Notte sull'Avana
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Notte sull'Avana - Rossana Giorgi Consorti
PROLOGO
Luglio 1969
Mi ero fatto crescere i capelli e avevo legato una bandana bianca e nera intorno alla fronte.
Boia, sembri un pirata
mi apostrofò mio padre che era livornese e dopo tanti anni di residenza a Siena non aveva perduto l’accento.
Era la fine di luglio. Avevo superato con ottimi risultati l’esame di maturità classica e ritenevo di meritarmi un viaggio.
Babbo, cerco il Che
annunciai, alzando la mano a pugno.
Cerchi che?
Il Che, babbo, il Che
.
Cosa dici? Come parli? Che cosa cerchi?
Il Che
ripetei, rispettoso.
Non so icchè tu cerchi, ma quando lo sai, quando hai le idee chiare, me lo dici
.
Castro. Ti dice nulla questo nome?
Ti castro io se non ti spieghi per benino
.
Babbo, Fidel Castro e Che Guevara. Hanno portato la libertà, la democrazia. Il Che è un eroe. Voglio andare a Cuba
.
Che Guevara è morto. Non lo sapevi?
.
Mio padre era un uomo informato e di cultura. Ma, quando lo si beccava nella giornata dell’ironia, non c’era modo di ragionarci.
Voglio andare a Cuba e aiutare anch’io quel popolo per il quale lui ha combattuto da eroe
ripetei con enfasi.
L’Ernestito, eh? Per essere un eroe, è vero, lo è. Per aver portato la libertà… ho qualche dubbio in proposito
.
Tu hai idee borghesi, non puoi capire
.
E quando ci vorresti andare?
Ora. Quest’estate
ero determinato.
Allora lo sai icchè tu fai? Regali ai poveri tutte quelle belle magliette firmate che ti piacciono tanto. Fai un giro per il mondo dove la gente muore di fame e di malattie. Ti rimbocchi le maniche per benino. Poi, quando torni, si ragiona di Cuba. Ci stai?
Non ci stetti. Niente Cuba. Partii per la Versilia con la mia famiglia.
A metà agosto mio padre mi consegnò un biglietto ferroviario, grazie al quale avrei potuto visitare i Paesi europei per la durata di un mese.
Per mangiare e dormire ti arrangi. É l’ora che tu diventi grande e autonomo. Se ti stanchi prima, torni a casa. Ti va bene?
Mi andò bene.
A settembre mi iscrissi all’università. Dopo qualche anno mi fidanzai. Presi la laurea e subito dopo, dietro insistenza di mio padre, lungimirante, partii per Londra, dove rimasi circa un anno a imparare la lingua. Per mantenermi, svolsi i lavori più disparati, umili anche, che mi aiutarono a maturare. Tornato a casa, iniziai l’esperienza nell’azienda di famiglia, dove dimostrai di essere tagliato per quel tipo di lavoro. Mi sposai, nonostante le proteste dei miei riguardo al fatto che io non ero ancora pronto per mantenere degnamente una famiglia e la mia futura moglie non lavorava. Nacquero i figli. Insomma, l’occasione per un viaggio a Cuba veniva rimandata di anno in anno.
E poi, come spesso avviene, la sorte ha in serbo per noi delle sorprese.
CAPITOLO I
Luglio 2016
Mi alzai barcollando, preda di un malessere che non avrei saputo descrivere, e con la sensazione di trovarmi nel cuore della notte. Invece erano passate da poco le venti. Avevo dormito appena due ore.
Detti una rapida occhiata alla camera d’albergo che mi ospitava, ampia ma non accogliente.
Il cuscino e il materasso erano comodi ma la rete di metallo cigolava ad ogni movimento del mio corpo. Un incerato, di quelli che si usano per i bambini perché non bagnino il letto, posto sotto il lenzuolo fino oltre le spalle, mi aveva fatto sudare copiosamente. I capelli, ancora folti nonostante l’età, erano da strizzare.
Vecchie fobie mi trattenevano dall’accendere il condizionatore. La paura di batteri e di muffe mi impediva di farlo e di conseguenza da tempo non amavo più il periodo estivo, come in passato. Non osai neppure aprire la finestra che si affacciava su un palazzo sventrato: i topi avevano popolato spesso i miei sogni inquieti.
L’amico Robert non c’era. Il letto intatto e le valigie aperte mi fecero capire che era in giro per l’Avana. Meglio così. Evidentemente undici ore di aereo non lo avevano fiaccato.
Rinunciai a fare la doccia, non riuscii a giovarmi di una vasca scheggiata e di una tendina di plastica bucata in più punti. Mi lavai perciò sommariamente, mentre Robert mi avvertiva per telefono che mi stava aspettando al Floridita.
Un lampadario pretenzioso dalla luce fioca rese alquanto difficile estrarre dalla valigia gli indumenti giusti. Vincere le fobie e aprire la finestra sarebbe stato inutile, ormai era buio.
Per strada mi sembrò di essere attaccato alla canna del gas, tanto l’aria era irrespirabile. In mezzo a palazzi bui e fatiscenti, una luce gialla rischiarava a fatica le strade dove le giovani passeggiavano ancheggiando con naturalezza, gaie, in gruppo, pantaloncini corti e gambe slanciate.
Gli adulti, seduti sui marciapiedi, davanti a fondachi che scoprii poi essere abitazioni, sembravano scrutare il passare della vita, l’alternarsi del giorno e della notte, del sole e della luna, senza profferire parola, senza un gesto, nella completa inattività dei rassegnati.
Il Floridita nella sua bellezza un po’ retrò era situato a duecento metri dall’albergo, ma il caldo umido della notte e il semi-buio delle strade provocarono in me una sorta di vertigine e resero affannosa quella che sarebbe potuta essere una piacevole passeggiata.
Entrato nel locale, mi accolse Hemingway imprigionato in una statua di bronzo. Disincantata l’espressione tra le rughe della fronte, gli occhi invece mordevano la vita. Che uomo straordinariamente incomprensibile doveva essere, pensai.
Domani si va a visitare la villa, appena fuori l’Avana
mi informò Robert, allegro come sempre. Rideva, cosa che accadeva molto spesso nell’arco della giornata. Aveva qualche anno più di me, ma sembrava un ragazzo proprio per l’espressione spensierata degli occhi e comunque del volto segnato da poche rughe, provocate solo dalla sua propensione a scherzare. Non soffriva di fobie né di incubi, lui, per lo meno non come me. Ma non era uno sciocco.
Aveva rimorchiato due ragazze dalle forme considerevoli, che tentarono di baciarmi appena mi videro. Non avevo voglia di effusioni, non ero dello spirito adatto, ma soprattutto non mi sentivo bene.
Dovetti sopportare una conversazione animata e vuota, insieme a una aragosta squisita che il mio stomaco però rifiutava. Desideravo delle verdure cotte: niente verdure. Della frutta fresca: niente frutta. Rum invece a volontà e gelato dolcissimo. E via col rum finché non mi sentii informicolire le gambe e decisi che sarei ritornato in albergo.
Da solo?
Mi chiese una delle due cubane, carezzandomi una coscia.
Da solo
affermai categorico.
Robert mi guardò severo ma io uscii dal Floridita deciso, anche se barcollante, infastidito da uomini e donne che mi offrivano il tragitto in taxi ad un prezzo davvero stracciato.
Alla prima farmacia mi fermai a chiedere un termometro: niente termometro. Il farmacista allargò le braccia in un gesto di resa. Ne aveva solo uno, guasto.
In albergo chiesi del limone: niente limone. Un thè, eventualmente. Vada per il thè, dissi e feci bene perché era caldo, aromatico, ben zuccherato.
Entrai in camera e mi buttai sul letto. La fronte scottava e mi addormentai all’istante.
CAPITOLO II
Al mattino Robert mi svegliò informandomi che aveva prenotato una Buick scoperta, color arancio, per visitare la città e la villa di Hemingway. Era felice, come sempre. Io, invece, non avevo la forza di alzarmi, ma lo feci, a fatica. Comprammo i panama per evitare fastidiose insolazioni e partimmo, sempre attaccati alla canna del gas.
Sono tutte smarmittate queste auto, che pensavi?
Disse Robert.
Io non pensavo nulla, ma soffrivo. Un dolore acuto sembrava perforarmi lo stomaco e il lato destro del cranio.
Non vuoi sapere come è andata ieri sera con quelle due?
No, non lo volevo sapere, non mi interessava proprio, ma, fingendo, mi mostrai incuriosito.
Il racconto si perse tra il rumore dei clacson e il vociare dell’autista che salutava i passanti.
Brava gente, i cubani, allegra e dignitosa, mi sorpresi a pensare.
La Finca Vigja, situata in una zona verdeggiante e fresca, si presentò come una costruzione bassa, tinteggiata di bianco cui si accedeva attraverso dei vialetti di terra battuta che si snodavano in mezzo ad alberi dalle rare foglie e dal tronco sottile.
La porta di ingresso con i vetri all’inglese si apriva direttamente sul soggiorno. Un cordone ne impediva l’accesso. I turisti potevano solo osservare. Sopra un tavolino da fumo, in mezzo ai divani, le bottiglie di liquore ricordavano la presenza di Hemingway, come se non fossero state spostate dall’ultimo giorno della sua permanenza a Cuba.
Rimasi impressionato dalla modernità dell’arredamento, ancora attuale.
Nella stessa epoca in Italia il cosiddetto -stile svedese- aveva spodestato lo scialbo modernismo del ventennio. In pieno boom economico, anche i miei genitori ne erano stati contagiati. Pochi anni dopo, però, avevano nascosto sotto la polvere di soffitte e cantine poltrone e lampadari acquistati in un momento di euforia ma inguardabili.
C’era una strana religiosità in quella finca. Non avrei saputo dire se fossero le tombe dei cani, allineate sul retro o la barca, Pilar, conservata come una reliquia.
A parte Robert che si muoveva in modo convulso e non smetteva di emettere fastidiose esclamazioni di stupore, tutti i presenti, turisti come noi, parlavano a voce bassa, come fossimo in un luogo sacro. Davanti alla macchina da scrivere nella torretta da cui l’autore de Il vecchio e il mare
aveva padroneggiato l’oceano, anche Robert, finalmente, si ammutolì.
Solo allora mi accorsi che tremavo dal freddo sotto la camicia bagnata di sudore.
Si sente bene?
Mi chiese il tassista. Era seduto dentro il bagagliaio della sua Buick, all’ombra del portellone, tenuto ingegnosamente sollevato grazie a una asta di legno.
No
confessai, smarrito, cercando Robert con gli occhi.
Amico, stai tranquillo, so dov’è l’americano, lo chiamo io
e si allontanò veloce.
Nell’attesa mi sedetti sul bordo della piscina, vuota, mentre un senso di vertigine confondeva i contorni di una costruzione poco lontana.
Alle quattordici rientrai in albergo. Mi dispiaceva lasciare di nuovo da solo Robert che però non mostrava di esserne addolorato, anzi, stava già progettando dove andare e che visitare. Meglio così.
La camera ancora disfatta e il letto bagnato dal sudore notturno mi accolsero