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La via maestra
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Ebook178 pages2 hours

La via maestra

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About this ebook

Paolo, unico figlio di una famiglia estremamente religiosa, viene designato alla vita sacerdotale sin dalla nascita.

Il sogno dei genitori è che segua le orme del loro antenato vescovo, poco importa se in lui ci sia o meno la vocazione.

In seguito ad una tragedia, che lascia in lui un vuoto immenso, il giovane ventenne decide di entrare in seminario con l'intercessione del suo padre spirituale. Paolo, studente eccellente, prende i voti pronto a iniziare quel cammino di fede ascetico e difficoltoso, ma è davvero convinto della sua scelta? Non basta una precaria vocazione ad affrontare quella vita fatta di rinunce e contemplazione; la sua bellezza attirerà l'attenzione del sesso opposto e la sua fede viene presto messa alla prova: riuscirà Paolo a resistere alle tentazioni?
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateDec 18, 2017
ISBN9788892695122
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    La via maestra - Nicola Polverino

    twitter.com/youcanprint.it

    Premessa

    L’autore, dopo la pubblicazione di Il mio cammino per Santiago de Compostela, cammino fatto personalmente e che lo ha molto influenzato, ha deciso di riversare parte di questa sua esperienza nel suo nuovo romanzo, La via maestra, dove parlerà ancora di viaggi, soprattutto di quelli dell’anima.

    Paolo, il protagonista, è alla ricerca della retta via, smarrita per un amore terreno e non più spirituale: l’amore proibito, l’ignoto e la trasgressione lo tentano e lo seducono.

    Paolo è un uomo dilaniato da emozioni contrastanti: sofferenza e gioia, pena e soddisfazione, angoscia e serenità. L’amore lo sostiene e lo distrugge. Egli rappresenta, per l’autore, colui che cerca l’azione più giusta da compiere, che tenta di ritrovare la tanto agognata via maestra che gli è stata indicata da sempre e che lo ha formato nel giusto comportamento sociale e nel vivere secondo le regole, ma da cui il cuore lo ha costretto a deviare.

    A volte i sentimenti conducono su strade diverse, impervie e pericolose, deviano dalla retta via, deragliano dai limiti della ragione, impedendo all’uomo di governare lucidamente la propria vita.

    È facile perdere la via maestra, ma più difficile è ritrovarla.

    Nicola Polverino

    Prologo

    Lunedì 3 giugno 1996.

    L’eremo di San Giorgio di Bardolino e tutta la vallata erano coperti da una coltre di fitta foschia: nei giorni precedenti aveva fatto molto caldo, ma ora la temperatura era scesa di almeno cinque gradi. La prima settimana di giugno, sicuramente più fresca, era l’ideale per la raccolta delle primizie stagionali: albicocche, pesche, pomodori e altri ortaggi donavano colore alle campagne circostanti dell’eremo. Anche quell’anno l’abate aveva convocato per la raccolta una decina di extracomunitari, coadiuvati dai volontari della comunità, sempre disponibili ad agevolare i lavori.

    L’eremo di San Giorgio, con la sua foresteria appena restaurata, era diventato una casa d’accoglienza per questi lavoratori che per sei mesi l’anno si riversavano su Bardolino e dintorni. Da maggio a ottobre le attività agricole diventavano il fiore all’occhiello del convento; si cominciava dalla raccolta delle primizie e si terminava con la vendemmia. Il grosso della produzione veniva portato al mercato ortofrutticolo locale di Valleselle, sulle incantevoli colline del Lago di Garda. Il ricavato era destinato ai lavoratori stagionali e quello che rimaneva era a disposizione del priore per la manutenzione del convento.

    L'abbazia fu fondata nel XVII secolo, non era così antica come gli altri conventi Benedettini, ma all’epoca aveva goduto di un certo splendore; per le comunità circostanti di quel periodo era stato anche un punto di riferimento per il progresso agricolo.

    Negli orti i monaci avevano sperimentato sapientemente nuove colture, seguendo indicazioni e consigli conservati nei manoscritti da loro custoditi nei secoli.

    In quel tempo la comunità monastica era gremita, l’eremo possedeva circa quaranta ettari di terreno e fu proprio in quei campi che iniziarono a germogliare i nuovi vitigni, che avrebbero poi portato alla nascita del famoso vino Bardolino.

    L’eremo era una fucina di sapienza e le comunità sottostanti non potevano che trarne grande beneficio.

    Quella mattina, di buon’ora, i monaci Benedettini Camaldolesi ebbero una gradita sorpresa: erano quasi le otto quando padre Saverio sentì bussare con insistenza al maestoso portone di legno. Aperto lo spioncino, il cellerario vide per la prima volta il viso di padre Paolo e, pensando che si trattasse di un altro lavoratore stagionale, disse: ‹‹Ci dispiace, ma siamo al completo. Rivolgetevi all’ufficio di collocamento, giù in paese, loro sapranno indirizzarvi altrove››. In effetti, l’uomo che aveva bussato al portone vestiva abiti semplici, nessuno avrebbe mai potuto pensare che fosse un prete. Allora padre Paolo, rispondendo garbatamente al cellerario, disse:

    ‹‹magari fossi un lavoratore stagionale e potessi operare subito nella vigna del Signore, ma non sono qui per questo››.

    Padre Saverio, ascoltando quelle parole rimase di stucco.

    ‹‹Allora, buonuomo, cosa volete?››.

    ‹‹Gradirei parlare con l’abate, vengo da Roma››.

    ‹‹Chi siete?››, domandò padre Saverio incuriosito. Nella sua mente cominciò a fantasticare su ipotesi di ogni genere: aveva forse di fronte un ispettore ecclesiastico? Oppure un inquisitore? Da anni ormai non vedeva nessuno arrivare da Roma.

    Padre Paolo percepì i dubbi del cellerario e subito si presentò in qualità di esperto bibliotecario.

    ‹‹Ho una busta sigillata da parte del cardinale Costanzo Clemente, dalla Santa Sede, la prego di porgerla all’abate››.

    ‹‹Attenda un attimo, non posso farla entrare: sono le regole!››, disse padre Saverio chiudendo lo spioncino e mettendosi di corsa alla ricerca di padre Vincenzo, l’abate dell’eremo. Non fu facile scovarlo poiché quel giorno, di buon mattino, era andato a Bardolino a prelevare alcuni operai affinché sistemassero il tetto della foresteria dove alloggiavano gli stagionali extracomunitari. Padre Saverio lo trovò lì ad armeggiare con una corda insieme agli altri braccianti. ‹‹C’è una persona che le vuole parlare, questa è la sua lettera di accompagnamento: viene dalla Santa Sede››, disse padre Saverio mostrandogli la lettera con ubbidienza.

    ‹‹Dove si trova costui?››, chiese l’abate.

    ‹‹È fuori ad aspettare››.

    ‹‹Fallo entrare, e digli di aspettare in biblioteca, lo raggiungerò tra poco››, detto questo, l’abate andò a cambiarsi gli abiti da lavoro per indossare il suo più ordinato e presentabile saio.

    L’abate aveva il privilegio di sedere in uno studio centenario che altri priori, suoi predecessori, avevano arricchito con volumi e oggetti antichi.

    La scrivania di noce massiccio, non più splendente come una volta, ora si presentava macchiata di inchiostro e segnata da vecchi graffi; era posta di fronte alla biblioteca e sulla parete destra, ben visibile, svettava un quadro di un artista anonimo del Seicento raffigurante la Madonna col bambino, un’opera di grande valore che non aveva mai varcato le porte del monastero.

    Dallo studio, attraversando un piccolo corridoio, era possibile raggiungere la biblioteca che possedeva più di ventimila volumi, tra cui spiccavano testi di scienze religiose e naturalistiche, di sociologia e di storia. L’accesso alla biblioteca era limitato solamente agli studiosi che, a vario titolo, ne facevano motivata richiesta.

    L’abate prese dal cassetto un antico tagliacarte di legno, ricavato da una radice di olivo e modellato con raffinatezza, e aprì la lettera che gli era stata consegnata. L’intestazione riportava il nome del cardinale Costanzo Clemente, dall’Ufficio Generale delle Relazioni Monastiche.

    Padre Vincenzo avvertì un brivido, non aveva mai ricevuto una lettera dal Vaticano. L’abate era un grande esperto di pittura sacra del XVI e XVII secolo e il Vaticano gli riportava alla memoria l’arte splendidamente conservata dei Musei Capitolini e della Cappella Sistina. A Bardolino, il priore aveva potuto approfondire i suoi studi su quell’arte così pura e maestosa che aveva portato in auge la Chiesa e il monachesimo di quei secoli.

    Padre Vincenzo scosse il capo per riprendersi da quelle fantasticherie che gli vorticavano nella mente e iniziò a leggere:

    Egregio abate Vincenzo La Mura

    Le scrivo dalla Santa Sede e le parlo a nome dell’Ispettore generale dell’Ordine dei frati Benedettini Camaldolesi, Monsignor Giulio Tancredi. Non ho osato disturbarla telefonicamente, ho preferito scriverle questa lettera e farla consegnare direttamente nelle sue mani, in questo modo ho voluto riportare alla memoria gli anni in cui scrivere e ricevere la posta rappresentavano un privilegio e una regola per le vostre comunità. Come lei, amo la lettura dei libri antichi; l’odore della carta e della pergamena mi riporta in un mondo arcaico.

    Senza la vostra opera di saggi cultori e conservatori di molteplici manoscritti e opere di antica importanza, la Chiesa oggi non possiederebbe quella testimonianza di cultura e sacralità che ancora oggi la contraddistingue.

    Ma veniamo al nocciolo della questione: l’uomo che si è presentato oggi al vostro eremo non è un semplice emissario, egli è padre Paolo, un salesiano che sta attraversando un momento di crisi e di sofferenza, un agnello smarrito che vorrei affidarvi in modo che possiate condurlo sulla retta via.

    Padre Paolo è in un momento di difficoltà, si trova a un bivio della sua vita: è preso da visioni mistiche e ha ceduto al piacere della carne. Ha intenzione di sciogliere i voti e rifugiarsi in un convento per espiare le sue colpe, mi auguro di cuore che ci ripensi, ma ho i miei dubbi, lo vedo molto determinato. È ancora frastornato, un periodo di riposo senz’altro gli gioverà per tornare sui suoi passi.

    Ci tengo a esprimere la mia totale ammirazione per il lavoro che state portando avanti per il recupero della biblioteca; spero che non le sia di troppo disturbo trovare anche una giusta sistemazione per padre Paolo e prego per lui affinché, con la sua freschezza, possa dare un tocco di modernità e di speranza al convento.

    Prometto di venire a trovarvi al più presto, siamo molto impegnati per il prossimo Concistoro, ma il Santo Padre vorrebbe visitare qualche monastero e mi impegnerò a segnalare il suo come uno dei più meritevoli.

    Nel frattempo le porgo i miei più sentiti ossequi e la ringrazio anticipatamente per i consigli che, sono certo, saprà dare a padre Paolo.

    Distinti saluti 

    Non me la racconta giusta, rifletté tra sé l’abate, questo individuo è qui per redimersi da qualche grave colpa.

    Lo sguardo di padre Vincenzo si perse nella Madonna col bambino che aveva davanti a sé, aspettando forse un cenno, un’approvazione da parte della Vergine, ma per il momento non riuscì a trovare risposte ai suoi dubbi. Se davvero l’ospite era così fortemente motivato a condurre la vita monastica, allora il miracolo era già avvenuto: da decenni non riceveva più la visita di uomini illuminati dalla vocazione divina. Negli ultimi anni i monasteri erano diventati solamente luoghi spirituali per le comunità circostanti e, talvolta, anche ospizi per gli ammalati.

    Nel frattempo il cielo si era coperto di nuvole minacciose, di lì a poco la pioggia avrebbe cominciato a scendere sull’eremo e bisognava far presto a riparare la tettoia.

    L’abate lasciò la lettera sulla scrivania e, di corsa, si diresse verso gli operai a impartire gli ultimi ordini, quasi dimenticando che padre Paolo lo stava ancora aspettando in biblioteca.

    Assolto il compito incombente della tettoia, padre Vincenzo andò incontro al nuovo ospite che lo attendeva in piedi tra i tantissimi libri che giacevano, uno dopo l’altro, sulle ampie scrivanie e sui numerosi scaffali della biblioteca.

    ‹‹Buongiorno padre Paolo, è il benvenuto qui tra noi!››, disse il priore, allungando la mano per salutarlo, ‹‹Ho letto la lettera che ha portato con lei e vorrei approfondire questa sua decisione di far parte del nostro ordine; prima, però, dobbiamo onorare il pranzo con gli altri fratelli, è quasi ora! Se non ha nulla in contrario, per adesso mi limiterò a presentarla come un esperto bibliotecario venuto da Roma per aiutarci nel riordino dei libri presenti nella nostra struttura››.

    Padre Paolo acconsentì senza replicare alle parole dell’abate e con referenza lo seguì nel refettorio dove erano riuniti tutti gli altri frati.

    La pioggerellina iniziale diventò sempre più fitta e violenta, un misto di pioggia e piccoli chicchi di grandine cominciò a battere con forza sulle maestose vetrate del monastero. Era inusuale che a giugno si scatenasse un acquazzone di quella portata, l’abate pensò che il clima era davvero cambiato negli ultimi anni.

    ‹‹Giusto in tempo, la tettoia è salva!››, esclamò, mentre in lontananza si udirono i tocchi della campana di mezzogiorno, ancora suonata a mano da padre Francesco.

    Ricongiungendosi agli altri frati, padre Vincenzo, come d’accordo, presentò il nuovo arrivato in veste di esperto di testi antichi, venuto da Roma per sistemare, in tempi brevi, tutti i volumi della biblioteca. I confratelli non fecero domande e accolsero padre Paolo con moderata e contenuta gioia.

    I frati furono costretti a mangiare frettolosamente: cominciava a piovere a dirotto e bisognava, al più presto, mettere al sicuro il convento. Ognuno aveva il suo compito: chi chiudeva le imposte delle finestre, chi metteva al riparo gli attrezzi dei campi sparsi nel cortile, chi ritirava gli indumenti dei fratelli ancora umidi stesi al sole del mattino e chi, come padre Giuseppe, metteva al riparo gli animali da cortile che razzolavano liberamente nell’aia del grande eremo.

    Padre Vincenzo approfittò di questo trambusto generale per recarsi nuovamente con padre Paolo nell’ampia biblioteca.

    L’abate prese subito la parola e si rivolse a padre Paolo in tono fermo e austero:

    ‹‹Padre Paolo, pur non mettendo in dubbio la parola del cardinale Costanzo, non le nascondo che ho qualche riserva sulla veridicità di quanto mi ha scritto. Se lei è qui per qualche colpa grave, l’avverto che non sarò suo complice. È di fondamentale importanza nella nostra comunità circondarci di uomini devoti e inflessibili nella propria fede››.

    Padre Paolo non sembrò per niente intimorito dalle parole severe e schiette dell’abate, ma si limitò a sedersi, invitando l’interlocutore a fare lo stesso.

    ‹‹Padre Vincenzo,›› disse, ‹‹ho commesso un solo peccato nella mia vita sacerdotale ed è stato quello di amare una donna. Sono consapevole che il Signore ci mette costantemente alla prova, ma la mia colpa più grave è di aver ceduto alla tentazione. È da tre anni che ho intrapreso questa relazione: è stato un inferno, una lotta continua tra il bene e il male, tra l’amore spirituale e quello materiale. Lei mi ama, mi

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