi e si lasciò cadere esausta sul pagliericcio. Era duro e freddo, ma per una notte sarebbe stato sufficiente. Si sfilò gli stivali e sospirò di sollievo massaggiandosi i piedi stanchi. Aprì la borsa per controllare le provviste, ma non era rimasto un granché: mezza pagnotta ed un paio di mele ormai raggrinzite. Si accontentò del pane, conservando i frutti per il mattino seguente.

    Era quasi buio e tenere gli occhi aperti stava diventando un’impresa ardua. L’idea di passare la notte da sola in quel luogo sconosciuto la metteva in ansia, ma non aveva altra scelta. Non sarebbe riuscita a muovere un solo passo in più e non avrebbe comunque potuto proseguire nell’oscurità.

    Rassegnata all’inevitabile, accostò arco e frecce al pagliericcio e si distese avvolgendosi nella vecchia coperta. Seguendo un istinto primordiale, adagiò la mano sull’elsa di Lama di Drago. Non aveva incontrato anima viva durante il cammino ed era improbabile che qualcuno piombasse nella caverna in piena notte, ma la prudenza non era mai troppa.

    Quel posto aveva qualcosa di strano e chissà da quali bizzarre creature era popolato dopo il tramonto. L’intera faccenda, di per sé, non aveva alcun senso. Come era giunta nella foresta e, per di più, senza vestiti? Perché l’avevano lasciata sola? A chi appartenevano le armi e la borsa? Quali segreti nascondeva lo strano ciondolo che portava al collo? Cosa aveva causato la sua perdita di memoria?

    Un debole raggio di luna rischiarava la radura deserta, proiettando sulla grotta l’ombra imponente dell’antica quercia. Rasserenata da quella presenza silenziosa, la piccola chiuse gli occhi, tentando di dare una risposta ai mille interrogativi che le affollavano la mente. Stremata, ebbe appena il tempo di pensare "Chi sono io?" prima di scivolare nel dolce oblio del sonno.

    4.

    Una nuova casa

    Il corvo attendeva l’arrivo del suo compagno. L’aveva preceduto per sgranchirsi le ali, ma il lungo volo fino al villaggio lo aveva stremato. Si era posato su un ramo basso ed aveva chiuso gli occhi neri per godersi l’aria tiepida della sera. Sapeva che non l’avrebbe sentito arrivare, ma restò comunque sorpreso, quando, riaprendo gli occhi, si trovò davanti un’ombra scura che lo fissava.

    Andiamo corvo, non è il momento di riposare.

    Avevano viaggiato cinque giorni e cinque notti per raggiungere il villaggio, ma, al passo con cui procedevano ora, ne avrebbero impiegati il doppio per tornare indietro. Non si sarebbero fermati finché non fossero giunti al luogo che chiamavano casa. Stava succedendo qualcosa di strano laggiù. La gemma era tornata dal suo guardiano, ma non era stata la donna di Asten a portarcela. Era morta e con lei era svanito anche l’ultimo legame che avessero avuto con Galdash. Il suo posto era stato preso da un estraneo. Avrebbero indagato sulla sua identità e ne avrebbero scoperto le reali intenzioni, ma non c’era fretta. Senza il consenso degli alberi, l’intruso non sarebbe andato lontano.

    Ma c’era qualcos’altro nella foresta. Qualcosa di antico e dimenticato che si aggirava minaccioso tra gli alberi, portando con sé l’incubo dei tempi passati. Qualcosa che andava fermato. Qualcosa che avrebbero fermato. 

    Con un balzo elegante, il corvo andò a posarsi sulla spalla del compagno che aveva già ripreso il cammino. Chiuse gli occhi ed iniziò a contare i passi leggeri. Cullato dal movimento ritmico e regolare, si addormentò prima di arrivare a sette.

    La fanciulla senza nome aprì gli occhi e si guardò intorno disorientata. Gli avvenimenti del giorno precedente le piombarono addosso come un fiume in piena, e si sentì sperduta ed intimorita. Si alzò dal pagliericcio e corse fuori dalla caverna con le lacrime che le rigavano il viso.

    Il sole era già alto. La grande quercia si stagliava al centro della radura, imponente come un guardiano della foresta, le migliaia di foglie frementi nell’aria fresca del mattino. Le infondeva un senso di pace e sicurezza, dunque, come aveva fatto solo poche ore prima, si appoggiò al tronco maestoso.

    Le lacrime si asciugarono rapidamente, e, passato lo sconforto, si rese conto di avere una gran fame. Andò a recuperare la borsa, e fece colazione all’ombra delle fronde millenarie con le misere provviste che le erano rimaste.

    Stava addentando l’ultima mela, quando un leprotto fece capolino da un cespuglio poco lontano. Fermo ai margini della radura, ritto sulle zampette posteriori, annusava l’aria incerto. La fanciulla lo osservò rosicchiare timidamente un filo d’erba, le orecchie diritte ed attente al minimo segnale di pericolo. All’improvviso, un brontolio cupo ed insistente si levò dal ventre della piccola, e la bestiola, impaurita, scomparve con un balzo nel cespuglio da cui era venuta.

    Dovrei procurarmi qualche provvista per il viaggio, prima di rimettermi in marcia.

    Felice di avere un obiettivo, scattò in piedi e si guardò attorno. La radura era circondata da una vegetazione fittissima, e l’unico sentiero che poté scorgere fu quello che si era aperta a colpi di pugnale la sera precedente.

    Lo imboccò e si diresse verso il ruscello, dove il sottobosco si diradava. Fragoline selvatiche crescevano ovunque ed i rovi erano colmi di bacche succose. Dovevano essere piuttosto nutrienti, poiché, dopo che ne ebbe mangiate una decina, si sentì piacevolmente sazia. Ne raccolse fino a riempire un terzo della borsa, poi si avvicinò alla riva, le mani scure per il succo dolciastro.

    Si tolse la fasciatura dalla mano sinistra, e notò con sorpresa che le ferite si erano quasi rimarginate.

    Non erano molto profonde e sono guarite rapidamente, pensò, mentre si liberava del succo appiccicoso, ma se voglio ancora usare quell’arco, sarà bene che mi protegga le mani.

    Lavò accuratamente la benda improvvisata e tornò ad avvolgerla attorno alle dita, fasciandole ad una ad una, in modo che il tessuto non la impedisse nei movimenti.

    Stava per andarsene, soddisfatta della medicazione, quando un movimento nell’acqua attirò la sua attenzione. Un grosso pesce argenteo guizzava sereno, sfidando agilmente la spinta della corrente.

    Ehi, potrei provare a pescarne uno!

    Lungo la riva aveva notato diversi canneti e si diresse verso il più vicino. Con l’aiuto di Lama di Drago, recise una canna lunga e sottile, dopodiché ne appuntì un’estremità. Si sfilò gli stivali ed arrotolò i calzoni fino al ginocchio, quindi impugnò la lancia di fortuna ed andò a posizionarsi al centro del ruscello in attesa di una preda.

    Non dovette aspettare a lungo e, senza quasi pensarci, abbassò la canna con un movimento fluido e preciso.

    Accidenti, l’ho preso davvero! Esclamò sbalordita. Forse sono la figlia di un pescatore, ipotizzò, mentre risaliva la riva con il pesce ancora infilzato nella lancia.

    Sulla via del ritorno raccolse una bracciata di rami secchi, e, quando infine giunse alla radura, l’ora di pranzo era già passata da un pezzo. Era ancora sazia per la ricca colazione, quindi decise che avrebbe conservato il pesce per la cena. Avrebbe dormito nella caverna ancora per quella notte, e si sarebbe rimessa in viaggio alle prime luci dell’alba.

    La collina rocciosa, grigia e completamente spoglia, si ergeva alle spalle della grotta. Non era altissima, ma sovrastava la maggior parte degli alberi circostanti.

    Da lassù riuscirò sicuramente a scorgere il villaggio, si disse confidente, e magari anche il sentiero per raggiungerlo.

    Così pensando, si avviò di corsa verso il pendio. La scalata non fu affatto semplice. Sebbene non fosse molto ripida, la parete rocciosa era sdrucciolevole e totalmente priva di appigli. Le ci volle quasi un’ora per raggiungere la cima, e, quando finalmente vi arrivò, si gettò a terra esausta. Restò supina alcuni minuti ad ammirare le nuvole candide che si inseguivano nel cielo azzurro, godendosi il calore del sole sulla pelle e l’aria frizzante della primavera tra i capelli. Quando infine si rialzò, un brivido gelido le attraversò la schiena e tutte le sue speranze si dissolsero in un solo istante.

    La foresta, come un oceano, si estendeva senza fine in tutte le direzioni. Ovunque volgesse lo sguardo, non poteva vedere altro che una sterminata distesa di foglie.

    Questa foresta non ha confini, mormorò, mentre le chiome degli alberi danzavano incuranti davanti ai suoi occhi.

    Chi sono io? Si chiese sconvolta. Come sono finita in questo luogo dimenticato?

    Chi sono io? Domandò alla foresta che si prostrava ai suoi piedi, ma non ricevette risposta.

    CHI SONO IOOO? Gridò con tutto il fiato che aveva in gola.

    La sua voce di bambina, chiara e cristallina, riecheggiò sulla foresta in un’eco disperata. Poi si levò un soffio di vento che se la portò via.

    Stava già facendo buio, quando si lasciò scivolare giù dalla collina. Era rimasta seduta per ore sulla roccia fredda, scrutando gli alberi nella speranza di avvistare qualcosa. Il fumo di un accampamento, uno stormo di uccelli migratori, qualsiasi cosa che potesse indicarle una direzione, ma non aveva visto niente.

    Non aveva più senso riprendere il cammino. Non c’erano sentieri né villaggi nelle vicinanze. Non esisteva una via per lasciare quel luogo. Proseguendo alla cieca, avrebbe finito col vagare per l’eternità, o fino a quando non avesse incontrato la morte. Per mano di un predatore, magari.

    Aveva trovato un buon riparo e l’area era ricca di frutta e pesce. Non le sarebbe capitata due volte una tale fortuna. Inoltre, la grande quercia aveva il potere di riscaldarle il cuore, e, sebbene non potesse parlarle, era l’unico amico che potesse vantare. Dal momento che non poteva lasciare la foresta, non avrebbe rinunciato alla sua compagnia silenziosa.

    Mentre si avvicinava alla fredda caverna, una singola parola le salì alle labbra: casa.

    Il pesce morto, accanto al fuoco spento, fu l’unico ad accoglierla.

    Che bel benvenuto…, mormorò sconsolata, ma si fece forza e cercò di non lasciarsi sopraffare nuovamente dall’angoscia.

    Raggruppò un mucchietto di legna, e, dopo vari tentativi, riuscì ad accendere un timido fuocherello che si tramutò poi in una bella fiamma vivace.

    Non aveva molta fame, in verità, ma le sembrava un peccato sprecare la povera creatura, così l’infilzò con un bastone robusto e l’accostò al falò. In breve, l’intera grotta fu permeata da un delizioso aroma di pesce arrosto che risvegliò l’appetito della piccola. Non appena le parve cotto, lo tirò via dal fuoco e lo addentò con l’acquolina in bocca. Si scottò la lingua, ma aveva un sapore squisito e, alla fine, ne lasciò soltanto la lisca.

    Sazia ed appagata dal lauto pasto, si distese sul misero pagliericcio. Era sfinita, ma non riusciva a prendere sonno. La foresta sconfinata continuava a passarle davanti agli occhi. Alberi, foglie, un’allodola appollaiata su un ramo, uno scoiattolo davanti alla sua tana, un coniglio inseguito da una volpe, un rovo carico di bacche scure, alberi, foglie, alberi e ancora alberi, a perdita d’occhio…

    …un corvo nero come la notte volava leggero sulla sterminata distesa scura, le piume tanto lucide da riflettere il bagliore della luna piena. Gli occhi, un tempo piccoli e scuri, brillavano ora di un rosso acceso, come se un incendio stesse divampando nei suoi ricordi. Si posò sul ramo di un albero maestoso, dove la foresta veniva bruscamente interrotta da un pendio erboso. Ai piedi della collina, un tempo sorgeva un villaggio, ma non ne restava che cenere. Un’ombra si avvicinò, e gli occhi del corvo si tinsero di viola, blu, azzurro, sempre più chiari fino ad assumere il colore del ghiaccio. Ne cadde una lacrima che si tramutò in cristallo. L’ombra la raccolse e negli occhi del corvo tornò a specchiarsi la luna piena. 

    5.

    Pagine bianche

    La fanciulla senza nome si svegliò tutta indolenzita, ma si sentiva inspiegabilmente serena. Era impossibile lasciare la foresta, ed in cuor suo si sentiva già parte di quel mondo misterioso. Sarebbe rimasta e sarebbe divenuta una figlia degli alberi. La caverna sarebbe stata la sua dimora, la radura il suo giardino.

    Prima di tutto, però, dovrei rendere questo posto più confortevole, si disse, massaggiandosi la schiena dolorante. Prese una manciata di bacche dalla borsa e le assaporò con piacere uscendo dalla grotta buia.

    La grande quercia svettava maestosa nel cielo rosato, le foglie argentee scintillanti nella tenue luce dell’alba. Gli uccelli che dimoravano fra le sue fronde erano già pronti a lasciare i loro nidi, ed una sinfonia di cinguettii festosi salutava il sole nascente. Fra le enormi radici, l’erba cresceva alta e rigogliosa.

    L’ideale per imbottire il pagliericcio, pensò estraendo il pugnale, ma un senso di inquietudine la colse all’improvviso.

    Oh, guardiano della foresta, sussurrò, accostando una mano al tronco massiccio. Padre di tutti gli alberi, mi concederesti una parte del tuo morbido giaciglio?

    In risposta, si levò un alito di vento e la folta chioma prese ad oscillare dolcemente come in segno di assenso.

    Che sciocca sono! pensò, ma il disagio era svanito e si mise al lavoro.

    Un’ora più tardi, le pendici rocciose della collina erano ricoperte da una gran quantità di ciuffi verdi. Il sole primaverile era ancora debole, ma entro sera l’erba fresca si sarebbe tramutata in fieno profumato. Soddisfatta, la nuova figlia della foresta si allontanò sorridente alla volta del ruscello.

    Gli abiti maschili scivolarono sulla riva erbosa, lasciando emergere a poco a poco il corpicino minuto di una bambina. La pelle nivea fu percorsa da un brivido al contatto con l’acqua fredda che, salendo ad ogni passo, arrivò a lambire i fianchi smagriti.

    Nuotò a lungo, lasciandosi trasportare dalla corrente, per poi risalirla con movimenti impacciati.

    Non sono una gran nuotatrice, osservò con una punta di delusione, ma dopo un po’ di pratica le sue bracciate si fecero più sicure.

    Distesa al sole, ascoltava affascinata le voci della foresta, un coro armonioso riunitosi per dare il benvenuto alla nuova sorella. Quando si fu asciugata, raccolse il fagotto di abiti scuri e li indossò con pochi gesti rapidi. Sebbene non fossero adatti ad una bambina, erano piuttosto pratici e, specchiandosi nell’acqua, si ritrovò ad ammirare la propria immagine riflessa.

    Sembro proprio una creatura dei boschi, osservò compiaciuta intrecciandosi una margherita tra i capelli.

    Non poteva ricordare il proprio nome, ma era riuscita a crearsi un’identità, e, orgogliosa, si addentrò tra gli alberi in cerca di legna da ardere.

    La foresta brulicava di piccoli animali: lepri, conigli e fagiani si aggiravano guardinghi tra gli arbusti. Aveva persino scorto una volpe e decise che nel pomeriggio sarebbe andata a caccia. Provava un leggero rimorso al pensiero di uccidere le altre creature del bosco, ma, in fondo, quella era la legge dettata dalla natura: mentre la volpe si nutriva della lepre, doveva guardarsi dalle zanne del lupo.

    Tornata alla grotta, posò i rametti accanto al focolare, accatastandoli in una pila ordinata. Si caricò arco e frecce sulle spalle e ripartì per la sua prima battuta di caccia.

    Il cielo si stava rannuvolando e si sentiva un debole brontolio di tuoni in lontananza.  La fanciulla procedeva lentamente, cercando di non fare rumore, quando udì un fruscio provenire da un cespuglio alla sua destra. Si arrestò bruscamente, l’arco in pugno e le orecchie tese. Un coniglietto paffuto si affacciò dalle foglie e si fermò stupito a fissarla.

    Non posso ucciderlo, pensò, ma la freccia era già in volo.

    La povera bestiola, trafitta al cuore, si accasciò al suolo senza emettere un lamento. L’arma si era di nuovo impadronita di lei. La corda si era liberata dalla sua stretta e, producendo il sibilo di un soffio di vento, aveva scagliato la freccia dritta al bersaglio.

    Provò un senso di nausea al pensiero di mangiare quella creatura indifesa e, per un attimo, pensò di rinunciare alla cena e lasciarla lì. Un nuovo brontolio, però, proveniente dal suo stomaco, si aggiunse a quelli del temporale in arrivo.

    Ormai l’ho ucciso, dopotutto, si disse, cercando di auto-convincersi. Se non lo prendo io, lo troverà qualche altro predatore e finirà comunque per essere divorato.

    Tormentata dal rimorso, si caricò l’arco in spalla e fece per muovere un passo, quando uno schiocco secco risuonò tra i tuoni. Qualcosa si muoveva furtivo, appena oltre gli arbusti. Sembrava qualcosa di grosso e si avvicinava ringhiando. Sopraffatta dal terrore, rimase agghiacciata a fissare i ramoscelli che ondeggiavano al passaggio dell’ignoto nemico. Trattenne a stento un grido, quando, dalle foglie di fronte a lei, sbucò il muso di un grosso lupo grigio.

    Gli occhi scuri, fieri ed agguerriti, erano puntati direttamente su di lei. Le labbra arricciate scoprivano zanne lunghe ed affilate. Con le orecchie appiattite all’indietro ed il pelo argenteo ritto sulla schiena, mostrava chiaramente le sue intenzioni battagliere. Quello doveva essere il suo territorio, e la ragazzina lo aveva inconsapevolmente violato.

    Con il sangue congelato nelle vene, non riusciva nemmeno a respirare. Il cuore le batteva al ritmo di un cavallo imbizzarrito, e goccioline di sudore freddo le scendevano lungo il collo. L’istinto di sopravvivenza le intimava di voltarsi indietro ed iniziare a correre, ma la ragione le suggerì di restare immobile. Il minimo movimento avrebbe potuto scatenare la reazione feroce dell’animale.

    Il lupo sembrava pronto a sferrare il suo attacco da un momento all’altro, e la piccola, pietrificata, implorò in silenzio l’intervento di una qualsiasi delle divinità dei boschi.

    Non sono nemmeno sicura che esistano degli dei in questo posto, osservò stupidamente.

    Era un’idea assurda, date le circostanze, ma, quando ci si trova a faccia a faccia con la morte, i pensieri imboccano spesso le vie più strampalate.

    Ad ogni modo, qualcuno – o qualcosa – doveva aver udito le sue preghiere. Con un tempismo perfetto, si levò infatti un forte vento che distrasse la belva dalla sua facile preda. I tuoni risuonarono improvvisamente più vicini e le chiome degli alberi presero ad ondeggiare vorticosamente.

    Il lupo alzò lo sguardo al cielo, intimorito dalla violenza della natura, ed indietreggiò di un passo. Con la testa bassa e la coda tra le zampe, sembrava supplicare il perdono di un padrone autoritario. Dimentico della bambina, si voltò con un balzo e sparì nel fogliame, lasciando dietro di sé soltanto una scia di striduli guaiti.

    Il vento cessò di spirare rapidamente come si era levato, mentre la piccola si lasciava cadere in ginocchio. Si portò una mano al petto, quasi a volersi accertare che il cuore fosse ancora in funzione.

    Grazie, sussurrò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo.

    Non appena ebbe ripreso fiato e le gambe furono di nuovo in grado di reggerla in piedi, agguantò il coniglio e si lanciò di corsa alla volta della caverna.

    Quando giunse alla radura, cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia. Si affrettò a raccogliere il fieno – che nel frattempo si era seccato – e lo portò al riparo. Lo dispose sul pagliericcio e lo ricoprì con la vecchia coperta. Quella notte avrebbe dormito sul morbido.

    Accese il fuoco e, in attesa che la fiamma si alimentasse, si dedicò al coniglio. Impugnò Lama di Drago e, con mano tremante, praticò un’incisione sul ventre della bestiola. Iniziò a sfilare la pelle, facendo attenzione a non rovinarla – avrebbe potuto esserle utile – ma quando arrivò alle zampe si trovò in difficoltà. Per liberarsene, avrebbe dovuto recidere l’osso.

    Prese dunque la mira e calò il pugnale con un colpo deciso. La zampetta schizzò lontano, e la lama penetrò nella roccia sottostante per metà della sua lunghezza.

    Caspita! esclamò, massaggiandosi il polso dolorante per l’impatto. Come accidenti ha fatto a trapassare la pietra!? Devo stare attenta, o mi taglierò via una mano! E adesso come lo tiro fuori da lì?

    Impugnò l’elsa con entrambe le mani e puntò i piedi a terra per non scivolare. Fece un respiro profondo e tirò decisa. La lama scivolò docile attraverso la roccia come se fosse acqua, e la bambina finì lunga e distesa, perdendo la presa sul pugnale che le volò alle spalle terminando la sua corsa accanto al pagliericcio.

    O finirò per tagliarmi via tutta la testa! decretò, andando a recuperare l’indomita arma. 

    Maneggiandola con maggior cautela, riuscì infine a preparare il coniglio. Lo mise sul fuoco e, in attesa che cocesse, sedette sul pagliericcio ed appoggiò la schiena alla parete. Sentì la roccia cedere sotto il suo peso, e si voltò di scatto.

    La parete appariva liscia ed uniforme. Vi fece scorrere una mano senza risultato, quindi vi batté l’elsa del pugnale, ottenendo in risposta un suono sordo. Non si era sbagliata, doveva esserci una cavità nascosta.

    Corse a prendere una torcia dal fuoco, e scrutò eccitata ogni palmo della roccia, finché non riuscì a scorgere una fessura sottilissima. Non ebbe alcuna difficoltà ad infilarvi la lama ed estrarne un cubetto di pietra. Avvicinò la torcia all’apertura e vi guardò dentro, certa di trovarci un tesoro. 

    Il tesoro, in verità decisamente magro, consisteva in poche monete custodite in una sacca di pelle, un vecchio quaderno ed una piuma nera. Prese il tutto e si avvicinò al fuoco per un esame più accurato. 

    Aprì la sacca di pelle e contò quattro monete d’argento. Un po’ scarso come bottino, ma perché l’avevano abbandonato? A chi apparteneva? Sarebbero tornati a prenderlo? Decine di domande iniziarono a prendere forma nella sua testa, mentre si rigirava tra le dita la piuma nera. Era leggermente spelacchiata in punta, ma era tanto lucida da riflettere i bagliori delle fiamme. Per ultimo esaminò il quaderno.

    Di forma perfettamente quadrata, misurava all’incirca una spanna. La pelle che lo rivestiva era scura e sgualcita. Profonde venature si intrecciavano sulla superficie come ferite mai rimarginate. Doveva essere molto vecchio, e chissà quali arcani misteri custodiva. La fanciulla non era sicura di saper leggere, e d’altronde non era educato ficcare il naso negli affari altrui, ma la curiosità ebbe il sopravvento e alla fine l’aprì.

    Le pagine, completamente bianche, scorrevano davanti ai suoi occhi colmi di disappunto. Non vi era alcun segreto. Nessuna parola era stata scritta. La delusione iniziale si tramutò però in meraviglia, quando si soffermò ad osservarlo meglio.

    Sebbene non superasse le due dita di spessore, conteneva centinaia di fogli. Viscide al tatto, le pagine erano tanto sottili da risultare trasparenti. La piccola non ricordava nulla del proprio passato, ma era in qualche modo sicura di non aver mai visto una pergamena di tale fattura.

    Nessun inchiostro potrebbe mai fissarsi su una superficie tanto scivolosa. Le parole devono essersi dissolte da parecchio tempo ormai, mormorò, strappando l’ultima pagina e portandosela davanti agli occhi.

    Le fiamme, a pochi passi da lei, apparivano sfocate, come se si fosse levato un leggero strato di nebbia. Ammirava estasiata i contorni distorti della caverna, quando ad un tratto venne aggredita da un profondo senso di vergogna. Guardando la grande quercia attraverso quel velo sottile, le parve di spiare nei ricordi dell’intera foresta. Ritrasse di scatto la mano e s’infilò la pagina nella tasca dei calzoni, come se gli alberi l’avessero sorpresa a rubare.

    Qualcosa di antico si nascondeva in quelle pagine bianche. Storie

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