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Ragnatela scarlatta
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Ragnatela scarlatta

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Un padre scomparso misteriosamente.
Un figlio alla ricerca della verità.
Una madre dalla personalità deviata e manipolatrice.
Una clinica per malattie mentali dove l'unica vera follia è la normalità.
LanguageItaliano
Release dateJan 20, 2018
ISBN9788867933587
Ragnatela scarlatta

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    Ragnatela scarlatta - Anna Galimberti

    coincidenza.

    Capitolo 1

    Un pensiero di un cremisi acceso e un altro rosa pallido. La mia mente è un altalenare di ricordi e nel centro di tutto fluttua il tuo viso. In questa rarefatta solitudine, il cervello è lucido e lavora veloce. Gli studi che sto facendo mi aiutano a capire. A capire anche te, che puoi darmi la vita e togliermela in un attimo.

    C’era un vago sentore di primavera nell’aria limpida dell’alba e un pallido sole rischiarava i vetri di Villa Hortensia, adagiata tra le colline toscane. Il cinguettio degli uccelli, che nidificavano tra i rami del vasto giardino, era un coro gioioso che inneggiava all’inizio del nuovo giorno e si insinuava con una debole eco anche nella camera numero otto. Dalle tapparelle abbassate passava una lama di luce. Rebecca si coprì il volto con il cuscino, cercando di scacciare quel suono stridulo e gli incubi della notte appena trascorsa. A quel punto dell’alba, in cui la notte e il giorno hanno lo stesso peso e le cose sembrano più grandi di quello che sono, si sentiva distaccata dal mondo.

    La mattina era la fase più delicata della giornata. Con lentezza assorbiva la prima luce diurna per cercare di ritrovare i confini di quella realtà che le stava ancora stretta: Villa Hortensia. Lei voleva tornare a vivere a Villa Vignoli, la sua amata casa, dove avrebbe potuto in ogni istante rivivere il ricordo e sentire il profumo della sua esistenza e quella di suo figlio. Dove anche l’invisibile diventava per lei amore che nutriva. Ma proprio l’invisibile l’aveva invischiata in pensieri tarlati che si sgretolavano di fronte a ciò che per tutti viene definito normale, lasciando spazio solo per la sofferenza, che la colmava e traboccava come acqua da un vaso pieno. Per questo la mattina era la fase più delicata. Il peso dell’intensa attività onirica della notte lasciava segni devastanti nella sua mente, che già vacillava sotto il peso di gravi patologie. Voleva fermare quei pensieri tortuosi, ma il suo cervello non ne aveva facoltà. Accarezzò il desiderio di vedere qualcosa di diverso da quella graziosa stanza dalle pareti colorate di lilla pensando a una distesa di tulipani. Tulipani a perdita d’occhio, rossi come grosse fiammate. E lei e Saul in bicicletta. Il viaggio in Olanda apparteneva a un passato morto e sepolto, quando ancora Saul la considerava il centro del mondo e non c’erano altre donne pronte a insidiarlo per staccarlo da lei. Disse qualcosa ad alta voce ma non aveva senso, come se si fosse verificato un errore di collegamento tra il cervello e la bocca. La frase suonò come un’imprecazione.

    Neppure qui, immersa in questa pace costosa e protetta, riusciva a spegnere il fuoco divorante che i terribili sogni della notte appena finita le avevano appiccato nel cervello. Le affioravano dalla fuliggine di questo dormiveglia altre immagini: ragnatele che la invischiavano e la tenevano prigioniera. Al centro il viso ghignante e malevolo di un uomo che lei non conosceva. Cercava di sbranarla con piccoli denti aguzzi. Probabilmente aveva gridato, ma l’urlo le era morto più volte in gola, ma si sentiva comunque la faringe in fiamme. Richiami ingarbugliati dentro un passato sfocato e un futuro che si profilava come un baratro oscuro. Il futuro… Nel crepuscolo della sua mente esisteva solo il presente. E nel presente contava solo lei.

    L’alba ormai tripudiava facendo colare i primi raggi di sole sulla collina dove sorgeva Villa Hortensia, ma Rebecca era ancora avvolta nella sua confusione mentale con il cuscino sopra la testa.

    La sua vicina di stanza, Anja, non sentiva né la fame né la sete e si lasciava consumare dalla sua conclamata anoressia. Non reggeva cibo nello stomaco, non sopportava di assumere calorie. Quel poco che riusciva a mangiare lo doveva smaltire subito con movimento compulsivo, che consisteva nel camminare avanti e indietro incessantemente a passo veloce per tutto il giardino. Indossava sempre delle tute da ginnastica che le ballavano letteralmente addosso e spesso rialzava il cappuccio sopra il capo. I capelli erano lunghi e sottili, spenti, senza vita. Non li pettinava mai per paura di vederli cadere e li teneva legati in una lunga coda di cavallo talmente sottile da farla sembrare un’ombra. Proprio come lei, che passava le giornate facendo riecheggiare per tutta la clinica i suoi frettolosi passi. Scandiva le giornate con quel suo incedere ostinato e ossessivo. Il volto ricordava quello di un felino, con il naso piccolo e appuntito. Gli occhi enormi avevano le sfumature dell’ambra e riempivano il viso.

    Come tutte le mattine, picchiò cinque colpi nel muro dando a Rebecca il buongiorno alla sua maniera e causando nella vicina di camera un moto di dispetto.

    Quando si udiva, alle otto in punto, la musica della sveglia (La Cavalcata delle Valchirie di Wagner), le porte delle stanze si aprivano e gli infermieri aiutavano le pazienti ad affrontare il nuovo giorno.

    Ogni mattino riservava sorprese perché non ci si poteva aspettare linearità da quei pazienti turbati e quindi, accanto alle infermiere, impeccabili nella loro divisa azzurra, erano presenti due infermieri maschi, forti e muscolosi, pronti a neutralizzare qualsiasi crisi.

    Oltre ad Anja, che occupava la stanza numero nove, l’altra vicina di Rebecca era Sofia, una paziente di appena trent’anni. Sofia era affetta da dismorfofobia con sintomi psicotici. Era una donna dall’aspetto gradevole, ma la sua patologia la obbligava a una percezione di sé distorta, deformata.

    Indossava un lungo velo colorato che serviva a nascondere le sue immaginarie mostruosità ed era incapace di tessere adeguate relazioni sociali. Si aggirava per i corridoi di Villa Hortensia rasentando le pareti, simile a uno spettro. Non sentiva mai il freddo, e anche d’inverno indossava sandali di cuoio. Aveva la carnagione chiara e i capelli rossi erano tagliati cortissimi. Sotto il velo si intravedevano lineamenti regolari e un piccolo naso ben disegnato. Lei soggiornava alla numero sette.

    Sofia e Anja erano le vicine di Rebecca. Il suo microcosmo. La delirante quotidianità, la normalità distorta. Perché Villa Hortensia aveva questa prerogativa, di lasciare molto spazio alla personalità dei pazienti. I pazienti, che pagavano per il soggiorno in quella casa di cura esclusiva, erano seguiti da medici validissimi e personale molto attento.

    Quegli ospiti che trascinavano stranezze mentali e vivevano costantemente chiusi nel proprio mondo erano, in un certo senso, anche liberi. Liberi di manifestare la loro personalità e le loro stravaganze. Le loro manie più disparate, diverse come il fulmine lo è dal raggio di luna. A Villa Hortensia l’unica stranezza era la normalità.

    Nel reparto femminile erano ospitate solo dodici pazienti, sistemate in ampie camere con tutti i comfort e accesso al giardino.

    Occupavano l’ala sinistra della casa colonica che era stata ristrutturata negli anni Ottanta da August Mayer, un medico di origine svizzera, ora direttore della clinica.

    Il dottor Mayer, alto e segaligno, era ancora attraente nonostante i suoi settant’anni. Dirigeva la clinica da quasi trent’anni e si vantava di annoverare fra i suoi pazienti persone famose del mondo della moda e dello spettacolo. Vestiva in modo un po’ antiquato, prediligendo i papillon, che indossava sempre sopra camicie a righe vistose. Amava le giacche di velluto e non portava mai il camice. Gli occhi apparivano più grandi del normale dietro a spesse lenti cerchiate in una curiosa montatura rotonda.

    L’ala destra dell’edificio era destinata al reparto maschile e il corpo centrale era suddiviso in sale per il pranzo, per il relax, per le attività musicali, didattiche. Al piano terra si trovavano gli studi medici e le sale infermieristiche.

    La collina era circondata da vecchi uliveti e sovrastava campi di grano e di girasole, regalando agli ospiti una vista ampia e variegata. Ma nonostante i colori della vegetazione e dei fiori che il direttore faceva arrivare ogni mese dalla Liguria, gli ospiti avevano il buio dentro l’anima.

    Rebecca si alzava presto l’ultima domenica del mese, perché Saul andava a trovarla. Pranzavano assieme nell’elegante salone di Villa Hortensia. Allora chiamava il parrucchiere affinché la pettinasse con cura e si faceva aiutare da Giovanna, una delle infermiere, a scegliere un abito adeguato per ricevere suo figlio. In quelle occasioni il cervello di Rebecca sembrava tornare a ragionare quasi normalmente e Saul si illudeva di vederla star bene.

    Lo accarezzava con le dita magre come se fosse rimasto piccolo, gli teneva la mano tutto il tempo, gli cantava delle filastrocche con lo sguardo sognante. Saul assecondava quel fiume di affetto, che sfociava in un atteggiamento insano, quasi senza parlare. Alla fine della visita baciava sua madre sulla fronte e si allontanava con le spalle curve per la sconfitta e con un senso di sollievo di cui si vergognava sempre un poco.

    In quella sera nella camera numero otto si udiva Rebecca che intonava una ninnananna rivolta a una foto del figlio posata sul comodino.

    Ad Anja dava fastidio e spesso litigavano attraverso le pareti sottili che dividevano le due stanze. Anja non voleva sentire rumori se non il suo passo che si muoveva frettoloso lungo i corridoi della clinica. Tutto il resto per lei era motivo di fastidio. Lei pretendeva un mondo etereo fatto di leggerezza e trasparenza. E quindi rifiutava il cibo. Si trovava da oltre un anno a Villa Hortensia, dove trascorreva le giornate camminando avanti e indietro, sforzandosi di consumare le calorie che il poco cibo le forniva. Pesava trentotto chili e uno strato di pelle sottile rivestiva direttamente le ossa, senza apparente traccia di muscoli.

    Rebecca invece soggiornava da sei anni nella clinica e il suo ricovero era stato deciso dal primario che l’aveva in cura.

    Saul, tua madre ha perso i contatti con la realtà, vive in un mondo impenetrabile, rinchiusa nel suo egocentrismo. I sintomi psicotici si accentuano in maniera allarmante e non è più in grado di essere lasciata sola. Ha bisogno di essere curata, di essere riconnessa col mondo esterno. Devi convincerti che è necessario un ricovero, gli aveva detto lo psichiatra con tono deciso.

    Saul, a fatica, un giorno l’aveva affidata alle cure del dottor Mayer.

    Sapeva quanto sua madre lo avesse amato e non era sicuro di fare la cosa giusta. Ma lo psichiatra aveva parlato di suicidio e lui aveva capito che il personale di casa non era più sufficiente per proteggerla dalla malattia. Per proteggerla da se stessa.

    Capitolo 2

    Saul Vignoli, alla guida della sua potente auto sportiva, percorreva la strada sterrata che portava a Villa Hortensia. La campagna toscana era splendida in quella domenica di fine febbraio e risplendeva sotto un sole eccessivamente forte per quella stagione. Gli antichi ulivi regalavano un senso di pace e di eternità a quei dolci pendii e i cespugli d’erica a bordo strada spruzzavano la giornata di allegria.

    Rebecca lo vide attraverso le inferriate di ottone della finestra e non lasciò trapelare la minima emozione.

    Finì di allacciarsi la camicetta di seta color avorio, indossò un cardigan di cachemire, controllò l’ora e uscì in giardino. Controllava sempre l’ora sull’orologio d’oro che aveva al polso. Doveva fissare ogni evento della giornata: connotarlo in una fascia temporale ben precisa. Erano le 11:47, avrebbe dovuto ricordarselo.

    Saul finì di parcheggiare l’auto, quindi scese e senza fretta entrò nel salone della clinica dove la madre lo attendeva seduta rigida nel solito divano di velluto ocra, torcendosi le mani nervosamente. Porse alla madre una scatola dei suoi cioccolatini preferiti, come sempre. Come l’ultima domenica di tutti i mesi, da quando era stata ricoverata.

    Rebecca lo fece accomodare sul divano accanto a lei e lo accarezzò e baciò, saziandosi di quel contatto che la teneva ancora in vita.

    Mamma, sei elegantissima! Qui dentro sei sicuramente la più bella. Come stai?

    Io bene. Tu, invece, sei sciupato. Quella strega di tua moglie non si prende cura di te?

    Dominique non è una strega, mammina cara. A proposito, vorrebbe venire a trovarti.

    Non la voglio vedere. Lo sai che non mi è mai piaciuta. Ti rovinerà.

    Come vuoi tu. Comunque ti sbagli sul suo conto.

    Ti ha sposato solo per i soldi, ho visto, sai, come ti corteggiava. Questo non è amore Saul. L’amore è diverso. L’amore è totalità. L’amore è rinuncia.

    Rebecca seguì con lo sguardo sognante una nuvola, giocherellando con i ciondoli del braccialetto d’oro che aveva al polso.

    Mamma ho avuto diverse fidanzate, ricordi? Nessuna ti è mai piaciuta. Hai trovato difetti a tutte. Ma Dominique è diversa, mi vuole bene davvero.

    Dominique ha rovinato la nostra vita. La nostra vita eravamo io e te, Saul. Io e te. Come stavamo bene, noi due, a Villa Vignoli. La mia casa. La nostra casa. Tutte le mie cose e i miei ricordi, Saul. Non voglio che nessuno entri nella mia casa. Soltanto Minuel ci può restare. Hai capito? Dovrai giurarmi di non andarci mai a vivere con quella strega, perché lì abbiamo vissuto io e te. Ci devono essere solo i nostri splendidi ricordi. Rebecca abbandonò il tono austero e intonò una cantilena accarezzando la guancia di suo figlio.

    Mamma, io vivo in un attico a Firenze e nella villa non ci torno più.

    Bravo, Saul, non andarci. Susan ha gettato una maledizione che aleggia ancora su quella casa.

    Mamma, ma cosa stai dicendo? Perché vai a rivangare il passato? Cosa c’entra adesso Susan? Vieni, accomodiamoci a tavola. Tra poco sarà servito il pranzo.

    Saul cercò di cambiare discorso, ma le parole della madre lo avevano colpito profondamente. Il giorno successivo avrebbe telefonato al dottor Mayer per riferirgli quella nuova, strana ossessione.

    Rebecca era alienata e viveva ormai da anni estraniata dalla realtà. Le sue condizioni erano stabili da tempo, i farmaci la tenevano tranquilla. Quel divieto di tornare alla villa e quel farneticante discorso sulle maledizioni erano una preoccupante novità. Saul pensò alla casa della sua infanzia, che non visitava da lungo tempo, preparandosi all’attacco di nostalgia, che non tardò ad arrivare. L’ombra dei ricordi lontani lo attraversò come una nuvola che offusca il sole, nonostante la sua fanciullezza fosse stata tutt’altro che felice, con quella madre paranoica e un padre che a un certo punto se ne era andato.

    A custodire e animare parzialmente la grande casa era rimasto solo Minuel, il fedelissimo maggiordomo filippino. Lui, solo, in quella grande dimora a custodirne i vuoti, i silenzi, i misteri. Forse lui sapeva qualcosa che aveva sempre taciuto. Forse davvero Villa Vignoli custodiva un terribile segreto.

    Si ritrovò a sorridere tra sé. Provò a non pensare più a niente, concentrandosi soltanto sullo scorrere del tempo. Il tempo che beffa i nostri sogni e ricopre tutto con una patina vischiosa. Il tempo che, a volte, ingigantisce le ombre.

    Il tempo era anche l’ossessione di sua madre, che controllava continuamente l’orologio da polso

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