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L'uomo che scriveva "al lupo"
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Ebook435 pages6 hours

L'uomo che scriveva "al lupo"

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About this ebook

Daniele Salviati è un ragazzo riservato ed insicuro, che ha accantonato i suoi sogni per "adagiarsi" in un lavoro mediocre ed insoddisfacente, disilluso nei confronti di una monotona esistenza. La sua vita cambierà quando vedrà una ragazza della quale si innamorerà perdutamente. Nonostante la voglia di conoscerla, le sue paure lo freneranno nuovamente e quando lei scomparirà inspiegabilmente, Daniele si metterà sulle sue tracce disposto a tutto pur di ritrovarla. Senza sapere nulla di lei, neanche il suo nome. La sua disperata ricerca lo guiderà verso un incredibile percorso di maturazione, dove troverà un nuovo, tormentato amore e uno "strano" manufatto, che gli darà l'opportunità di salvare la vita al misterioso lupo.
LanguageItaliano
Publisherlfapublisher
Release dateJan 13, 2018
ISBN9788833430072
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    L'uomo che scriveva "al lupo" - Giuseppe Senese

    L’UOMO CHE SCRIVEVA AL LUPO

    di Giuseppe Senese

    GIUSEPPE SENESE

    L’UOMO CHE SCRIVEVA AL LUPO

    ISBN 978-88-3343-007-2

    PRIMA EDIZIONE CARTACEA 2016

    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Via A. Diaz n°17 80023 Caivano - Napoli – Italy

    Tel. e Fax 08119244562

    www.lfaeditorenapoli.it - www.lfapublisher.com - info@lfapublisher.com

    Partita IVA 06298711216

    Facebook, Twitter & Youtube: LFA Publisher

    PREFAZIONE DELL’AUTORE

    Come ogni buon libro che si rispetti, è bene sottolineare che ogni riferimento diretto a cose e persone è puramente casuale. Sono presenti ispirazioni a fatti di vita realmente vissuti dal sottoscritto, questo è certo: molti dei personaggi dell’opera, tra l’altro, possono contare su frammenti caratteriali di persone che ho realmente conosciuto. Quindi, non vuol dire che abbia fatto una copia 1:1 di ognuno di loro: il protagonista, per esempio, è parte di me, ma non è un clone del suo creatore, così come gli altri personaggi sono liberamente ispirati a persone che hanno fatto parte della mia vita, nonostante sussistano dovute e nette differenze rispetto alle controparti reali. Qualche riferimento velato ad una precisa identità in realtà, c’è. Eccome. Ma lascio l’identificazione di tali indizi alla curiosità e all’intuito di potenziali lettori e lettrici, nella speranza che questo romanzo possa intrattenervi e che riesca, in qualche modo, a fare il suo ingresso in un piccolo angolino della vostra anima. Ringrazio pubblicamente tutte le persone che mi hanno supportato durante la stesura di questo romanzo. Ringrazio Silvia per i suggerimenti dei nomi dei sottoparagrafi in latino (anche se il secondo titolo è VOLUTAMENTE sbagliato, per motivi citazionistici). Ringrazio i due Francesco e Sabatino per il supporto morale e tutti i loro consigli. Ringrazio Gianluca per la lettura in anteprima del romanzo. Ringrazio Mina per l’idea e il Sig. Antonio per l’aiuto alla realizzazione della copertina, creata infine magistralmente da Pietro Esposito. Ringrazio tutti gli artisti, gruppi musicali, videogames e affini per l’inesauribile fonte d’ispirazione che mi hanno fornito durante la scrittura del racconto. Ma soprattutto ringrazio la LFA Publisher per avermi fornito l’opportunità di pubblicare la mia prima Opera, e Flavia, per il suo infinito aiuto in fase di rifinitura del manoscritto. Senza di lei, L’uomo che scriveva al lupo non sarebbe stato lo stesso.

    Con affetto, Giuseppe Senese

    I - PRIMA VISIONE

    1.1– Il tormento di Cappuccetto Rosso

    L’essere umano è indubbiamente nato per combattere. Non importa se tali battaglie rappresentino una questione di vita o di morte. Ogni singolo uomo o donna sulla faccia di questa terra si desta dal proprio sonno per prepararsi a fronteggiare qualcosa o qualcuno. C’è chi si sveglia per combattere contro le difficoltà del proprio lavoro. Chi per dar da mangiare ai propri cari. Chi appoggiato ad un cassonetto della spazzatura per affrontare la fame e il gelo. C’è chi si sveglia per nascondersi da una qual- sivoglia entità atta ad attentare alla propria vita, e che sia la mafia, le multinazionali o la propria suocera, poco importa. E poi ci sono io, l’uomo che si svegliava ogni santissimo giorno per combattere contro il lupo. Non un lupo. IL lupo. In questo momento potreste pensare che il sottoscritto sia un cacciatore di pellicce, un soprav- vissuto ad una terrificante ambientazione postatomica à la Io sono leggenda, oppure un mitomane. Niente di tutto questo. Sapete cos’è il lupo di cui sto parlando? Cercherò di spiegarvelo nella ma- niera più semplice e concreta possibile: prendete tutte le vostre cot- te, tutti i vostri rammarichi, tutti i vostri sbagli, le vostre aspettative e i vostri desideri. Racchiudete tutto in un’unica sagoma, rappre- sentata dalla ragazza più bella che abbiate mai visto nella vostra inutile e miserabile esistenza. Ecco, questo è il lupo. Da come avre- te intuito, stiamo parlando di una lei: ciò che però rappresenta real- mente il lupo va ben al di là della donna che lo personifica. Insieme ad essa c’è una storia che sto per raccontarvi, fatta di pensieri, so- gni e parole, di riti, sorprese ed inibizioni. Di messaggi, tanti mes- saggi, tutti però contenenti le stesse lettere e le stesse due parole, modificate in base alla casualità, all’occasione e al contesto: "Al lupo". È una storia fatta di sogni, carta e morte. È una storia fatta di tanti incontri e di tanti eventi: alcuni si sono verificati, altri avrebbero potuto verificarsi, altri ancora non sarebbero mai potuti esistere; eppure ognuno di essi è stato estremamente importante per me, nessuno escluso, anche se molti di questi, inizialmente, mi apparivano esclusivamente deleteri. Anche questo è il lupo: imparare a trarre insegnamenti positivi soprattutto dagli eventi che ci hanno fatto più male, che siano avvenuti o meno; scindere ciò che è real mente giusto o sbagliato per noi. Cappuccetto Rosso, grazie al lupo, ha avuto l’occasione d’imparare a non fidarsi, ad individuare le maschere e a stracciarle dai volti reali delle persone, ma per ottenere tale, inestimabile occasione, è dovuta cascare in pieno nella trappola. Bisogna prima crollare all’interno del fosso per poter avere l’occasione di risalire. E credetemi, il lupo c’è riuscito. La storia che sto per narrarvi è comunque fantastica, in tutti i suoi aspetti, che siano positivi o negativi, che siano immaginari o meno. E sen za di lei, il lupo, probabilmente non l’avrei mai potuta vivere, o per lo meno, l’avrei vissuta in maniera totalmente differente, forse maggiormente positiva, forse completamente anonima. Ma adesso è inutile crogiolarsi in tali supposizioni, è inutile riflettere ed ana- lizzare ciò che non è stato, ed è altrettanto insensato ipotizzare che se le cose fossero andate diversamente, le nostre vite si sarebbero rivelate migliori di quelle che sono adesso. Perché il futuro è ancora lì, a portata di mano, e solo vivendolo con atti concreti ed essen- ziali possiamo trasformarlo perlomeno in qualcosa di diverso, non necessariamente vantaggioso o svantaggioso. Tutte belle parole le mie, estremamente difficili da applicare alla realtà di tutti i giorni: il lupo è anche questo. Ciò che è stato. Ciò che non è stato. Ciò che sarà. Per capire ciò che non è stato bisogna sempre partire da ciò che è stato, quindi mi sembra nell’ordine naturale delle cose rac- contarvi il tutto dal principio; volendo potrei liquidare l’intera que- stione partendo direttamente dal finale, ma esso non acquisirebbe alcun senso senza tutto ciò che c’è dietro. E soprattutto ciò che non c’è, dietro...

    Il Cappuccetto Rosso della nostra storia ha visto il suo stramale- detto lupo, per la prima volta, ad un corso di Grafica Pubblicitaria, nella maniera più banale immaginabile da mente umana. Io e il mio amico di una vita, Ricky, ci eravamo iscritti ad uno di questi celebri e fantomatici corsi; ti promettevano mari e monti, tra insegnamenti completi e diplomi prestigiosi, perfetti per potersi inserire nel mon-do del lavoro a pieno merito. Tutto questo, ovviamente, richiedeva un costo: un costo esoso. Fortunatamente, le nostre condizioni eco- nomiche erano ormai tali da poterci permettere tale spesa, ma il prezzo finale che avrei pagato sarebbe andato ben oltre la mera questione economica. Quella giornata iniziò come tutte le altre: una bella doccia di primo mattino e una rasatura ad hoc per eliminare quei fastidiosi peli di barba che m’ero ritrovato; allo specchio co- minciavo a scorgere mestamente i primi segni della vecchiaia, ri- scontrando timide apparizioni di filamenti bianchi tra la mia folta chioma capelluta. In quel cespuglio di capelli neri, i fili biancastri contrastavano il resto, e almeno radermi la barba mi avrebbe per- messo di guadagnare ancora quel minimo di gioventù che m’era ri- masta in riserva. Il tempo di infilarmi una t-shirt color cenere e le mie scarpe da ginnastica nere che eravamo pronti ad affrontare una nuova giornata, contornata da quel pizzico di novità che il corso ci avrebbe regalato. Era appena finita l’estate, nell’aria si respirava ancora quell’asfissiante sensazione di afosità e nelle nostre menti imperversava ancora, inesorabilmente, l’ultimo tormentone estivo. Era targato Las Ketchup, un nome che non avremmo sentito mai più, come tanti eventi che ci colpiscono per poi rintanarsi nell’angolino del dimenticatoio; ciò non sarebbe accaduto per quel corso. Quello, ce lo saremmo ricordati a lungo. Compreso Ricky, testimone vicino e diretto del mio viaggio verso la paranoica ossessione sul lupo.

    Erano giunte le 14 circa. Arrivati nei pressi del grosso grattacielo che ospitava il luogo ove si svolgevano i corsi professionali, scor- gevamo in lontananza il calore tremante emanato dall’asfalto, ed ascoltavamo il frenetico ronzio delle auto che transitavano in quella zona trafficata, con costruzioni in color pastello; si respirava quasi l’aria della vernice di quegli appartamenti, sintomo della loro re- centissima costruzione. Ci trovavamo in una zona nuova, all’avan- guardia, e il respirare quella ventata di novità e vivacità ci regalava nuovo vigore. Tra una battuta e l’altra, io e Ricky ci apprestavamo ad entrare nel grattacielo che dominava quella zona, il quale, fuso con la vivacità degli appartamenti che lo attorniavano, dava all’ambientazione un mix affascinante tra l’innovativo e il creativo. Un’atmosfera perfetta per introdurci ad un corso che ci avrebbe re- galato i mezzi per esaltare la nostra creatività.

    Superata la porta scorrevole automatica posizionata all’ingresso, ci ritrovammo in un salone di medie dimensioni, dalle tinte scure e rossastre. Al centro di esso campeggiava un gabbiotto, dove avrem- mo potuto chiedere informazioni sulla nostra destinazione.

    «Mi scusi, a quale piano si tengono i corsi di grafica pubblicita- ria?» domandai al signore dietro al gabbiotto.

    «Quarto piano».

    «Ok, la ringrazio».

    L’ascensore richiedeva per il suo funzionamento l’inserimento di una monetina da pochi centesimi. Il piccolissimo sovraprezzo era giustificato dal perfetto stato di mantenimento in cui si trovava l’apparecchio: pulito sia per terra che sulle pareti, l’ascensore era persino dotato anche di un piccolo monitor in led che c’indicava il piano in cui, attualmente, ci trovavamo.

    «Non è difficile intuire il motivo per cui tali corsi costino così tanto» esclamò Ricky con fare piuttosto polemico.

    «Beh, l’importante è che il corso c’insegni qualcosa di concre- to».

    «Se non ti distrai come fai di solito qualcosa la impari di sicuro, Dany!».

    «Si tratta di un argomento nuovo, di qualcosa che mi stimola, sarà davvero difficile per me distrarmi, credimi» esclamai con un’arroganza di cui, in futuro, me ne sarei vergognato enormemen- te.

    Arrivati a destinazione, ci accingevamo a muoverci all’interno del salone, trovando proprio di fronte a noi alcune grosse frecce, delle quali una, in particolare, indicava fin troppo esplicitamente la direzione che avremmo dovuto prendere. Girare a destra, grazie. Dopo qualche metro ci si parò di fronte ai nostri occhi una porta di legno con una grossa insegna metallica affissa, la quale indicava il nome del corso. Suonai il campanello alla mia sinistra, il quale emise un suono insolitamente dolce e poco aggressivo: un din don fortunatamente diverso dalle solite strimpellate acute ed irri- tanti emesse dalla stragrande maggioranza dei campanelli. Dopo pochi secondi una donna sulla trentina ci accolse accompagnandoci all’ingresso.

    «Buongiorno, siete per il corso?».

    «Sì» risposi alla donna.

    «Prego, accomodatevi».

    Appena entrati potevamo scorgere l’enorme stanza in cui avrem- mo seguito il corso: delle grosse vetrate rendevano visibile tutto ciò che c’era al suo interno. Interminabili file di computer s’avvicendavano per tutta la camera, capitanate all’estrema sinistra da una grossa scrivania e da un enorme telo su cui, presumibilmente, sarebbero apparse le immagini emesse dal video proiettore. Nella stanza dei computer non c’era ancora anima viva: eravamo arrivati in netto anticipo, ma tale circostanza non ci persuase nell’evitare di domandare se effettivamente il corso si teneva nella giornata odier- na.

    «Certo, il primo giorno di corso si tiene oggi. Siete arrivati piut- tosto presto, vedete che tra qualche minuto arriveranno anche gli altri».

    Benissimo, un’ottima occasione per socializzare anche con i nostri nuovi compagni di corso, pensai tra me e me. Questi sareb- bero infatti arrivati gradualmente, in poche unità, e magari in attesa dell’inizio della prima lezione avremmo potuto parlare di argomen- ti vari per intrattenerci, e quindi, socializzare.

    «In attesa dell’arrivo degli altri, mi date i vostri nomi e i vostri documenti? Così controllo se è tutto in regola» ci richiese la donna.

    «Daniele Salviati» e le porsi il documento.

    «Riccardo Bentivoglio» e Ricky fece lo stesso.

    La donna controllò velocemente al PC che tutto fosse in regola.

    «Ok, perfetto. Nell’attesa potete accomodarvi su quel divano op- pure sistemarvi già all’interno della stanza con i computer».

    «Perfetto, grazie mille!» le rispondemmo io e Ricky.

    Il mio amico preferiva sistemarsi già davanti ai computer, nono- stante io apparissi subito abbastanza contrario all’idea.

    «Dany andiamo già a sederci dentro, così ci sistemiamo».

    «No dai, accomodiamoci sul divano. Così aspettiamo pure qual- cuno che arriva».

    Ricky seguì il mio suggerimento e dopo appena un minuto il soave campanellino suonò nuovamente. All’uscio si presentò un si- gnore di mezza età, stempiato, con una folta barba e degli occhiali stile anni ’50, quelli con i vetri a fondo di bicchiere, come si suole dire. Quella specie di binocolo celava leggermente i suoi grossi oc- chi marroni, scavati ma estremamente vispi. La donna addetta al controllo fece intraprendere all’uomo la stessa prassi eseguita da me e Ricky; quel signore decise quindi successivamente di acco- modarsi già all’interno della sala con i computer. Tale gesto inizial- mente scoraggiò la mia voglia di fare amicizia, vista la mia ferma volontà nel fare subito nuove conoscenze una volta giunto lì: la mia decisione di aspettare sopra quel divano aveva invece ricevuto il suo primo riscontro fallimentare. In tutti quegli anni non avevo ancora imparato che le amicizie non sempre nascono a prima vista; avevo troppa voglia di appagare la mia fame sociale. Davvero trop- pa. Ciò coincideva con una fretta ansiogena che risultava solo ed esclusivamente dannosa, e che faceva scaturire l’effetto opposto a quello che volevo ottenere: alla fine della fiera, me ne stavo rinta- nato nel mio io. Eppure non sono mai stato un tipo estremamente goffo ed impacciato: non potevo certo vantare una personalità par- ticolarmente brillante, ma nel mio fare sono sempre risultato piut- tosto cortese ed educato, anche se ho sempre avuto la tendenza a crearmi più problemi del dovuto. Per ogni cosa. Ciò mi limitava in certe azioni di pura e spontanea volontà, tra cui quelle della conoscenza; in quel periodo, tra l’altro, la mia cerchia di amici s’era praticamente azzerata, se si esclude la presenza costante di Ricky, il mio mentore e la mia spalla sin dai tempi delle elementari. Ciò aveva drasticamente abbassato il mio livello di autostima e, conse- guenzialmente, le mie attitudini d’approccio con gli altri s’erano man mano indebolite, conferendomi paradossalmente maggior volontà nel voler conoscere le persone, ma minor forza per farlo. Ecco perché quando entrarono nella sala quelle tre ragazze mi sen tii spinto nel provare ad approcciarle, senza sapere quale metodo fosse il più giusto. Le tre nuove arrivate, così come quel signore, si diressero direttamente all’interno della stanza con i computer.

    «Dany ma perché non entriamo pure noi lì dentro? Così ci siste- miamo».

    «Esatto, la stessa cosa che ho pensato io. Andiamo».

    Una risposta che, evidentemente, spuntò fuori dalla mia bocca con un sottile carico di rabbia; una rabbia comunque percepibile, come Ricky mi fece notare.

    «Va bene, va bene, non c’è bisogno di alterarsi in questo modo!» mi rispose mentre ci dirigevamo verso la stanza con i computer.

    «Vabbé, ho parlato un po’ più ad alta voce per rimarcare il mio pensiero, lo stesso tuo, insomma».

    In realtà credo fossi rimasto infastidito dal fatto che lui avesse anticipato le mie intenzioni di entrare finalmente nella sala, e che alla fine la mia idea di socializzare standomene seduto su un diva - no fosse clamorosamente fallita. Entrati nello stanzone con i com- puter, decisi di sedermi dietro le tre ragazze entrate dopo il signore di mezza età. Avrei voluto sedermi vicino a loro, ma avevo l’asso- luta certezza di dare l’impressione di volerci provare, apparendo quindi fastidioso. Per mia fortuna la montagna andò da Maometto e l’input per attacar bottone con gli altri scaturì proprio da una do- manda che ci fece il signore di mezza età.

    «Scusatemi, vi posso fare una domanda?» si rivolse a me e Ric- ky con atteggiamenti timidi ed una voce particolarmente bassa.

    «Certo» rispose il mio amico.

    «Ho letto bene o male il programma del corso, e ho notato che alcune cose non le ho mai sentite nominare! Credete siano di diffi- cile apprendimento? Serve qualche conoscenza di base in particola- re?».

    «Non si preoccupi. Sono solo argomenti che si sommano a quelli precedenti. Basta aver capito bene quelli per comprendere il resto. Io e Dany già sappiamo bene o male come funziona, e se nel caso dovesse avere qualche difficoltà, l’aiutiamo noi».

    Ricky è sempre stato meno loquace del sottoscritto, ma in ogni occasione sapeva (e sa ancora) esattamente cosa dire, e soprattutto, era (ed è) perfettamente conscio di quando aprir bocca. A differen - za mia. Le tre amiche iniziarono a discutere insieme a noi sugli ar- gomenti, intavolando una piacevole conversazione, seppur breve. Durò poco, anche perché da lì a qualche minuto sarebbe entrato il nostro insegnante, il quale si presentò in maniera fredda, ma pro- fessionale, giungendo in aula in perfetto orario.

    «Bene, aspettiamo un altro po’ i ritardatari, sperando non si sia- no persi nel grattacielo».

    Una breve e fioca risata partì dalle bocche dei pochi presenti, ap- propriato accompagnamento di un’ironia tanto arrogante quanto subdola. In cinque minuti, progressivamente, arrivarono gli altri: un ragazzo vestito alla moda dell’hip hop, con berretto inverso e pantaloni larghi; una signora sulla quarantina, molto elegante nell’aspetto e nel portamento; due ragazze piuttosto giovani, di cui una di esse sfoggiava un vistoso ciuffo tra i capelli di color verde; due ragazzi vestiti come dei rappresentanti di un noto marchio di aspirapolveri; una ragazza dai capelli leggermente mossi, con dei perfetti lineamenti del viso e un portamento ancora più elegante della donna sulla quarantina; tanti altri. Il nostro insegnante decise di presentarsi quando entrarono nella stanza all’incirca una quindi- cina di persone.

    «Mi chiamo Michele Frasconi, sarò il vostro insegnante e vi in- segnerò tutti i trucchi per diventare degli ottimi grafici. Non impa - rerete esclusivamente a realizzare i vostri lavori in ambito pubblici- tario: l’obiettivo del corso è quello di illustrarvi tutte le tecniche da applicare per qualsivoglia lavoro grafico che si rispetti, indirizzan- dovi progressivamente verso le tecniche per attirare il pubblico e rendere il messaggio da distribuire il più impattante possibile».

    La sua padronanza di linguaggio era estremamente didascalica, oltre che minuziosamente precisa: tale approccio rendeva le spiega- zioni dettagliate e chiare, anche se parzialmente noiose, visto che erano accompagnate da un tono di voce rauco e pignolo. Su quel metro e novanta era distribuita una sagoma elegante e ben definita.Mi girai dietro per vedere quanto s’era riempita l’aula, visto che io e Ricky ci eravamo posizionati in terza fila. Ed è in quel momento che incrociai nuovamente lo sguardo dello stramaledetto lupo. I miei occhi rimasero incollati sul suo volto per un tempo difficil- mente quantificabile, interrotto bruscamente dal movimento dei suoi occhi, diretti verso di me. Fu in quel momento che le mie pu- pille e il mio collo decisero di distaccarsi da quella figura lupesca, in maniera brusca ed imbarazzata.

    Ebbene sì. Tra tutte quelle persone che in precedenza vi ho de- scritto c’era anche lei, miei cari amici. Secondo voi chi era? La donna di mezza età? La ragazza col ciuffo verde? L’amica della ra- gazza col ciuffo verde? La ragazza con i capelli leggermente mossi, con i perfetti lineamenti del viso e il portamento ancora più elegan- te della donna di mezza età? Dopo avervi elencato questa lista di descrizioni, avrete certamente capito che il lupo corrisponde alla ragazza descritta da me per ultimo, sia precedentemente, che ades- so. Durante la lezione sentivo l’irrefrenabile voglia di girarmi di nuovo, gesto che ripetei altre due volte; cercai di roteare la testa in maniera meno vistosa, circa ad ore tre, voltando furtivamente la schiena e la spalla destra fino a quando non riuscii a scorgere la sua sagoma, per poi tornare immediatamente con la testa dentro al monitor, senza che lei potesse accorgersi della mia attenzione. Al secondo tentativo, incuriosito, si girò anche Ricky verso la mia direzione, esternando la sua perplessità sottovoce.

    «Che è successo lì dietro? Vedo che ti sei girato già un paio di volte!».

    «Niente, volevo vedere quanta gente c’era. Non è un’aula di uni- versità, ma ci sono comunque parecchie persone».

    «Ecco, cominci già a distrarti» annotò Ricky con un sorriso bef- fardo appena accennato.

    La lezione terminò dopo le sue canoniche due ore, e onestamente non ricordo se il mio sguardo fosse caduto nuovamente o meno sul dannato lupo. Era stata solo una fugace visione. Tutto qui. Io e Ric- ky c’incamminammo sulla strada del ritorno verso casa parlando di tutto, tranne che della lezione. E del lupo.

    «Secondo me le colpe non sono tutte di Moreno. Trapattoni non è riuscito a gestire bene il dualismo Del Piero-Totti, e se Vieri non si mangiava quel gol a porta vuota…»

    «Ok, ma non puoi non dare il rigore su Totti! Dai, si vedeva pro- prio che la partita era pilotata, avremmo potuto vincere, ma gioca vamo 11 contro 12!».

    «Vabbé dai, abbiamo una grande squadra, ci rifaremo sicuramen- te agli europei. Non possono capitarci sempre situazioni al limite del complotto! Mica possiamo sempre beccare la Corea!».

    Sì, come no. Nel 2004 sarebbe successo di peggio. Ma al biscot- to tra Svezia e Danimarca ci torneremo dopo.

    Il corso di Grafica Pubblicitaria si svolgeva due volte a settima- na, il martedì e il giovedì, dalle 14:00 alle 16:00, e dopo la prima lezione io e Ricky eravamo pronti per la secoonda. Stavolta ci presentammo solo cinque minuti prima, eppure eravamo ancora una volta i primi ad essere giunti sul posto. A differenza della volta precedente, prendemmo subito posizione nella sala dei computer, senza indugiare sul divano del salone. Il signore di mezza età con la barba, il Sig. Federico, si sedette proprio alla destra di Ricky, salutandoci in maniera composta e sorridente. Iniziammo a conoscerlo, ed anche lui ad un certo punto cominciò ad inserirsi nei nostri discorsi. I miei occhi, nel frattempo, danzavano da un lato all’altro della stanza come se stessi assistendo ad una partita di Ping Pong; mentre discutevamo insieme al Sig. Federico, gli altri studenti del corso si apprestavano ad entrare all’interno dell’aula, con il mio sguardo che cominciava a fossilizzarsi sui volti degli entranti. Rivederli dopo un paio di giorni mi permise di scannerizzare e memorizzare più facilmente le loro facce, già a me comuni, ma ancora sbiadite nella mia memoria. Nel frattempo i tre dell’Ave Maria, nella fattispecie io, Ricky e il Sig. Federico, continuavamo a discutere. Quest’ultimo, soprattutto, non si trattenne nell’esprimere le sue perplessità nei confronti di Frasconi.

    «Questo corso mi piace, ma il nostro professore è troppo noioso.

    Non ti fa appassionare alla materia!».

    «Già. Io e Dany proprio di questo discutevamo». Io, però, feci capire che la pensavo diversamente.

    «Mah, io ribadisco il fatto che non bisogna essere per forza spiri- tosi e divertenti per rendere interes…» «…interessante la lezione» completai la frase.

    A distanza di quel momento infinito di silenzio il mio tono di voce aveva cambiato completamente registro: prima dell’interru- zione parlavo in maniera loquace e convinta. Dopo l’interruzione il volume s’era abbassato notevolmente, manco si fosse guastata una cassa. Durante, c’era il lupo. Il fluire del mio ragionamento aveva infatti subito una brusca frenata dopo che il mio sguardo da Ping Pong s’era soffermato su quella visione, sull’ingresso in stanza di quell’incantevole ragazza. Poi riuscii ad agguantare nuovamente il filo del discorso, ma con tono dimesso e preoccupato. Ricky e il Sig. Federico continuavano a dialogare come se nulla fosse accadu- to, ed anch’io provai a destare in loro la stessa impressione: ma dentro di me c’era una turbolenza fatta di emozioni e di tensioni. Era come se fuori stesse splendendo il sole e dentro si stesse scate- nando un acquazzone di noèniana memoria. Ma in quel momen- to, avevo ancora l’ombrello. La fase paranoica non era ancora iniziata, il lupo non era ancora nato. Lei era lei, non era ancora lo stramaledetto lupo. La lezione iniziò senza particolari intoppi, ma non riuscii a seguirla con la dovuta attenzione. Stavo iniziando a programmare le mosse da effettuare per avvicinarmi a lei. Dovevo sembrare il meno interessato possibile, dovevo fare in modo che il nostro incontro fosse scaturito dal caso e non da una mia precisa volontà, dovevo trovare una scusa per rivolgerle mezza parola, do- vevo comunque dare priorità a Ricky, non potevo correrle dietro, così, senza alcun senso. La lezione finì, e mentre ci accingevamo a spegnere i computer, il mio sguardo si proiettava a scatti rapidi sul- la destra, fino a scorgere la sagoma del lupo allontanarsi ed inca- strarsi tra quelle degli altri, per poi dissolversi nel nulla.

    C’incamminammo verso la strada del ritorno a casa. I discorsi tra me e Ricky, stavolta, esulavano dalle tematiche calcistiche, an- dando a toccare tasti molto più dolenti.

    «Riccardo cosa penseresti di me se mi vedessi parlare, così, d’improvviso, con uno sconosciuto?».

    «Come mai mi hai chiamato Riccardo? Sono secoli che non mi chiami così!».

    «Tu rispondi alla domanda. Cosa penseresti?».

    «Cosa dovrei mai pensare?».

    «Tu rispondi».

    «Beh, non ci farei molto caso. E se ci facessi caso penserei che tu conosca già quella persona. Che ne so, un compagno di classe del liceo, un amico o un’amica dei tuoi genitori».

    «Ecco. Non penseresti mai che quella persona non la conosca nella maniera più assoluta!».

    «Dany non riesco a seguirti. Spiegati meglio».

    «Cioè… quello che voglio dirti… è che fare una cosa del gene- re… è strano».

    «Ma cosa, Dany? Parlare con gli sconosciuti?».

    «Beh, sì…».

    «HO CAPITO!».

    «Cosa?».

    «TI PIACE UNA RAGAZZA!».

    «EH? MA COME TI È VENUTA IN MENTE UNA SCIOCCHEZZA SIMILE?».

    «Ah-ha! Ti ho beccato, furbacchione! C’è una ragazza che ti pia- ce e la vuoi conoscere!».

    «N…no… no, no! Che dici… ed anche se fosse, tu come ti com- porteresti?».

    «In che senso Dany?».

    «No… dico… come proveresti ad avvicinarla e conoscerla?».

    «Mi sorprende il fatto che tu mi faccia una domanda simile. Non sei mai stato un tipo che ha avuto problemi a conoscere le ragazze. Certo, hai avuto grosse grane nel rapportarti a loro, ma non nel co- noscerle».

    «Questo perché quelle poche ragazze per cui ho provato interes- se facevano solitamente parte di un gruppo di persone che già co- noscevo. E non sono mai piaciuto a nessuna di esse».

    «Mah. Comunque onestamente io proverei ad avvicinarmi con un pretesto, piano piano, in maniera progressiva. Magari sedendo- mi vicino a lei, o nelle vicinanze, domandandole qualcosa inerente al contesto in cui si trova».

    «Tipo?».

    «Tipo, per esempio, se c’è una ragazza che ti piace al corso di Grafica Pubblicitaria, potresti sederti vicino a lei e chiederle infor- mazioni su un argomento che non hai capito bene. Così. Per attac- care bottone».

    «… Oppure?».

    «Oppure se questa ragazza l’hai conosciuta nell’ufficio dove la- vori potresti chiedere a tuo padre informazioni su di lei. So che ti dà fastidio discutere con lui di queste cose, ma una volta tanto datti un pizzico sulla pancia».

    «No, no… intendevo… oppure, sempre nel corso di Grafica…».

    «Aaaah ma ti piace una ragazza lì, e allora dimmelo subito! Puoi provare a fare come ti ho detto io!».

    Il discorso si chiuse lì, in maniera brutale e poco pulita, come se avessimo staccato la spina di getto, come se avessimo voluto chiu- dere un animale infuriato dentro ad uno scrigno, buttandolo poi dentro ad un fiume. Chiudere un lupo, dentro ad uno scrigno.

    Quando non c’era il corso, la mia vita andava avanti con la solita routine: lavoravo nell’ufficio con mio padre per aiutarlo nelle sue commissioni, anche se per ora risultava solo un impiego part time, visto che fino a qualche anno prima ero ancora indaffarato con gli studi universitari. In quel presepe vivente di impiegati indaffarati, segretarie isteriche e inservienti zotici ho imparato ad apprezzare poche persone, tutte certamente da ricordare.

    Modestino, per esempio, era l’unico degli inservienti ad avere un minimo di simpatia, oltre ad essere notevolmente intelligente, no- nostante il suo basso livello culturale.

    Patrizia era la miglior segretaria che avessimo mai avuto in tanti anni, e in quel periodo, in quel maledetto 2002, si era presentata proprio al momento giusto. Era giovane e inesperta, dicevano. Ep-

    pure ha mostrato molta più professionalità e correttezza di altre sue colleghe ben più esperte e rinomate.

    Elena non suscitava subito simpatia, vista la sua suscettibilità e il suo orgoglio, ma era una santa donna, oltre ad essere incredibil- mente creativa e sensibile. Avrebbe potuto tranquillamente seguire il corso insieme a noi.

    Anche Salvatore, come Elena, non si apriva subito, ma se gli chiedevi qualcosa difficilmente ti rispondeva in maniera negativa, a meno che non gli facevi perdere le staffe.

    Il venerdì era un inferno: le faccende da sbrigare si decuplicava- no, i colleghi diventavano più irritabili del normale e mio padre, manco a dirlo, doveva mostrare maggior severità nei confronti di tutti, cercando contemporaneamente di non sembrare troppo duro. Doveva tenerli in riga, ma non agitarli oltremodo. Il venerdì che se- guì le due prime giornate di corso acquisì, tra l’altro, connotati an- cor più drammatici del solito: Patrizia ebbe uno sfogo di pianto all’interno del bagno dopo che il nostro capo l’aveva teneramen- te ammonita dandole della rammollita. Questo perché era stata ac- cusata di non esser abbastanza veloce nel rispondere alle e-mail e a stilare i documenti da utilizzare per pagamenti, buste paga e affini. Salvatore mandò invece clamorosamente a quel paese un nostro collega poiché quest’ultimo, per l’ennesima volta, gli aveva chiesto di sostituirlo perché doveva andare a prendere la figlia di otto anni alla scuola di ballo. Modestino era mezzo febbricitante e cominciò a vomitare ripetutamente in bagno. Elena dovette prendersi due bustine di tisana per cercare di calmarsi e non lasciarsi prendere dall’ansia, ma la dose fu eccessiva e il risultato fu distruttivo: stan - chezza infinita dopo neanche mezza giornata, rendimento dimezza- to. A fine giornata, lei mi pose uno strano paragone per spiegarmi come si sentiva in quel momento.

    «Tieni presente quando quei prestigiatori cominciano a tirare un fazzolettino dalla manica e ne escono altri dietro ad esso infinitamente? Beh, pensa a questi fazzolettini come se fossero i miei lavori. Li finivi, li finivi, ma continuavano a sbucare fuori, senza sosta… e dovevo completarli tutti!».Da come avrete capito, nell’ufficio in cui lavoravo con mio padre, il rigido ma stimabile Domenico Salviati, la parola noia non aveva alcun significato. Fosse esistito un vocabolario contenente tutti i concetti che avessero rappresentato tale ufficio, avremmo trovato tutte le parole esistenti in qualsiasi lingua di qualsiasi mondo di qualsiasi universo, tranne quelle che avessero potuto indicare il concetto di noia. Boredom, aburrimiento, langeweile, ennui, скука. Non le avreste mai trovate. Mai. Dopo aver chiuso le mie solite quattro ore pomeridiane del venerdì, la mia settimana lavorativa era praticamente finita. Ma le mie lotte, esteriori ed interiori, erano ben lungi dal riposarsi.

    1.2– Visioni irreali

    Il weekend era tutto davanti a noi, ma per il sottoscritto tale oc- casione non si dimostrava particolarmente allegra: come vi ho anti- cipato in precedenza, all’epoca avevo perso gran parte delle mie amicizie, e di conseguenza provavo di tanto in tanto ad aggregarmi a qualche nuova comitiva, magari conosciuta tramite il mio amico Ricky. Quel sabato sera sembrava una serata uguale alle altre: quat- tro chiacchiere con conoscenti, più che amici, un paio di tiri al bo- wling, qualche partitella a biliardo. E il lupo. Sì. Mentre ci stavamo intrattenendo nella già citata partita di bowling, da lontano scorsi quei capelli leggermente mossi, quei lineamenti perfetti, quel por- tamento magniloquente. Il mio sguardo s’incollò sulla sua incante- vole figura per una serie di secondi dilatati all’infinito, aspettando che si voltasse, aspettando di ricevere la conferma che si trattasse effettivamente di lei. Non si girava, rimaneva immobile con la testa leggermente inclinata verso destra, ed io aspettavo. Aspettavo. Con il cuore che continuava a sobbalzare, in maniera sempre più veloce, ad ogni secondo che passava.

    «Dany, tocca a te! Ti vuoi muovere?» mi riprese Ricky, inconsa- pevole della mia catalessi emotiva.

    «Sì, scusami ero distratto!».

    «Beh, non distrarti mentre tiri, che già stai 15 punti sotto, bello mio!».

    Mentre andavo a recuperare la palla da lanciare, i miei occhi continuavano a fiondare sguardi furtivi e fugaci verso quella sago- ma, quando, finalmente, si voltò.

    Bene, non era lei.

    Avevo preso un abbaglio! E vi dirò, dopo averla guardata me- glio, mi accorsi che non le somigliava neanche tanto. Da lì ripresi la mia partita di bowling cercando di far sembrare tutto normale, ma anche stavolta il mio involucro esterno non lasciava per nulla trasparire ciò che c’era al suo interno. Era come se al di fuori del mio io le persone vedessero una villa, che al suo interno nascondeva in realtà cumuli di macerie. Ormai avevo raggiunto la piena consapevolezza che stavolta, amici miei, ero proprio cotto perso! Fortunatamente riuscii a distrarmi per il resto della serata, anche perché il virus lupesco non s’era ancora radicato al 100% nel mio cervello malandato.

    A fine serata presi la mia macchina ed accompagnai Ricky; quel furbacchione in quell’occasione si divertì molto a stuzzicarmi toc- cando tasti, per me, particolarmente dolenti. Sì, perché la mia os- sessione per il lupo stava già maturando a pieno regime, ma mai avrei immaginato che avrebbe potuto raggiungere livelli così deva- stanti.

    «La tieni presenti Monica, Dany?».

    «Sì. Mi pare fosse quella ragazza coi capelli lisci mori con gli occhiali».

    «Esattamente. Non la trovi splendida?».

    «Beh… sì, carina, non c’è male».

    «No… non parlo solo di carineria, Dany… parlo di tutto! Il modo in cui parla, il modo in cui si veste, il modo in cui si approc - cia con gli altri, il modo in cui scherza e si diverte…».

    «Beh, se ti piace tanto, provaci con lei. Invitala a prendere un caffè, a cenare insieme, a fare qualcosa».

    «Già ci sto provando, credimi. Ma sto andando con i piedi di piombo. Si è lasciata da poco con il suo ex, quindi è ancora un po’ scossa. Non posso introdurmi nella sua vita così, a gamba tesa. Devo entrarci in punta di piedi, progressivamente. Non come fai tu, che

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