Una stagione turbolenta prima del nulla
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Una stagione turbolenta prima del nulla - Egidio Capodiferro
CAPODIFERRO EGIDIO
Una stagione turbolenta
prima del nulla
CAPODIFERRO EGIDIO
Una stagione turbolenta prima del nulla
Prima Edizione 2018
Isbn 978-88-3343-032-4 Formato ebook
Ogni riferimento a cose, persone o fatti
è puramente casuale.
Lello Lucignano Editore
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1
Dal giorno in cui un compagno di classe prese a chiamarmi Teo Vis, tutti lo seguirono, e se all’inizio trovai la cosa alquanto fastidiosa con il passare del tempo quell’adattamento del mio nome e cognome, pronunciato in un momento di fretta, prese tanto a piacermi che mi ci riconobbi totalmente. Persino quella vanitosa di mia sorella adottò quel nomignolo, proprio lei che non aveva mai digerito il cognome che portavamo e riguardo al nome fino ad allora mi aveva sempre chiamato Lindo e avevo sempre detestato quella scorciatoia. Da quando mi chiamavano Teo, il mio ego era salito di parecchi gradini, secondo me dava un senso di mistero a tutta la mia persona. Il mio vero nome era Teodolindo, me l’aveva dato mio padre in preda all’eccitazione durante la notte in cui venni alla luce.
Avevo spento venti candeline in un giorno d’estate particolarmente piovoso e da qualche mese mi ero diplomato in un istituto professionale per l’agricoltura del quale preferisco tacerne il nome. Erano stati cinque anni di studio poco intenso, come piacevano a me, infatti a suo tempo non volevo neppure andarci alle scuole superiori ma i miei genitori avevano insistito così tanto e per convincermi, nell’estate che fa da ponte tra i due gradi di scuola, mi avevano mandato un mese intero al mare dove abitava mia zia e come premio aggiuntivo avevano alzato la mia paghetta mensile di un quarto. Dopo il diploma io e mio padre avevamo spesso parlato del mio futuro che secondo lui doveva prendere una direzione, mentre io ne volevo imprimere un’altra.
«Non sei inclinato per gli studi.» mi disse mio padre per l’ultima volta. A pensare che per tutto un pomeriggio (uno dei tanti) avevo discusso con lui in modo acceso per ottenere di poter frequentare l’università.
«A Cristina glielo hai permesso» osservai. Sentivo di non essere trattato con imparzialità riguardo a mia sorella.
«Se a lei l’ho consentito è perché prometteva molto bene già alle scuole superiori. » rispose mio padre, «E i risultati si sono visti!»
Io non mi capacitavo del diniego e ripresi: «Fammi provare».
«No.» fece lui in maniera secca, il quale non amava le repliche del figlio.
«Se non mi mandi sei ingiusto con me», gli feci notare per smuovere le sue ferree decisioni.
Mia madre non era presente. Se ne era uscita appena aveva capito che avremmo ripreso la solita discussione, che ormai si protraeva da un mese nella nostra casa, ma neppure lei era d’accordo con me e aveva ingiunto: «Figlio mio, trovati un lavoro e lascia perdere gli studi. Non è quella la tua strada». E da quella volta non mi aveva detto più nulla, io avevo cercato di convincerla a darmi man forte verso mio padre, ad allearsi con me per vincere la guerra
ma con mia somma delusione aveva già deciso e mi disse chiaramente che non si sarebbe opposta solo e soltanto se avessi ottenuto il consenso di mio padre. In pratica si era defilata in una maniera poco signorile e per nulla materna, non mi restava che accettare la situazione ormai ero certo di aver perduto quella dannata guerra.
Memore delle loro insistenze per prendermi un diploma, rovesciai la questione e tartassai mio padre fino ad annoiarlo e coinvolsi anche mia madre, sebbene reagisse con un silenzio abissale, ripetendogli in continuazione:
«Mi avete obbligato ad andare alle superiori, io adesso pretendo che mi facciate frequentare l’università»; in pratica feci leva sul fatto che dovevano mandarmi perché le cose non si potevano fare solo quando facevano comodo a loro. Mio padre pareva irremovibile e io giù con frasi tipo:
«Al mondo d’oggi senza una laurea non sei nessuno», «è indispensabile avere quest’altra carta». «Con un diploma non ci fai niente al mondo d’oggi» ed altre cose del genere per convincerlo.
Per mio padre, che era molto contrario, si trattava soltanto di un’altra carta per fare un nuovo quadro da appendere in camera o nel salotto e poi potersi vantare quando arrivavano i parenti o qualche conoscente, infatti lo faceva con il diploma di laurea di mia sorella ma la mia non serviva a portare fasto alla famiglia. Comunque, oltre questa considerazione, non credeva per nulla che suo figlio potesse arrivare a conseguire una tale meta.
«Sempre se riuscirai a conseguirla» mi ripeteva spesso con un ghigno che sapeva di beffardo, io allora stralunavo gli occhi, mantenevo la calma e non andavo allo scontro per cercare di portarlo dalla mia parte e rispondevo soltanto: «Abbi fiducia, ce la farò anch’io».
Li tartassai più di quanto avessero fatto loro sei anni prima, infine si convinsero, ma non mi mandarono né al mare dalla zia né a fare la vacanza che avevo già progettato con gli amici, cosa che mi avevano promesso come premio per il diploma di maturità. Infine, e questa la considero un’umiliazione, mi tolsero pure il quarto di paghetta in più, dicevano loro che avrebbe fatto cassa per pagare le tasse universitarie. Come se non bastasse mio padre mi privò per gli anni futuri del premio natalizio in denaro che mi avevano versato per cinque anni, anzi sei, visto che al primo anno mi avevano bocciato. Non avevo studiato quasi nulla in tutte le materie, era convinto vuoi per l’età, vuoi per la costrizione a continuare la scuola, ma soprattutto vuoi per la nomea che aveva l’istituto, che, cioè al professionale andassero tutti avanti senza fare un bel niente. I professori, invece, tutti concordi, nel giorno dello scrutinio finale mi segarono senza pietà. I miei restarono molto delusi, ma m’invitarono a ricominciare ripetendo sempre la stessa solfa, che cioè era necessario un diploma fosse pure per essere assunti a fare il portinaio.
Sei anni dopo, comunque, prendendo la loro stessa posizione riuscii ad ottenere di potermi iscrivere all’università, ottenendo il medesimo risultato e ne fui contento. L’estate la passai con gli amici dicendo a tutti che mi ero iscritto alla Facoltà di Scienze Agrarie e alcuni in principio non ci credettero ben sapendo le mie scarse capacità ma me ne infischiavo di cosa pensassero di me. A qualcuno confidai che volevo fare il direttore in una grossa azienda agricola o vinicola, era questo il mio sogno e dietro questo ve ne era un altro: lavorare sodo almeno vent’anni, risparmiare molto, per poter un giorno mettere in piedi una mia azienda personale e dopo aver preso il volo e raggiunto una certa quota lasciare anche quello per dedicarmi soltanto alla mia azienda. Immaginavo già il mio nome in qualche rivista di settore che esaltava la mia audacia e il mio successo imprenditoriale.
Avevo deciso di andare all’università non solo per coronare i miei sogni ma soprattutto per altri due buoni motivi. Abitavo in un piccolo paesino immerso nel verde e circondato da un paio di montagne messe lì dal Creatore da chissà quanti secoli che lo vegliavano da diversi secoli, molto freddo d’inverno ma ben lontano dalle città universitarie e questa era la cosa che più mi piaceva e al sol pensarci ne traevo una gioia inusitata, da giovane che voleva rendersi indipendente, allontanarsi dai genitori per poter fare liberamente tutto ciò che mi passava per la testa. C’erano sempre loro di mezzo e in ogni cosa mi riguardasse gli ordini paterni e materni non mancavano mai.
«Fai questo, fai quello... Teo questo non lo devi fare... Non pensarci neppure» e cose di questo genere erano all’ordine del giorno, invece adesso vedevo avvicinarsi la mia ora di libertà e l’agognavo più di ogni altra cosa.
Il secondo motivo era mia sorella Cristina. Io ero venuto dieci anni dopo di lei e con il passare del tempo avevo capito che ero l’inatteso della famiglia, uscito come il coniglio dal cappello. I miei genitori non se l’aspettavano proprio e a volte pensavo fossi giunto per rovinare i loro progetti che diventano titanici quando si ha un figlio unico, a maggior ragione se si stratta di una femmina.
Insegnava alle scuole superiori, era andata sempre bene a scuola, una vera secchiona e si era laureata a ventiquattro anni e per almeno dieci anni fin dalle medie (anche lì non studiavo quasi per niente) spesso e volentieri i genitori me la mettevano davanti come modello da dover seguire e questi continui confronti non facevano altro che irritarmi e annoiarmi: «Non te la prendere figliolo, ma tua sorella per quanto riguarda la scuola ci ha dato sempre grandi soddisfazioni».
«Non te la prendere...» un giorno, due, sei mesi, un anno; il callo non ce l’avevo fatto e ogni volta che cominciava quella sonata mi ritiravo subito in camera mia. Quando arrivava la pagella, quasi sempre con voti bassi o appena sufficienti, lei se non c’era veniva informata e per telefono mi faceva la predica, se c’era faceva prima un sorriso beffardo, poi mi rimproverava per una buona mezz’ora e allora arrivavo a detestarla del tutto. Inoltre, quando i miei erano assenti e lei era in casa, la mettevano a vigilare su di me e ogni tanto entrava in camera per sincerarsi se stessi studiando. Io tenevo i libri aperti sul tavolo e facevo altro col portatile finché non sentivo i suoi passi avvicinarsi e prima di entrare, preso dall’ansia abbassavo in tutta fretta lo schermo e riprendevo i libri e il quaderno degli appunti. Per farla breve baravo, quasi divertendomi a sfidarla, comunque mi infastidiva oltre ogni dire il suo comportamento da cane da guardia.
Per non dire dei continui litigi, soprattutto quando ritornava l’estate, nei periodi natalizi e pasquali e io consideravo una grazia che fosse andata lontano a studiare. Un’estate, però, mi fece passare le pene dell’inferno. Era stata lasciata da un tizio su due piedi, uno dei tanti, erano fidanzati a distanza e quando ritornò a giugno le diede il ben servito, nel frattempo se ne era trovata un’altra di un paese vicino. Era sempre nervosa e arrabbiata, a volte andava soggetta a scatti d’ira incandescente ed era incontenibile, allora pensavo che era meglio stargli alla larga. Cercavo di farlo il più possibile ma capita sempre che stando sotto lo stesso tetto qualche minima relazione debba esserci, e allora lei si mostrava sempre astiosa, anche verso i nostri genitori. A febbraio di quest’anno si sarebbe sposata, al che quando venni a saperlo subito pensai: Con tutti i fidanzati che ha avuto non poteva farlo prima
e mi prendeva una certa rabbia perché adesso che me ne andavo lontano di casa lo faceva anche mia sorella e questo mi parve proprio un tiro mancino della sorte. Cristina aveva conosciuto un uomo più grande di lei di quasi dieci anni ed erano fidanzati soltanto da sei mesi, ma per febbraio avevano fissato il matrimonio, anzi era stata proprio lei a velocizzare l’evento fatale