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Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock
Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock
Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock
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Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock

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About this ebook

Le leggende lo chiamano Xibalba, il Luogo dell’Orrore: alcune leggende hanno un fondo di verità.

Successivamente alla scoperta di un tesoro nello Yucatan, gli ex Navy SEAL Dane Maddock e Bones Bonebrake organizzano una spedizione alla ricerca della leggendaria città maya dei morti, che li porterà a scontrarsi con nemici mortali. Tra antiche rovine e giungle pericolose, Maddock e Bones dovranno sconfiggere la violenta Confraternita del Serpente e trovare la città leggendaria prima che un vecchio nemico ne scopra i segreti e getti il mondo nelle tenebre. Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere alla discesa nei meandri dello Xibalba?

LanguageItaliano
Release dateJan 19, 2018
ISBN9781547514762
Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock
Author

David Wood

David A. Wood has more than forty years of international gas, oil, and broader energy experience since gaining his Ph.D. in geosciences from Imperial College London in the 1970s. His expertise covers multiple fields including subsurface geoscience and engineering relating to oil and gas exploration and production, energy supply chain technologies, and efficiencies. For the past two decades, David has worked as an independent international consultant, researcher, training provider, and expert witness. He has published an extensive body of work on geoscience, engineering, energy, and machine learning topics. He currently consults and conducts research on a variety of technical and commercial aspects of energy and environmental issues through his consultancy, DWA Energy Limited. He has extensive editorial experience as a founding editor of Elsevier’s Journal of Natural Gas Science & Engineering in 2008/9 then serving as Editor-in-Chief from 2013 to 2016. He is currently Co-Editor-in-Chief of Advances in Geo-Energy Research.

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    Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock - David Wood

    XIBALBA -  Un’avventura di Dane Maddock

    Di David Wood

    - - - - - -

    Traduzione di Manola Mannino

    Un’oscura discesa nel regno dei morti.

    Le leggende lo chiamano Xibalba, il Luogo dell’Orrore: alcune leggende hanno un fondo di verità.

    Successivamente alla scoperta di un tesoro nello Yucatan, gli ex Navy SEAL Dane Maddock e Bones Bonebrake organizzano una spedizione alla ricerca della leggendaria città maya dei morti, che li porterà a scontrarsi con nemici mortali. Tra antiche rovine e giungle pericolose, Maddock e Bones dovranno sconfiggere la violenta Confraternita del Serpente e trovare la città leggendaria prima che un vecchio nemico ne scopra i segreti e getti il mondo nelle tenebre. Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere alla discesa nei meandri dello Xibalba?

    Le opinioni della stampa su David Wood!

    Dane e Bones.... insieme sono inarrestabili. Azione travolgente dall’inizio alla fine. Ingegno ed umorismo nel corso di tutto il romanzo. Mi resta solo una domanda: quanto manca per la prossima avventura? Non vedo l’ora! - Graham Brown, autore di Shadows of the Midnight Sun.

    Che avventura! Una lettura fantastica che offre moltissima azione, un viaggio per mondi ignoti che a volte sarebbe meglio lasciare inesplorati. - Paul Kemprecos, autore di Cool Blue Tomb e i NUMA Files.

    Una storia da leggere tutta d’un fiato; un connubio tra azione, complotti, antichi segreti e creature temibili. Indiana Jones farebbe meglio a guardarsi le spalle! - Jeremy Robinson, autore di Second World.

    In modo piacevole e divertente, incorporando misteri storici e una ricerca della verità tipica dei giorni nostri, David Wood ha creato una storia che suscita forti emozioni e ci porta oltre i limiti della semplice finzione, fino ad addentrarci nel mondo del possibile. - David Lynn Golemon, autore della serie Event Group.

    Una complessa storia di avventura ed intrigo che ti avvinghia e non ti lascia più! - Robert Masello, autore di The Einstein Prophecy.

    Non c’è da sbagliarsi: David Wood è il prossimo Clive Cussler. Una volta cominciato a leggere, non riuscirete a smettere finché non sarete giunti alla risoluzione del mistero. - Edward G. Talbot, autore di 2012: The Fifth World.

    Preferisco i thriller con un sacco di esplosioni, esplorazioni di varie località in tutto il mondo e con un mistero che mi insegni qualcosa di nuovo. Wood offre tutto ciò! Raccomandato come libro da leggere tutto d’un fiato: fenomenale. -  J.F. Penn, autore di Desecration.

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    Xibalba - Un’avventura di Dane Maddock

    Autore David Wood

    Copyright © 2016 David Wood

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Manola Mannino

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube, Inc.

    Copertina di Kent Holloway Book Cover Design

    Questo libro è un’opera di finzione. Tutti i personaggi sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati a scopo narrativo.

    INDICE

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Epilogo

    Informazioni sull’autore

    PROLOGO

    19 marzo 1517

    Era impensabile che quel paesaggio fertile e rigoglioso fosse tanto letale, ma Diego Alvarez de Castile sapeva che dietro quell’illusione di paradiso lussureggiante si celava l’inferno.

    Erano passati quindici giorni dalla battaglia combattuta nei pressi della città che gli spagnoli chiamavano El Gran Cairo, per via delle torreggianti strutture simili a piramidi che dominavano sulle case di pietra. Ed erano passati trentanove giorni da quando la spedizione era partita da Cuba per esplorare nuove terre e catturare schiavi che avrebbero lavorato nelle miniere e nei campi agricoli del nuovo territorio spagnolo. Il primo incontro con gli indiani era andato bene. Un piccolo gruppo di nativi li aveva raggiunti al largo, remando, dov’era avvenuto uno scambio di cibo ed altri doni. Ma il giorno successivo, quando gli spagnoli toccarono terra, gli indiani gli mostrarono la loro vera natura, attaccando l’equipaggio appena sbarcato con frecce e pietre.

    Nonostante i membri della spedizione non fossero guerrieri esperti, avevano previsto quel tradimento; erano scesi armati di moschetti e balestre, indossando armature d’acciaio che avrebbero offerto maggiore protezione di quelle in tessuto, indossate dai nativi. Erano riusciti a respingere gli assalitori tanto da poter ritornare alla sicurezza delle loro navi, catturando tre indiani e facendoli prigionieri. Nonostante avessero subito la perdita di due uomini e diversi feriti, gli era sembrata una vittoria, soprattutto quando uno dei prigionieri cominciò a raccontare, o meglio mimare, storie sulle straordinarie ricchezze dell’entroterra. Mentre gli uomini continuavano la loro spedizione, circumnavigando la costa di quella che credevano fosse un’isola persino più grande di Cuba, Alvarez scelse un gruppo di venticinque uomini capaci, per perlustrare l’entroterra e vedere con i propri occhi se quelle storie fossero vere o meno.

    E fu così che iniziò il loro viaggio all’inferno.

    Un terzo del gruppo, nove uomini in totale, era perito in quella giungla letale: bestie feroci, serpenti ed insetti velenosi, ferite apparentemente insignificanti che scatenavano febbri mortali. Ognuno dei sopravvissuti soffriva per via di ferite e cenni di malattie che li avrebbero comunque decimati, se avessero continuato a proseguire. L’unico pericolo che avevano previsto, e per il quale si erano preparati, ovvero gli attacchi di indiani ostili, non si era materializzato e tantomeno si erano imbattuti in alcuna delle leggendarie ricchezze. Le sottili implicazioni di tutto ciò non sfuggirono ad Alvarez.

    Chiese spiegazioni alla loro guida, l’ostaggio indiano che avevano preso a chiamare Balthasar. Ci hai ingannati! S’infuriò, consapevole del fatto che il nativo avrebbe compreso la sua rabbia più che le sue parole. Gesticolando, disse: Ci hai condotti qui, in questa giungla, a morire. Non c’è oro. Era tutta una menzogna.

    Balthasar tremava di paura, capendo solo che l’uomo intendeva fargli del male, ed agitò le braccia per placare il suo aguzzino. Indicò dritto davanti a lui, scuotendo la mano con forza.

    Solo un po’ più avanti.

    Cominciò a camminare in quella direzione, tirando Alvarez verso di lui.

    No. Alvarez si liberò dalla stretta dell’uomo. Basta con le tue menzogne.

    Sollevò gli occhi cercando il sole, nascosto dal fitto fogliame della giungla. La spedizione in mare si stava muovendo verso ovest. Se Alvarez si fosse diretto al nord, la sua piccola squadra di ricognizione avrebbe raggiunto la costa in un paio di giorni, e forse avrebbero incontrato i loro compatrioti lì, ad aspettarli. Andiamo da questa parte.

    Il volto di Balthasar si contorse in una maschera di terrore e, quando il gruppo si avviò verso la nuova direzione, rifiutò di muoversi, cedendo solo quando Alvarez minacciò di legarlo ad una fune e trascinarlo con sé.

    Si fecero strada attraverso la fitta vegetazione, avanzando di soli cinquanta pasos, la lunghezza dalla falcata di un uomo, prima che i colori cangianti segnalassero l’incombere del tramonto. Alvarez diede a metà dei suoi uomini il compito di montare l’accampamento, mentre il resto avrebbe continuato ad aprire il sentiero nella luce morente.

    Erano appena riusciti ad accendere, con molto sforzo, un fuoco da campo, quando uno degli uomini in avanscoperta ritornò in fretta all’accampamento. "Señor, venga subito."

    Alvarez capì, dall’impazienza dell’uomo, che qualsiasi cosa avessero scoperto presagiva bene, dunque afferrò la fune alla quale era legato Balthasar e la tirò verso il sentiero. Non dovettero andare lontano. Appena cinquanta pasos dall’estremità dell’accampamento, la fitta giungla sembrò aprirsi e scivolare via allo stesso tempo, abbassandosi gradualmente fino a formare una valle boscosa e lussureggiante. Il centro della valle era dominato da un’ampia laguna scintillante al tramonto del sole e vicino ad essa si ergeva un monolite in rovina, parzialmente nascosto dalla vegetazione. Sembrava trattarsi dei resti di uno dei templi a piramide nei quali gli indiani erano soliti venerare i loro dei pagani.

    "Cenote," bisbigliò Balthasar.

    Alvarez conosceva quella parola. Si erano imbattuti in altri cenote lungo il tragitto: erano conche ripiene d’acqua, una sorta di pozzi naturali. Gli indiani sembravano venerarli ed erano soliti gettare piccole offerte in ogni cenote che incontravano. Eppure, in quel cenote c’era qualcosa che ispirava nel loro ostaggio puro terrore. Gesticolando selvaggiamente, l’uomo cominciò a sussurrare "Kukul’kan", nella sua lingua indigena.

    Che stai cercando di dirmi? sibilò Alvarez, agitando le braccia. Di cosa hai paura?

    Con uno sforzo, Balthasar si calmò ed accennò un gesto, ondeggiando la mano.

    Serpente? Alvarez ripeté il gesto, mettendo la mano a coppa, a mo’ di vipera pronta ad attaccare.

    Doveva trattarsi dell’interpretazione corretta, in quanto Balthasar prese a indicare gli spagnoli uno per uno, muovendo l’indice e il medio della mano a forbici, un gesto che indicava il camminare.

    Serpente che cammina, pensò Alvarez. Uomo serpente, forse?

    Balthasar indicò allora il cenote, o forse la piramide in rovina, e poi puntò al terreno dietro di lui... No, si rese conto Alvarez, sta indicando la sua stessa ombra.

    "Valle de las sombras", bisbigliò un altro dei suoi uomini, facendosi il segno della croce.

    Demoni serpente e valle delle ombre, disse Alvarez. Sta tentando di spaventarci e di allontanarci dalla valle con queste assurdità, mentre ci conduce a morte certa qui nella giungla. Guardate voi stessi. Non ci sono campi a coltivazione. Non ci sono fuochi da campo. Nessuno ha vissuto qui da almeno cent’anni. Forse troveremo i tesori che stiamo cercando proprio lì. Domani attraverseremo questo ‘luogo delle ombre’, e vedrete.

    Balthasar continuò a parlare con urgenza; il ritorno all’accampamento lo rese ancora più irrequieto. Non faceva altro che ripetere le stesse parole in continuazione: "Bo’oy. Kukul’kan." Tirava la spessa fune annodata al collo, tentando di trascinare Alvarez verso il sentiero che tornava ad addentrarsi nella giungla. Si calmò solo quando Alvarez minacciò di percuoterlo con un bastone.

    Durante la notte, Balthasar si aprì le vene dei polsi con i denti, versando la sua linfa vitale sul terreno della giungla. Il suicidio gettò un’ombra sull’accampamento. Alvarez agì prontamente, tentando di soffocare il crescente coro di malcontento e paura. Anche un animale in trappola si strapperebbe via la carne per fuggire. Non c’è alcuna differenza.

    C’è una differenza ribatté Diaz, secondo in comando dopo Alvarez. Ha preferito togliersi la vita piuttosto che affrontare la Valle delle Ombre. E lei, Alvarez, vuole che ci addentriamo lì alla cieca.

    Si è tolto la vita perché i suoi dei pagani glielo hanno comandato, obiettò Alvarez. "Noi che serviamo il vero Dio non abbiamo nulla da temere. Non ricordate le parole del Salmo? ‘Aunque ande en valle de sombra de muerte, no temeré mal alguno’."

    Dovremmo forse chiamarla Fray Diego, adesso? rispose Diaz. Ci condurrà alla rovina.

    E tuttavia la voce di Diaz aveva in parte perso il suo tono di sfida. Nel citare la Scrittura, Alvarez aveva sfidato i suoi uomini a dimostrare che la loro fede era più forte del timore superstizioso. Non ci sarebbe stato alcun ammutinamento, e tuttavia lo scontento generale rimaneva immutato.

    Smontarono l’accampamento in fretta e furia, lasciando il corpo di Balthasar lì dove si trovava, e si addentrarono nella valle. All’inizio procedettero lentamente, ma non ci volle molto prima che si imbatterono in una sorta di strada lastricata di pietre bianche, che serpeggiava attraverso gli alberi. Nonostante la giungla invadesse il sentiero, gran parte di esso era libero e ciò permise al gruppo di procedere più velocemente. A mezzogiorno, avevano già raggiunto il fondovalle. Anche se gli alberi nascondevano le rovine, la strada sembrava proseguire in quella direzione e Alvarez continuò a seguirla. Poco dopo, il gruppo raggiunse i confini della città.

    In un primo momento scorsero solo le fondamenta di case che la popolazione doveva aver eretto in tempi antichi. Un po’ più avanti, tuttavia, trovarono muri ancora in piedi, fatti di pietre accatastate. Alvarez si avventurò nel perimetro di una di quelle case in macerie e vide ergersi dal pavimento un grande albero, probabilmente una quercia.

    Dalla dimensione, immaginò che fossero passati trent’anni o forse più da quando la pianta aveva messo su radici, ma ebbe la sensazione che la casa fosse rimasta disabitata da molto più tempo. Non era rimasto nulla delle persone che una volta avevano vissuto lì.

    È un totale spreco di tempo, disse Diaz quando vide Alvarez uscire dalla casa. Le persone che una volta vivevano qui hanno preso tutto quello che gli apparteneva quando se ne sono andati. Non c’è alcun tesoro. Non c’è niente qui.

    Ti sbagli, amico mio, insistette Alvarez. Gli indiani rendono omaggio ai loro dei gettando gingilli d’oro nei cenote. Sì, forse se ne sono andati, ma non avrebbero preso con sé le loro offerte. Forse è questo il motivo per cui Balthasar non voleva che venissimo qui, e per cui si è persino tolto la vita. Sapeva che avremmo saccheggiato le ricchezze offerte ai suoi falsi dei. Deve aver temuto la loro ira.

    Le sue parole sembrarono stuzzicare l’interesse di Diaz. E come potremmo recuperare questo bottino?

    Una cosa per volta. Per prima cosa dobbiamo trovarlo. E siamo vicini. Posso...

    Fu interrotto da un grido d’allarme più in là, lungo il sentiero. Alvarez e Diaz corsero in quella direzione e trovarono uno dei loro uomini a terra, in preda alle convulsioni. Aveva le mascelle serrate, i denti digrignanti e la bocca schiumante, mentre il viso sofferente era diventato rosso scarlatto sotto la barba folta.

    Cosa è successo? chiese Alvarez. È stato morso? Una vipera?

    Prima che qualcuno potesse rispondere, l’uomo esalò il suo ultimo respiro con un rantolo e rimase immobile. Il resto degli uomini iniziò a setacciare la vegetazione attentamente, cercando il serpente velenoso che aveva fatto un’altra vittima nel loro gruppo.

    Improvvisamente, Diaz si fece scappare un urlo di dolore, colpendosi la guancia con il palmo della mano. Mi ha punto qualcosa, gracchiò.

    Alvarez intravide cadere dalla barba dell’uomo non una vespa o un ragno, bensì una scheggia di legno, forse una spina.

    Diaz fissò l’oggetto per un momento, poi si irrigidì e si sentì le gambe molli. Alvarez allungò la mano per afferrarlo e, appena gli prese il braccio, sentì un leggero sbuffo. Qualcosa passò rapido come un fulmine oltre il suo viso, mancandolo di meno di un palmo di mano. Alvarez si rese conto in quel momento di cosa stesse succedendo.

    È un attacco! urlò, spingendosi nella direzione dalla quale era venuto il proiettile. Mentre Diaz collassava, contorcendosi sul terreno della foresta, Alvarez sbloccò la corda della balestra e la puntò verso la boscaglia vicina. I moschetti erano completamente inutili nel profondo della giungla; l’umidità perenne rendeva la polvere da sparo e la miccia troppo umidi per incendiarsi. Prima che potesse far scattare la balestra, tuttavia, Alvarez udì un rumore tra i cespugli e intravide dietro di essi delle scaglie verdi come la pelle di una vipera.

    Uomini serpente! Ad Alvarez tornò in mente l’avvertimento di Balthasar.

    Udì molti altri sbuffi leggeri, e le grida di allarme intorno a lui divennero urla di dolore. Con la coda dell’occhio, Alvarez vide i suoi uomini cadere uno dopo l’altro.

    Quel nemico, che neppure riuscivano a vedere, li stava sterminando.

    Seguitemi, gridò Alvarez, sollevando la spada e caricando verso la boscaglia in cui aveva intravisto le ombre. Fece oscillare la lama d’acciaio di Toledo davanti a lui e, al diradarsi della vegetazione, vide nuovamente la creatura dalle squame luccicanti, con una cresta di piume brillanti sulla testa. L’uomo serpente si trovava davanti a lui, mostrando, in un ghigno feroce, i denti appuntiti come quelli di uno squalo. Gli scagliò addosso qualcosa.

    Alvarez colpì l’oggetto con la lama, schivando quel colpo diretto alla testa. La lama riecheggiò all’impatto. L’uomo serpente si allontanò, sparendo nuovamente nel folto della giungla. Alvarez mantenne la carica, facendosi strada tra il fogliame denso e mettendo a nudo il sentiero di pietre bianche.

    All’improvviso si trovò in una radura, una terrazza lastricata di sassolini bianchi che si estendeva per centinaia di passi fino alla base della piramide in rovina. Il cenote costituiva l’estremità del cortile alla sua sinistra. Non c’era traccia dell’uomo serpente.

    Alvarez tornò indietro per radunare i suoi uomini, ma scoprì con grande sgomento di essere solo. Attese in silenzio, sforzandosi di intercettare il rumore di passi, o di battaglia, o persino le urla dei morenti, ma non si udiva nulla. Neppure un sospiro.

    Qualcosa, tuttavia, si stava muovendo nella giungla dietro di lui. Forme sinuose, striscianti nella vegetazione, che si avvicinavano silenziosamente.

    Si voltò e cominciò a correre, precipitandosi lungo la terrazza. Se fosse riuscito a raggiungere il tempio, a scalarne uno dei lati e forse a raggiungere la cima, si sarebbe trovato su terreno più alto, e i suoi nemici avrebbero perso il loro vantaggio. Se non fossero stati in troppi, avrebbe avuto una possibilità di sopravvivenza: una possibilità minima, ma pur sempre meglio di nessuna.

    La sua armatura diventava più pesante ad ogni falcata, finché passò dal correre al trascinarsi sofferente. A metà strada dalla sua meta, si fermò e si voltò. Vide avanzare cinque uomini serpente, protesi in avanti come predatori pronti a piombare su una preda. Si raddrizzò, prendendo attentamente mira con la balestra. Gli uomini serpente continuavano ad avvicinarsi, apparentemente ignari del pericolo che rappresentava l’arma. Alvarez scoccò la freccia e, quando il quadrello colpì in pieno una delle creature, questa emise un grido raccapricciante. Alvarez lasciò cadere l’arma, voltò le spalle e ricominciò a correre. La breve tregua gli aveva appena dato l’energia sufficiente a raggiungere la base della piramide.

    Scalò uno dei suoi lati, trascinandosi sempre più in alto sulla facciata che si sgretolava sotto i suoi passi. Si strappò l’elmetto dalla testa e si sarebbe tolto anche il pettorale se non ci fossero voluti secondi preziosi, che non aveva. Qualcosa si infranse contro la parete al suo fianco, mancandolo: una pietra che piroettò via. Alvarez continuò ad andare avanti, con il cuore che gli martellava in petto, le braccia e le cosce ardenti per lo sforzo.

    Sul vertice della piramide era stata eretta una struttura a blocchi di pietra, ma il tempo e l’abbandono l’avevano danneggiata gravemente. Il tetto non c’era più e le colonne che una volta avevano indicato l’entrata erano spezzate o mancavano del tutto, rivelando un altare al suo interno. La parete di fondo portava ancora tracce appena visibili del dipinto in basso rilievo che una volta l’aveva adornata. Era un volto bestiale, che poteva essere stato un leone o forse un cane selvatico, stilizzato in quel modo grottesco prediletto agli indiani. Di fronte al dipinto si ergeva un altare di pietra altrettanto consumato e, su di esso, una piccola statuina, presumibilmente l’immagine della stessa creatura, accovacciata con le zampe distese come una sfinge e un braciere non molto profondo incastrato tra le zampe frontali. La reliquia era grande quanto la testa di un uomo: più nera del carbone, più nera dell’ombra, decorata con anelli d’oro splendente.

    Ecco, finalmente, il tesoro che aveva cercato. Nonostante l’urgenza del momento, Alvarez entrò nel tempio in rovina e protese le mani verso la reliquia.

    Questa sembrò sgretolarsi al suo tocco e, per un momento, Alvarez temette che si trattasse di un’illusione, così come i sogni di ricchezza che lo avevano attirato in quell’inferno di smeraldo. Eppure no... la statuina non si stava sgretolando. Aveva solo perduto la sua patina nera di polvere o cenere. Al di sotto di essa, era di un color verde giada imperiale.

    Il bottino era reale.

    Lo lasciò sull’altare si voltò per prendere posizione.

    Ma gli uomini serpente non c’erano più. Alvarez si avventurò al di fuori della struttura del tempio, guardò in giù e li individuò. Con enorme sorpresa, li vide inginocchiati, le teste chine come in preghiera.

    L’atteggiamento passivo, quasi reverenziale, gli suggerì di non trovarsi in pericolo immediato. Forse le piramidi erano a loro sacre, o territorio proibito, o forse stavano semplicemente aspettando che scendesse dal suo rifugio. Ad ogni modo, non sarebbe potuto rimanere in cima alla piramide per sempre.

    Mentre indugiava lì, al vertice della piramide, Alvarez sentì che il suo timore andava scemando. Non lo avrebbero attaccato; non lì, in cima alla piramide, e tantomeno sulla terrazza ai piedi della stessa. Ne era certo, nonostante non sapesse il perché.

    Ne era tanto certo che tornò all’altare e raccolse l’idolo. La reliquia gli avrebbe assicurato un lasciapassare nella giungla; gli uomini serpente lo avrebbero riverito come servo del loro falso dio.

    Alvarez emerse ancora una volta dalla struttura e cominciò la sua discesa. Le creature ai piedi della piramide rimasero immobili, e solo quando raggiunse il suolo ne scoprì il perché.

    Gli uomini serpente si erano tramutati in pietra.

    Una parte di lui sapeva che ciò era impossibile. Quelle che aveva confuso con figure inginocchiate erano in realtà antiche effigi di pietra, ricoperte di muschio verde scuro. Ricordò persino di averle superate durante la folle corsa attraverso il cortile.

    Ma sapeva anche che quelli erano gli uomini serpente, le stesse creature che avevano attaccato il suo gruppo nella giungla. E sapeva con altrettanta certezza che non sarebbero tornate in vita per minacciarlo, adesso.

    Non aveva più nulla da temere. Sapeva esattamente cosa doveva fare.

    Con la statuina di giada ancora sotto braccio, attraversò il cortile e si inoltrò nell’amorevole abbraccio della giungla oscura.

    CAPITOLO 1

    Tamburellando con le dita sull’involucro di plastica della torcia subacquea, Miranda Bell si decise a premere di nuovo l’interruttore. Questa volta la torcia si accese, sparando un fascio di luce bianca tutto intorno a lei. Continuò ad accenderla e spegnerla, accertandosi che il problema si fosse risolto. Fece poi scivolare la torcia a forma di pistola in una custodia legata al fianco, lieta che funzionasse, nonostante fosse un po’ antiquata, come il resto dell’attrezzatura subacquea che avevano noleggiato in un negozio per sub a Tulum.

    Miranda aveva sempre e solo utilizzato le migliori attrezzature. A volte aveva persino testato sul campo prototipi e tecnologie d’avanguardia inaccessibili a chiunque altro, ma quella era un’altra storia. Adesso doveva accontentarsi di qualsiasi strumento le capitasse sotto mano, a prescindere da quanto fosse superato e scadente.

    Miranda si controllò un’ultima volta dalla testa ai piedi e si sedette sul bordo del cenote, dondolando le gambe lunghe al di sopra dell'acqua azzurra. Fece un respiro profondo, per assicurarsi che l’aria fluisse senza ostacoli dal secondo stadio dell’erogatore, collegato alla bombola d’alluminio S80 fissata sulla schiena. Poi si voltò ed incontrò lo sguardo ansioso di Charles Bell, suo padre.

    Non te ne andare, scherzò lei, prima di stringere il boccaglio tra i denti.

    Miranda, la supplicò il padre. Aspetta. Solo mezz’ora. Saranno qui.

    Miranda resistette all’impulso di alzare gli occhi al cielo. Charles Bell si stava comportando in modo iperprotettivo, in un tentativo di obbedire al suo dovere da padre, o così credeva. Ma lei non aveva alcuna intenzione di aspettare l'arrivo dei suoi cosiddetti esperti di recupero marittimo. Conoscendo Bell, si trattava probabilmente di semplici guide turistiche costose, che li avrebbero quasi certamente fermati e contattato le autorità locali, quando si fossero resi conto di quello che avevano scoperto.

    A volte suo padre non aveva la minima idea di come funzionasse davvero il mondo. Quello che avevano scoperto, o perlomeno quello che credevano di aver scoperto, era un cenote inesplorato, il che era sorprendente, considerato che la regione intorno a Tulum era stata esplorata e mappata in lungo e in largo, specialmente lì, nella zona di tutela archeologica designata dal governo. Quel cenote era più grande di molti altri che aveva visto durante la sua carriera, e non troppo isolato. Si erano imbattuti nel cenote durante un’escursione nella foresta e, non trovandolo sulla mappa, avevano in un primo momento creduto di essersi persi. Era un mistero come il cenote fosse passato inosservato tanto a lungo. Ipotizzando che fosse davvero inesplorato, non c’era da escludere la possibilità che contenesse artefatti di autentico valore: un ulteriore motivo per immergersi subito, senza aspettare gli esperti.

    Andrà tutto bene, papà, lo rassicurò, dando un colpetto alla GoPro fissata appena sopra la maschera. Sta registrando?

    Sapeva già la risposta, ma glielo aveva chiesto comunque, per distrarlo, perché la smettesse di cercare di fermarla. Bell sollevò il tablet, sul quale era visualizzato il segnale video in tempo reale della fotocamera digitale. Giacché che lo sguardo di Miranda era rivolto verso il padre, lo schermo mostrava Bell con il tablet tra le mani. L’effetto era surreale. Una volta immersa, avrebbe perso il segnale Wi-Fi della fotocamera digitale e Bell avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno per vedere i risultati dell’immersione esplorativa.

    Miranda annuì, strinse il boccaglio tra i denti e scivolò in avanti, lasciandosi cadere in acqua. Il peso dell’equipaggiamento la fece affondare per

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