PAVESE & FERRAROTTI - Due contadini perduti a Torino
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PAVESE & FERRAROTTI - Due contadini perduti a Torino - Valerio Bollac
PAVESE & FERRAROTTI
Due contadini perduti
MIAGÉTTA DI CASTO
È una giornata limpida quando approdo sulla collina all’ingresso di Castino e il panorama mi ruba l’occhio. Ladri sono quell’immenso prato di nubi verdi, basse che sfiorano il terreno, cariche di chicchi di grandine color nocciola e i pampini che sembrano roseti di Babilonia, dove l’uomo addomesticò l’uva … tentacoli che sequestrano l’iride.
Non basta il turbamento provocato da queste immagini primordiali, ci si mette pure il marin
, raro e frizzante come l’Alta Langa DOCG, che insegue la Bòrmida, arriva qui a schernirmi dolcemente con refoli sbarazzini mostrando, quando il giorno invecchia, fumi lontani, piccini, nei vapori, e racconta il mistero del tempo che non passa, la terra fatata dove gli anni non contano e sono le stagioni, col loro ciclico ripetersi, a dettare i ritmi della vita.
Vedo anche i quattro amici (Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli) seduti sul muretto a cercar ristoro dopo la lunga passeggiata. Però loro non possono vedermi anche perché in quel lontano giorno del ’32 non ero ancora nato.
Una simulazione grottesca?
Embè!?
Franco, la memoria storica del gruppo, narra di un’ombra scura che correva nella notte … faceva paura solo a parlarne e la sua vita era disperata … fucile in spalla e pistola in mano una barba sporca come un villano … Antonio Domenico Stella, il bandito castinese tradito, come Salvatore Giuliano, dal suo braccio destro Zampé, il Giuda
che l’ha venduto per trenta denari (il realtà si trattò di mille lire, lo stipendio annuo di un docente universitario). Il brigante fu ucciso nei pressi di un ruscello che ancora oggi porta il suo nome, Rian dë Stèila, e la leggenda racconta che prima di morire nascose i suoi tesori tra i sassi della miagétta di Casto, proprio dove i quattro amici hanno parcheggiato le chiappe.
Un lampo di passato tra Leggenda e Storia che non può, non vuole, non deve morire e sta lì a ricordare quanto la memoria
sia un’eredità preziosa per costruire il futuro. Un futuro talvolta bizzoso e irriverente, infatti Cesare non lo sa ma, in quel tranquillo giorno trascorso in piacevole compagnia, duecento chilometri a ovest, nella Città d’Oro nasce Romilda Bollati di Saint Pierre, la sua ultima musa adolescente.
<><><><><>
Mentre elùcubro su questo tempo senza tempo il pensiero vola a più di quarant’anni fa, quando conobbi l’ospite che sto aspettando.
Il primo flash mnemonico è una faccia da pitbool bonario e un sorriso al limite dell’impertinenza, poi l’aula piena e la lezione-show in maniche di camicia con l’auditorio catturato dalle affabulazioni teatrali del mattatore, condite con intermezzi d’ilarità contagiosa ma anche da folgori fiammeggianti che, all’improvviso, ti catapultava addosso; soltanto chi era così ottusamente pauroso da cercare di evitarle non si trovava incisi nella mente i pilastri della sua futura conoscenza.
Come da inveterata costumanza PB (acronimo di pitbool bonario
) è in ritardo, non del quarto d’ora accademico di cui non abusava, ma del triplo!
Non è che, invece, ho toppato il luogo dell’appuntamento?
Infatti è così.
«Dove sei, facia ‘d tòla!? – la voce esplode nel cellulare – È un’ora che aspetto!»
«Al muretto di Castino. Non ci dovevamo vedere qui?»
Glisso, ormai certo di aver sbagliato indirizzo.
«Il solito paraculo mascherato da distratto. Come quando all’esame hai detto di aver frainteso quanto scritto sulla bacheca presentando mezzo programma.»
«Però mi hai dato 30&Lode!»
Ridacchia.
«Perché eri un villanzone strafottente e bugiardo, sicuro di te da sembrare arrogante … – una pausa che trasforma la finta filippica in un complimento – ma anche molto preparato.»
«Allora lo ammetti che ero un genio!»
«Vatlu pien’tal cul, balìsta! Dai, sbrigati. Spropinquati da quei quattro mattoni e raggiungimi a Sant-Ëstevo-ëd-Ber̂b. Sullo stradone per Canèj, poco dopo la casa di Pavese, c’è una piola che odora di batsoà e Barbera. Ti aspetto lì.»
«D’accordo, però, già che sto qui, prima mi fermo un attimo allo Scarrone.»
«Vada per ‘sto pellegrinaggio, però non ci passare la notte.»
«Ho specificato un attimo.»
«Detto da te, mendace conclamato, è meno veritiero delle promesse d’amore che i marinai seminano in ogni porto. Comunque datti una mossa che comincio ad aver fame.»
<><><><><>
Qui non si apprezza il florilegio di colori che dalla piana si arrampica sulle colline perché l’occhio si blocca catturato dall’acqua verde impegnata a nascondere il fondo della vasca. Chissà perché Pavese si fermava qui. Forse cercava Platone tallonando le ombre umide della liquida caverna. Panorama minimale, una mummia della quale puoi indagare il passato ma immaginarne il futuro è privilegio di pochi.
Comunque in questo caleidoscopio tetro non sono a mio agio.
Un’ambientazione troppo cupio dissolvi, troppo sfacciatamente biblica per i miei gusti, mossa dal desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo e, contestualmente, dalla necessità per voi che io rimanga nella carne.
D’altra parte di che mi stupisco?
Pur senza accenni alla divinità, tale pensiero era evidente nell’ultimo messaggio lasciato tra le pagine dei Dialoghi con Leucò prima di ingerire il farmaco mortale: Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti … come se con queste parole avesse trovato l’assoluzione cercata tutta la vita.
No, non è questo l’uomo che voglio ricordare.
Mi piace, invece, pensarlo davanti al malinconico lavatoio mentre aspetta la parola che sgorgherà dal fondo come un frutto tra i rami, oppure sentirlo cantare di una terra buia, dove l'alba è silenzio … ecco, questo è il Pavese che voglio ricordare; un uomo convinto dell’insopportabilità dei suoi limiti ma sempre e comunque proteso a superarli nell’intimità del suo pensiero.
Se in tale cammino scosceso non di rado inciampava in se stesso mi sembra un prezzo giusto che ha pagato.
<><><><><>
Tutte queste fantasticherie hanno reso il mio meditante latinamente fessus come il fiume che stanco di rincorrere le sue stesse acque le scarica nel mare. Per questo (perché sono fessus) licenzio i pensieri e raggiungo PB all’osteria, sperando non si sia spazzolato tutti i piedini di maiale e scolato le riserve della cantina.
SANT-ËSTEVO-ËD-BER̂B
Soddisfatte le esigenze alimentari (e quelle etiliche) ci trasferiamo al Cascinale San Sebastiano
, davanti alla gran casa ingentilita dal terrazzo su cui, d’autunno, la nebbia di solfato di rame, adagiandosi a terra, crea una coltre verde come un prato primaverile e per i bambini è facile averne sempre le ginocchia sporche.
Una vecchia masseria ristrutturata a metà ‘800 con gusto più cittadino che rurale; certo, sono rimasti i mezzadri a coltivare la terra e allevare animali, ma la famiglia Pavese sta affrancandosi dalla vita contadina troppo spesso ingrata e, ormai, ci viene solo a passare l’estate.
Qui apre per la prima volta gli occhi Cesare il 9 settembre 1908, il mese in cui i langaroli osservano i frutti di un anno di lavoro prendere forma sui tralci della vite in attesa che arrivi il giorno in cui raccoglieranno il prezzo della fatica consumando la marenda sinoira, un tripudio campagnolo di formaggi salumi vino che dura fino al tramonto e odora d’uva e sudore.
<><><><><>
Il sole ha perso la cocente rabbia agostana e, adesso, la sua è una carezza dolce che appena sfiora il viso e stimola il ripensamento, la riflessione; Cesare vede la sua luce e obbedisce ai suoi comandamenti. Il cercare di risolvere tutto in se stesso sarà il cruccio e, al contempo, la genialità della sua vita.
Comunque la Cascina San Sebastiano
è stata la culla della sua infanzia fino alla scomparsa del padre Eugenio, morto per un tumore al cervello