Oltre te
By Viola Bi
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Oltre te - Viola Bi
Gamberale
Poesia
Autobiografia in cinque brevi capitoli
Portia Nelson
Capitolo Primo
Cammino lungo una strada.
C’è una buca profonda nel marciapiede.
Ci casco dentro.
Sono perduta,
Non posso farci nulla,
Non è colpa mia.
Ci metto una vita per uscirne.
Capitolo Secondo
Cammino lungo la stessa strada.
C’è una buca profonda nel marciapiede.
Faccio finta che non ci sia.
Ci casco dentro.
Non posso credere di essere ancora nello stesso posto.
Ma non è colpa mia.
Mi ci vuole un sacco di tempo per uscirne.
Capitolo Terzo
Cammino lungo la stessa strada.
C’è una buca profonda nel marciapiede.
La vedo benissimo.
Ci casco dentro di nuovo;
È un’abitudine.
Ma i miei occhi sono aperti:
So dove sono.
È colpa mia.
Ne esco immediatamente.
Capitolo Quarto
Cammino lungo la stessa strada.
C’è una buca profonda nel marciapiede.
Ci cammino intorno.
Capitolo Quinto
Me ne vado per un’altra strada.
15 Dicembre 2014, mercoledì
Si vive per anni accanto a un essere umano,
senza vederlo.
Un giorno, ecco che uno alza gli occhi e lo vede.
In un attimo, non si sa perché, non si sa come,
qualcosa si rompe: una diga fra due acque.
E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.
Gabriele D'Annunzio
La magia.
Cos’è che nutre la nostra vita? La magia.
Di uno sguardo?
Di un sorriso?
Di un incontro?
Di uno sguardo.
Sì, gli sguardi vagano e non sempre decidiamo, coscientemente, a chi o a cosa rivolgerli. E dato che in questo freddo pomeriggio di dicembre, nel bel mezzo della festa scolastica di Natale, i miei pensieri hanno distolto l’attenzione da tutta me stessa, per impegnare le loro fatiche a riavvolgere un lungo nastro di raso rosso che mi è sfuggito dalle mani, i miei occhi, vagabondi senza controllo, si sono posati sui tuoi piedi e, risalendo un paio di pantaloni a costine blu, un maglione beige, il collo alto a toccarti il mento, la linea dritta del naso e un riccio pendente al centro della fronte, ecco che si sono posati lì, proprio lì, nei tuoi occhi, dove tutto non è mai iniziato. È stato un attimo, è stato l’eterno.
Sei lì di spalle che cerchi di riavvolgere il nastro rosso che ti è scivolato dalle mani. Ti vedo oggi per la prima volta. Hai capelli lucenti, lisci, di un caldo castano chiaro e fuseaux di lana grigia che abbracciano le tue gambe, bellissime. Penso che vorrei essere le calze di seta nera che immagino indossi a pelle, e anche quel maglione rosso a collo alto intriso del tuo profumo. Non mi sono mai accostato a te, se non dalla distanza necessaria per chiederti come ti sembrava l’umore di mio figlio in questi mesi così difficili per lui. Eppure lo riconosco, il tuo profumo, mi sale su dal cuore e non può che essere il tuo: turchese, come mi sembra di ricordare siano i tuoi occhi, giallo, come mi sembra di ricordare sia il tuo sorriso. Ti muovi goffamente, il nastro non vuole saperne di rimanere avvinghiato alle tue dita e dal basso del pavimento, da cui tenti di riacciuffare l’estremità della fascia dispettosa, ecco che i tuoi occhi, risalendomi addosso veloci, si fermano nei miei, dove tutto non è ancora iniziato. È stato un attimo, è stato l’eterno.
Quanti secondi? Due? Uno? Meno di uno? Tanto è bastato per guardarci e entrare uno dentro l’altra. Hai gli occhi verdi, non lo avevo mai notato, neanche quelle volte in cui, dopo avere salutato tuo figlio, ti sei fermato per chiedere di che umore fosse in questo periodo così delicato per lui. Dov’ero, quando ti rispondevo che il bambino era sereno? E che se mi fossi accorta di un suo disagio, te ne avrei subito parlato? Forse i miei occhi guardavano il mio Dentro, rivolti al dolore che mi preme sulla bocca dello stomaco e che da mesi m’impedisce di vivere il mio Fuori; un Fuori dove la vita vive, ma non per me.
Sì, i tuoi occhi sono turchesi e rigidamente severi. Mi sono appena entrati dentro e hanno formato un ingorgo all’altezza del pomo d’Adamo. Mi stanno togliendo il fiato, riesco a deglutire a malapena, non voglio farli entrare, non posso, ora. Tento di trattenerli e spedirli al piano di sopra, dove la razionalità proverà a spegnere quella luce plumbea, ma inspiegabilmente solare, che sta illuminando l’ombra in cui vive il mio Dentro. Sono rigidi e severi, ma ancora di più, tremendamente decisi. Hanno aggirato l’ostacolo e ora li sento, posano il mare sul mio cuore. Mi arrendo.
No, no, no, lo sto guardando con frammenti d’incanto, via, via l’incanto… non posso compromettermi, ora. Questo verde che mi accarezza lo stomaco e lo distende, quando e com’è entrato? Il mio Dentro sta già scalpitando, sembra non gradire quest’inaspettata intrusione esterna e tira calci alla mia mente reclamando a gran voce la razionalità. Ma in questo momento, non so proprio dove io possa averla lasciata, forse all’opera di riavvolgimento del nastro rosso. I suoi occhi, il loro verde, la calma improvvisa che, come brina leggera, si posa sul mio cuore. Mi arrendo.
Distogliere lo sguardo, uscire da questa classe, trovare un’occupazione.
Distogliere lo sguardo, maledetto nastro rosso, contegno e professionalità.
Stai ringraziando i genitori per il regalo, saluti e fai gli auguri di Natale. Hai sorrisi allegri, abbracci affettuosi e baci morbidi per tutti. Mi sorprendo a pensare questo di te, come se ti conoscessi da una vita fa. Toccherà anche a me, è inevitabile, ma ti prego, evitami. Ti prego, ti prego, ti prego.
Posso evitarlo? Non credo. Confermerei la sensazione d’imbarazzo che, ne sono certa, ha colto entrambi… e se proprio sbagliassi, passerei per una maleducata. Forse ho ancora una speranza, dileguarmi e trovare rifugio in bagno con la scusa di dover lavare via la colla dai pennelli. Posso farlo? Lo faccio!
Non ti vedo più, esco dall’angolo in cui avevo trovato rifugio. Mio figlio, cinque anni, vuole andare via, ma prima chiede di te alla maestra Francesca, vuole salutarti. Ti chiamano, affacciandosi nelle aule, ma tu esci fuori dal bagno, le mani macchiate di tempera, un pennello tra le dita e qualche glitter dorato sparpagliato sulle guance arrossate. Saluti Enea stringendolo forte e poi guardi me: di nuovo mi arrendo a quella distesa di mare turchese.
Ciao, grazie e buon Natale!
, mi dici posando un bacio sulla guancia che, senza rendermene conto, porgo, per la prima volta, alle tue labbra. Neanche quelle ho sognato, sono davvero soffici i due lembi di cielo che mi poggi sul viso e che, in un tempo di cui non ho memoria, esplorarono ogni millimetro del mio corpo durante l’amore, amandolo.
Francesca mi sta chiamando, metto il naso fuori dal bagno, ho le mani che gocciolano e un pennello che non riesco a pulire come vorrei. Enea e tu, proprio tu, bellissimo uomo che solo oggi vedo e sento con tutto il mio Dentro e tutto il mio Fuori, siete lì per salutarmi: Ciao, grazie e buon Natale!
e mentre Enea si allontana trotterellando, tu chini il tuo viso sul mio e ti bacio una guancia. Neanche quella ho sognato: è davvero ruvida questa barba nera che, in un tempo di cui non ho memoria, graffiava il mio corpo durante l’amore, amandolo.
Nel letto di Viola, sera
Com’ è che succedono queste cose? Non posso smettere di pensarti. La mia vita è in completo disordine, io sono un completo disordine, dal Fuori al Dentro, dal Dentro al Fuori: i capelli, la pelle, il cuore, lo stomaco, la milza, l’intestino. Non esistono più le ore di luce e le ore di buio: vivo un’unica, interminabile giornata da nove mesi a questa parte. E di certo, l’atmosfera non è romantica come quella di un’aurora boreale, è boreale e basta.
Aurora era la mia bambina e non è mai nata. È allora che il cielo, tutto, è tramontato… quando un figlio muore, una madre tramonta, è così che funziona. Non importa non averla conosciuta: l’amore, quello, esplode subito. E anche se non sapessi immaginare il suo volto e la sua voce, so che per un breve lasso di tempo è esistita, annidata, accoccolata dentro di me.
Il mio cuore l’ha nutrita di promesse e di pensieri che vengono improvvisi solo quando diventi mamma. La sera aspettavo insieme a lei, seduta in terrazza, che le striature del cielo attraversassero l’intera gamma cromatica dello spettro solare per parlarle dei colori. Sarai rosa, Aurora, con un pizzico d’indaco negli occhi, e corallo e oro. Sarai rossa, come la passione, e gialla, arancione, verde e azzurra come la gioia. Sarai viola come la tenacia, bianca come la generosità, marrone come la rabbia.
Tra tutti questi colori, Aurora è stata solo il rosso del suo sangue e il nero del lutto di cui mi ha rivestita.
Mi vergogno: mia figlia è morta e io penso a te, che vieni a mettere disordine laddove il disordine già c’è.
Nel letto di Cristian, sera
Com’è che succedono queste cose? Non posso smettere di pensarti. La mia vita è un grumo di dolore e solitudine, se non dovessi occuparmi di Enea, avrei già smesso di respirare. Sono vedovo da quasi due anni e il mio Dentro si è murato dietro uno scudo di cemento grigio tristezza. Ogni tanto mi soffermo ad auscultare il mio cuore muto: non ride più. Il ricordo di mia moglie ha iniziato a sfumare, a perdere i contorni, ma non il senso di vuoto che provo. È il fatto di essere solo che mi uccide, il fatto di non poter condividere la sera, in questo letto spazioso, il peso delle mie giornate o qualche gesto intimo d’affetto. A volte, mi succede ancora di piangere, di essere attraversato e scosso da un fiume inarrestabile di paure per il futuro: io e un figlio ancora così piccolo da crescere. Ne sarò capace? E potrò ricostruirmi una vita senza il timore di ferire o stravolgere, di nuovo, la sua? Sarò più un uomo libero di provare sentimenti?
Lei, Evelina, è stata l’unica donna da sempre, l’unica mia compagna… e Enea… è lui che fa girare il mio mondo, io sento di dover essere suo in modo esclusivo, di doverlo proteggere, ma tanto più m’immedesimo nel ruolo di padre, tanto più mi allontano e volto le spalle alle mie esigenze di uomo e ai miei sogni. Eppure, stasera sono qua e ti penso, e sento che hai oltrepassato i confini del mio Fuori e del mio Dentro. Provo gioia e provo paura, provo, soprattutto, un sentimento di cui avevo perso memoria: la speranza.
16 Dicembre 2014 giovedì
Mi sveglio come se mi aspettasse il giorno più bello della mia vita. Stamattina, nessuna lacrima tra le ciglia, ho aperto gli occhi, sono asciutti e riposati e, nello stomaco, nessun sentore di nausea, nessun conato di vomito pronto a travolgermi, bensì un appetito inatteso. Mi sento allegra e mi sembra che tutta la casa sorrida al mio passaggio. Una quiete benevola accompagna ogni mio gesto. Provo a contare da quanti giorni non è più così, ma tornare indietro, alla data della perdita, mi sta già riportando nell’abisso e io non ne posso più dell’aurea nera che cinge tutta la mia persona. Devo guardare avanti, io devo!, è un imperativo a cui non posso più sottrarmi. Inizio a strappare le pagine del calendario, mi ricordano solo che non ci sei più e, da quel giorno di marzo in cui ti persi, tutta la mia vita si è trasformata in un fiume emorragico di dolore.
Ho perso tutto, Aurora: ho perso te, ho perso tuo padre, la nostra casa, il nostro