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La terra di sopra
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La terra di sopra

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About this ebook

Gorizia 1499, Lorenzo è figlio del capitano Guglielmo Della Valle, morto in pellegrinaggio per espiare una colpa: aver causato la morte di Brigitta, una giovane del luogo. Giunge da Firenze per incombenze di carattere ereditario, ma anche per scoprire come si sono svolti i fatti, e per saperne di più su suo padre, che aveva abbandonato la famiglia anni prima. Qui trova Mainardo, amico d’infanzia, e Rodolfo, pupillo di Guglielmo, che da subito gli mostra ostilità. Ma non è l’unico. Lorenzo viene così coinvolto in una serie di intrighi, delitti e misteri. Chi sono le dee del fato che tessono il suo destino? Chi lo sta proteggendo da pericoli e macchinazioni? Che ruolo ha l’atropa, “ombra mortale della notte”? E infine, riuscirà a realizzare il suo sogno d’amore per Caterina?
LanguageItaliano
Release dateJan 31, 2018
ISBN9788899819767
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    La terra di sopra - Fosca D'Agostino

    Indice

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    Ringraziamenti

    Nota dell’autrice

    Note

    Ai miei cari. 

    A Farra d’Isonzo, 

    dove riposano i miei genitori. 

    E a tutte le vittime dell’odio.

    Temperino rosso edizioni

    Prima edizione Brescia 2018

    Grafica Afo-TR designer

    © 2018 Temperino Rosso Edizioni Fortini

    ISBN 978-88-99819-76-7

    LA TERRA DI SOPRA

    L’ombra mortale della notte

    Fosca D'agostino

     CAPITOLO 1 

      Febbraio 1499 

      Forse camminava da ore. La notte era fredda, senza luna. Una pioggerellina sottile, ma insistente, le aveva reso il lungo abito scuro appiccicoso sulle gambe. E questo le creava disagio. Le caviglie affusolate faticavano a farsi strada in mezzo alla fanghiglia che si era formata sul sentiero. Non era cosciente di dove si trovasse, l’oscurità l’aveva resa cieca. 

      Si sentì pervadere dalla paura. Il cuore cominciò a batterle forte, si portò una mano al petto, come se questa potesse calmarne il ritmo; con l’altra si scostò dalla testa il velo nero che la ricopriva e dal viso i capelli bagnati che le scendevano pesanti sulle spalle. Si arrestò. 

      Gocce di pioggia le accarezzavano il volto e dal mento le scivolavano sulla scollatura quadrata del vestito. Il petto minuto si alzava ed abbassava sotto il respiro affannoso, mentre gli occhi cominciavano ad abituarsi al buio e, gradualmente, le cose intorno a lei prendevano forma. 

      Improvvisamente fu come se già sapesse ciò che stava per accadere. Riprese la camminata a passi lenti, e i piedi nudi superavano incerti i sassi che la conducevano al fiume. Davanti a lei si stagliava lo specchio d’acqua, che le precipitazioni abbondanti avevano gonfiato, parzialmente coperto di rovi e sterpaglie. Con le mani si aprì un varco. 

      Un brivido freddo le corse lungo la schiena. Sull’acqua, aggrovigliato fra i rami, avvolto in una camicia bianca, galleggiava il corpo di una giovane donna. I capelli castani le ornavano il volto che la nemica morte aveva reso cereo. La conosceva, oh, sì, la conosceva bene! 

      Si sentì mancare e sprofondare in un vortice che pareva non avesse fine … 

      Fu allora che Adele aprì gli occhi. Per un attimo faticò a ricordare dov’era: sopra di lei il soffitto, formato da travicelli tarlati tinteggiati di scuro; alla sua destra la piccola finestra quadrata inserita in una nicchia, ai cui lati torreggiavano due candelabri accesi a due bracci; di fronte, il focolare a braci ormai spente, dal quale pendevano alcune catene e sulle quali erano sospese delle ventole che servivano ad alimentare la fiamma, delle molle per afferrare le braci, e delle pale per asportare la cenere. Su dei ganci erano appesi gli alari, i paioli di rame, i mestoli di ferro e una caldaia. 

      Accanto alla parete c’era un cofano di legno povero, senza intarsi, contenente i vestiti e la biancheria. Nel centro della stanza due cavalletti sostenevano un’asse rettangolare che serviva da tavola, e intorno ad essa quattro panchetti circolari che servivano da sedili. La riconobbe: quella era casa sua. 

      Mosse piano la testa, sprofondata su un piccolo cuscino, e fermò lo sguardo sulla ragazza seduta poco distante, su una panca, che stringeva un fuso tra le esili dita, intenta a ricamare. Aveva una scriminatura al centro della fronte e i capelli biondissimi raccolti in una lunga treccia avvolta in una reticella dorata. Quando la giovane si accorse del suo risveglio le puntò in faccia due splendidi occhi, due pietre smeraldine intarsiate in un ovale perfetto. 

      «Finalmente! La febbre vi ha lasciata» le disse con un dolce sorriso, avvicinandosi al lettino. 

      «Avete di nuovo vegliato il mio sonno…» mormorò lei. 

      «È stato alquanto inquieto» le rivelò l’altra. Adele non rispose, si volse su un fianco. Il volto pallido come la porcellana. «Di nuovo quel sogno?» Il silenzio di Adele era una conferma. «Perché vi tormentate così? Era destino» continuò la giovane. 

      «Il destino non esiste!» gridò lei. «Siamo noi a determinare il destino.» 

      «Comunque ora lei dorme. È in pace.» 

      «Sono io che non ho pace! Il ricordo di quel giorno è così vivido nella mia mente che lo percepisco come fosse ora… Da allora la sogno quasi tutte le notti. Volevo proteggerla, ma non ne sono stata capace.» 

      «Non è stata colpa vostra.» 

      «Sì, invece!» Adele si alzò a sedere sul letto. 

      «No, che fate! Non vi siete ancora rimessa del tutto» esclamò la ragazza cercando di fermarla. 

      «Quanto ho dormito?» chiese a quel punto Adele, scostandosi di dosso la coperta di lana. 

      «Due giorni.» 

      «Due giorni?!» ripeté lei stupita. «È venuto qualcuno alla bottega?» domandò poi. 

      «Sì. Mastro Candido. Voleva un ricostituente per la moglie che soffre di debolezza alle gambe e si sente spossata. Le ho dato dei rami di serpillo per ravvivarle lo spirito e assicurarle un po’ di vigore.» 

      «Avete fatto bene» assentì lei, indossando una sopravveste sulla camicia. 

      «Poi, anche madonna Sofia» proseguì la ragazza. «Le serviva qualcosa per imbiancare i suoi merletti. Le ho venduto foglie e radici di saponaria da bollire in acqua.» 

      «Mi avete dato qualcosa per la febbre?» chiese ancora Adele iniziando, con la mano sinistra, a spazzolarsi i capelli. 

      «Ai primi eccessi ho cominciato con una dose di succo di acetosella.» 

      «A quanto pare siete divenuta una speziale anche voi, Caterina. Posso dunque morire tranquilla.» 

      «Non ditelo neanche per scherzo!... E poi mi sono limitata a seguire le istruzioni di mastro Oliviero.» 

      «Un prezioso collaboratore e amico.» 

      «Ah! È venuto anche messer Mainardo» sovvenne alla giovane. «Era preoccupato per il vostro malessere.» 

      «Preoccupato!?» Adele rimase con la spazzola per aria. 

      «È innamorato di voi» espresse Caterina, stringendo le labbra in un sorriso accattivante. 

      «Dite?» 

      Caterina aiutò Adele a raccogliere i capelli sulla nuca. 

      «Ne sono certa. La cosa non vi fa piacere?» 

      «Perché dovrebbe?» pronunciò secca Adele, restando sì, sorpresa della cosa, ma alquanto indifferente. 

      «Oh, a me lo farebbe… Mi farebbe contenta, voglio dire.» Caterina arrossì debolmente, vergognandosi per la sua stessa intraprendenza. 

      «Siete innamorata di qualcuno?» 

      «Oh, no!» 

      «Però desiderate esserlo.» 

      Caterina chinò lo sguardo, chiaramente imbarazzata. 

      «Sogno l’amore eterno» sospirò, «come quello dei miei genitori.» 

      «Vi auguro di trovarlo… Che ora è?» 

      «È quasi sera.» 

      «Allora, suvvia, tornate a casa» la sollecitò Adele, «non vorrei che per strada vi sorprendesse il buio.» 

      «Non è bene per voi rimanere sola, lasciate che resti anche questa notte. Almeno fino al ritorno di mastro Oliviero dal Porto. Domattina sarà qui con le nuove spezie.» 

      «Come volete.» Adele socchiuse gli occhi e una marea di ricordi le tornarono alla mente. 

      Era rimasta orfana di entrambi i genitori e all’età di nove anni era stata condotta in casa dell’unico parente rimastole, lo zio paterno Ivano Manso: un uomo che per darsi ai piaceri della vita aveva rinunciato a farsi una famiglia sua e non era perciò molto propenso a prendersi cura di una ragazzina. L’estrema sofferenza era così entrata nella vita di Adele quando si era sentita rifiutata dall’unico canale che la collegava alle sue origini. 

      Venne così accolta in casa di Mastro Adriano Mariano, un uomo sposato che aveva una figlia di qualche anno più piccola di lei, Brigitta. Era uno speziale, e al piano terra della sua abitazione c’era un locale che dava sulla strada e che egli aveva adibito a bottega. Nella casa erano ospitati altri ragazzi e ragazze che lì apprendevano un mestiere e una educazione. Essi mangiavano e dormivano presso la famiglia del mastro. 

      Ivano Manso, così come i parenti e i genitori degli altri ragazzi, aveva stipulato col mastro un contratto di apprendistato, che di norma durava da uno a tre anni, ma che nel caso di Adele era durato molto di più. Dopo il primo anno le erano stati inclusi nel contratto il vestiario e le scarpe. Adele si occupava anche dei lavori domestici, con cui ripagava in parte il mantenimento e l’insegnamento. Fu così che fu avviata al mestiere di speziale. 

      Nel corso degli anni tutti gli altri ragazzi, trascorso l’apprendistato, avevano lasciato la casa del mastro e si erano costruiti una vita e un mestiere propri. Lei era rimasta. Accolta come una vera figlia si era fortemente attaccata alla famiglia del mastro, in special modo alla piccola Brigitta, ed aveva legato particolarmente con Oliviero, garzone nella bottega dello speziale. Ma i sentimenti non c’entravano, i due si incontravano solo caratterialmente, entrambi amavano le spezie, le erbe, i fiori, le tinture, i profumi. 

      Il desiderio di entrambi era quello di riuscire ad ottenere un riconoscimento alla loro attività, che era piuttosto in ombra a paragone di quella del medico. Lo speziale non frequentava scuola di medicina, non aveva alcun titolo professionale, ed era troppo spesso confuso con il droghiere ed il ceraiolo. Preparava e vendeva a prezzi contenuti anche le medicine prescritte dal medico. 

      Alla morte di mastro Mariano e consorte, la bottega venne portata avanti da Adele e Oliviero poiché Brigitta, unica erede, non era interessata al mestiere del padre ed era stata promessa in sposa a un giovane di buona famiglia e, come da usanza della Patria del Friuli1, si era trasferita a vivere ancora impubere nella casa del fidanzato. Adele non aveva preso affatto bene questo distacco. Era rimasto indelebile nella sua mente il giorno in cui, davanti al notaio Demetrio Fusco, i due futuri sposi avevano giurato sui Vangeli di prendersi come tali, ribadendo la loro intenzione di congiungersi con il matrimonio e con l’unione fisica, a Dio piacendo, entro una certa data. Fusco aveva scandito la formula notarile definendo gli accordi prematrimoniali e ricordando loro che il fidanzamento era un impegno per verba de futuro2, e che il matrimonio che ne sarebbe seguito era indissolubile. 

      Indissolubile: una parola che ad Adele era subito apparsa terribile. 

     Gli anni d’infanzia trascorsi insieme a Brigitta, le corse spensierate sui prati nelle giornate di primavera, la scuola a casa del mastro, il lungo chiacchierare prima di addormentarsi, i giochi ingenui. Tutto finito! In quel giorno qualcuno gliela aveva portata via. 

      Tuttavia avevano continuato a vedersi. Brigitta si era confidata con lei fin da piccola: le aveva sempre rivelato i suoi pensieri, i suoi sogni, le sue intenzioni, come ad una complice. Dopo quel giorno era andata via via confidandole anche le sue sensazioni, le sue emozioni, i suoi sentimenti, i suoi batticuori per quel suo giovane innamorato, che ben presto sarebbe divenuto il suo sposo, senza nemmeno rendersi conto di quanto male le facesse. 

      Una fugace lacrima le scivolò lungo la guancia. L’asciugò in fretta, prima che Caterina potesse notarla.

     CAPITOLO 2 

      L’uomo aveva all’incirca 60 anni. Indossava un abito bipartito a due colori, a righe verticali, e una sopravveste che gli arrivava alle ginocchia. Le gambe erano ricoperte da calzebrache di tessuto pesante, separate fra loro e legate ad una cintura. In testa portava un copricapo di lana conico e floscio con l’estremità ripiegata e munito di paraorecchie che lo riparavano dal vento. I piedi, che calzavano scarpe in stoffa, erano infilati negli stivali di cuoio chiusi alle caviglie con stringhe, anch’esse di cuoio. 

      L’aria gelida gli sferzava il volto incolore e stanco per il lungo viaggio che fortunatamente era quasi giunto al termine. Stava tornando a casa. Ora, era già in terra italiana. Aveva da poco lasciato la via Francigena e si era immesso nella via Tolosana3. 

      Con la speranza di ripararsi dal freddo intenso, si strinse nella casacca pesante foderata di pelliccia e di tinta scarlatta, colore adeguato al suo rango. Era affamato: nell’ultimo ospizio in cui s’era fermato si erano rifiutati di ospitarlo e sfamarlo a causa del suo vestiario non propriamente da pellegrino. Era ancora un uomo orgoglioso e superbo e non aveva voluto indossare umili vesti. 

      Non era solo, intorno a lui altri pellegrini, a piedi o a cavallo, lo accompagnavano in quel lungo viaggio impervio, scortati da alcuni cavalieri di un ordine monastico militare4. La maggior parte dei viandanti indossava un lungo mantello che li ricopriva dalla testa ai piedi, con un cappuccio, la tipica pellegrina appunto, e stringevano in una mano un bastone da marcia e nell’altra un rosario. Erano trasandati e sudici. Molti di essi, fortemente influenzati dal cristianesimo, avevano lasciato le loro case e le loro famiglie per raggiungere quel luogo di culto che era Santiago de Compostela, in Galizia, nella Spagna nord-occidentale, per venerare la reliquia di San Giacomo, figlio di Zebedeo, che la Bibbia definiva il maggiore. Quei pellegrini speravano di ricevere in cambio qualche grazia o addirittura la salvezza eterna. 

      Ma per lui, il Capitano Guglielmo Della Valle, fiorentino, non era così, la fede non c’entrava. Si trovava lì per espiare. Aveva subito un processo ed era stato riconosciuto colpevole, anzi, poteva ritenersi fortunato se non avevano deciso di giustiziarlo o rinchiuderlo in un carcere a vita. 

     Gli avevano dato una sola possibilità: scegliere la destinazione del suo pellegrinaggio, poiché la sua pena consisteva in un obbligo di carattere religioso. Le tre destinazioni principali erano: Gerusalemme, in Terra Santa, sulle orme di Cristo; Roma, dov’erano situate le chiese degli Apostoli Pietro e Paolo; e Santiago. Ed egli aveva optato per quest’ultima. 

     Prima di partire aveva preferito fare testamento perché non era inusuale che un pellegrino morisse per strada a causa delle incognite del viaggio: precarie condizioni climatiche, scarse condizioni igieniche, fame, predoni. Aveva designato come erede della maggior parte delle sue ricchezze il figlio Lorenzo, che viveva a Firenze e che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe dovuto fargli celebrare una messa nella ricorrenza annuale della sua dipartita. Aveva anche predisposto che un possedimento e una cospicua somma in denaro andassero al suo pupillo, Rodolfo. Inoltre, chiunque avesse pregato per l’anima sua nell’anniversario della sua morte avrebbe ricevuto in dono del cibo. Purtroppo sapeva bene che questa possibilità era assai remota: non era mai stato molto popolare nella comunità. 

      Adesso sognava solo di tornare a casa sua, situata appena sotto il 

     castello di Gorizia5, nel borgo. Bramava tornare a casa! Riprendere la sua attività al comando del Capitano Governatore Virgilio de Graben6, che amministrava la Contea. La sua mansione consisteva, oltre che occuparsi degli affari politici e militari, anche, per benevolenza dello stesso Graben, nel percepire affitti, canoni, decime. 

      Voleva riprendersi la sua autorità, la sua onorabilità, far sapere a tutti che aveva pagato il conto con la giustizia. Ma adesso era sfinito, si sentiva moralmente solo, aveva freddo e aveva fame. Anche il suo cavallo era sfinito. Lungo il tragitto aveva cambiato cavallo più volte per poter proseguire con più tranquillità, questo gli aveva consentito di percorrere buona parte del viaggio mantenendo una buona media giornaliera, che era quella di circa diciotto miglia in pianura. 

      Nella locanda seguente, s’era ripromesso, avrebbe cambiato cavallo di nuovo, si sarebbe ristorato e avrebbe potuto riposarsi, finalmente! Intanto, però, avrebbe dovuto affrontare un’altra lunga notte. Il suo corpo fu ora percorso da brividi. Uno spasmo nello stomaco gli procurò una certa nausea. Non sapeva più che ora era, né dove si trovava. Le palpebre si facevano sempre più pesanti e faceva sempre più fatica a mantenere gli occhi aperti. Una vertigine lo fece cadere da cavallo. Annaspò come per cercare l’animale che nel frattempo si era allontanato, ma le sue mani non fecero altro che colpire l’aria. Il respiro già corto si fece sempre più flebile. Sentì i passi concitati di qualcuno che gli si avvicinava, e un parlottio. 

      «Poveretto. Chissà chi era?» 

      Qualcuno, forse credendolo già morto, gli afferrò la borsa che portava a tracolla, e qualcun altro gli sfilò l’enorme anello con sigillo che portava al dito, poi più nulla… 

      Fine febbraio 1499 

      «Fa piuttosto freddo, là fuori» disse l’uomo facendo il suo ingresso nella spezieria, mentre si raccoglieva nel suo mantello. 

     Era sulla quarantina, emaciato e raggrinzito, dimostrava più dei suoi anni. Mentre entrava fu assalito da un forte calore al viso, causato dall’attrito fra il freddo dell’esterno e il caldo della bottega. Guardandosi attorno si fece strada fra gli scaffali pieni di profumi, essenze, cere, candele, carta, inchiostro e colori da pittura. E ancora erbe, sementi, radici, spezie, oli, sciroppi e unguenti. Dalla parte opposta della stanza, su vari pensili, c’erano gli strumenti del mestiere: vasi, scatole, scodelle, mortai, pestelli, un torchio e una bilancia. 

      Adele, intenta com’era a preparare un farmaco per una cliente che aveva davanti, rivolse un semplice e fugace saluto all’uomo. Oliviero, invece, gli rivolse tutta la sua attenzione. 

      «In cosa possiamo servirvi, Rizzardo?» 

      «Il solito rosmarino per il mio elisir. Lo faccio macerare nel vino rosso, come donna Adele mi ha consigliato: è un vero toccasana.» Unì pollice e indice della mano destra e se li portò alla bocca facendo schioccare un bacio. «Ne bevo un goccio ogni mattina, al risveglio: mi dà la carica per affrontare la giornata.» 

      «Sicuramente» confermò Oliviero. «Ma avete mai provato l’Acqua della Regina d’Ungheria7? 

      «No. Di che si tratta?» chiese l’uomo incuriosito. 

      «È un elisir a base di rosmarino, ma è già pronto. Ne prendete una dramma una volta a settimana, con una bevanda o con la carne. Rinnova le forze, solleva lo spirito, cura la tristezza. Dà nuova lena, vedrete.» 

      «Va bene, ne prendo un po’…» decise l’uomo. «Avete saputo la notizia?» continuò poi, stropicciandosi le mani nell’intento di riscaldarle. 

      «Che notizia?» chiese Oliviero, incartando una piccola ampolla colma del distillato. 

      «Guglielmo Della Valle» rispose quello. 

      «È tornato?» domandò lo speziale. 

      Adele si bloccò. Anche la cliente che aveva di fronte si volse verso il nuovo arrivato. 

      «È morto.» 

      «Oh, poveretto…» esclamò la cliente. 

      «Non era in viaggio?» chiese ancora Oliviero. 

      «In pellegrinaggio» confermò Rizzardo. «È morto per strada. Di freddo e di stenti, pare.» 

      Adele non commentò quella notizia, ma si sentì come disorientata, le parve che l’intera stanza girasse vorticosamente intorno a lei. Cercò di portare a termine quello che stava facendo, ma si rese subito conto che non riusciva a concentrarsi e che stava sbagliando il dosaggio delle erbe. Inoltre le mani iniziarono a tremarle vistosamente. 

     «Ho sentito che Il figlio, perché ha un figlio,» specificò l’uomo «giungerà presto a Gorizia per le disposizioni testamentarie.» 

     «Oliviero, ti dispiace continuare da solo?» interruppe a quel punto Adele. «Scusatemi» disse poi rivolta ai due clienti. Quindi si allontanò dal locale. Entrò nel bugigattolo adiacente il negozio e nascose il volto tra le mani lasciandosi accasciare su una panca e scoppiando in un pianto dirotto. Oliviero la raggiunse non appena i due clienti se ne furono andati. 

      «Adele, ti senti bene?» le domandò, posandole una mano su una spalla. 

      «Sì. Va meglio» sussurrò lei scostando le mani dal viso e rivelando un pallore mortale. 

      «Bevi un po’ di questo cordiale» disse l’uomo, porgendole un minuscolo bicchiere di metallo pieno di un liquido corroborante. 

      «Mastro Rizzardo… e madonna Dora… Li hai serviti?» si preoccupò lei. 

      «Sì, se ne sono già andati. Non pensavo la prendessi in questo modo. Mi dispiace che la morte di quell’uomo ti faccia soffrire così tanto.» Corrugò la fronte e la guardò con occhi interrogativi, tondi e scuri. 

      Ella gli sorrise debolmente. 

      «Non capisci? Io sono contenta che sia morto» dichiarò lei con voce roca. 

      Oliviero restò pietrificato. 

      «Adele, ma che dici? Non si può gioire per la morte di qualcuno!» obiettò. 

      «Per la sua, sì. È stato lui a cagionare la morte di Brigitta» sentenziò, dura. 

      «È stato processato per questo. Ha pagato il suo debito con la giustizia.» 

      «Ma non ha pagato il suo debito con me» scandì lei. 

      «Perché, che cosa ti ha fatto? Adele, non mi dirai che anche con te…» 

      «No.» 

      «E allora?» 

      «Ma non capisci? È vissuto ed è morto senza neppure sapere che lo odiavo. Ogni sera mi addormentavo odiandolo, e odiandolo mi risvegliavo ogni mattina. Odiarlo era per me ragione di vita… E adesso? Che farò?» 

      «Non ti sembra di esagerare? Comunque, vedrai che il tempo ti guarirà.» 

      No, niente e nessuno poteva guarire le sue ferite. Nessuno poteva capire come si sentiva. Nessuno poteva capire i suoi sentimenti. E, sicuramente, nessuno doveva conoscerli. 

      Brigitta non era stata solo un’amica per lei. Non era stata nemmeno solo una sorella. Era stata qualcos’altro. Qualcosa di più. Qualcosa che Adele non aveva avuto il coraggio di ammettere neppure a se stessa. Qualcosa che Brigitta non aveva mai saputo. 

      Ne rammentava, con una stretta al cuore, il dolce sorriso quasi da ragazzina, quel suo nasino all’insù, i capelli brillanti, gli occhi resi luminosi dall’amore nascente per il suo giovane fidanzato. E rammentava anche il giorno in cui era venuta a trovarla e si era confidata fra le lacrime, raccontandole del suo dolore: di quell’uomo così crudo e volgare che aveva abusato di lei, della sua giovinezza e della sua purezza, quando nemmeno il suo futuro sposo l’aveva mai toccata, rispettandola e onorandola in ogni momento. 

      Era stato già abbastanza duro per Adele accettare che Brigitta andasse a vivere altrove e che provasse affetto per qualcuno che non era lei. Ma venire a conoscenza che le era stato fatto del male, questo proprio no, non lo poteva tollerare. In quell’istante era nato nel suo cuore un sentimento nuovo, qualcosa che non credeva avrebbe mai potuto provare per alcuno, qualcosa che nel tempo lei stessa era andata alimentando con i pensieri e con i ricordi. Un sentimento che si chiamava odio. 

      Brigitta aveva avuto timore di confessare l’accaduto al suo amato. Egli avrebbe capito? Le avrebbe creduto? Avrebbe continuato a starle accanto? O forse l’avrebbe perduto? Erano troppi i quesiti, le paure, le angosce. Allorché aveva scoperto di essere rimasta incinta era venuta da Adele e le aveva chiesto aiuto, consiglio. Ma lei, Adele, sarebbe stata in grado di darglieli? In quel tempo era convinta di sì. 

      Così, Brigitta, aveva lasciato momentaneamente, o almeno questa era l’intenzione, la casa del fidanzato, fingendo un malessere e ottenendo un periodo di convalescenza in quella che era stata la sua casa paterna, la spezieria. Invece, dalla casa del fidanzato si era allontanata per sempre. E per sempre se ne era andata anche da lei. E nel modo peggiore. Il suo corpo fu ritrovato privo della vita, avviluppato dall’acqua, in una tetra notte di settembre. 

     CAPITOLO 3 

      Marzo 1499 

      La città di Gorizia sorgeva ai piedi di un alto colle, in un suolo esteso e fertile, favorito da un clima mite, in una zona ricca di ridenti vigneti e alberi da frutto, meli, peri e noci, bagnata dal limpido fiume Isonzo, che i popolani chiamavano anche Acqua Bianca,8 e dal Vipacco. Nello sfondo troneggiavano superbe ed imponenti le Alpi. 

      La carrozza signorile a quattro ruote con mantice sorretto da molle, trainata da due cavalli, giunse a Gorizia all’ora nona9 attraversando le mura che dividevano la città alta, anche chiamata Terra di Sopra, dove sorgeva il castello10, dalla città bassa, o Terra di sotto, situata sotto il maniero, dov’erano ubicate le case delle famiglie nobili e dei popolani. Era in viaggio da giorni. Il giovane che si trovava all’interno non vedeva l’ora di terminare quel lungo tragitto e posare finalmente i piedi a terra, sgranchirsi le gambe e riposare. 

      Indossava un farsetto attillato di tessuto pregiato e, sopra ad esso, un mantello scuro di stoffa pesante a ruota di media lunghezza e senza maniche aperto ai due lati e richiuso sulla spalla destra da un fermaglio. Sulla testa un cappuccio la cui coda, molto lunga, era avvolta intorno al capo come un turbante11. La cintura da cavaliere che portava era in pelle resistente e decorata con borchie d’argento. 

      Era intorno ai venticinque anni, abbastanza alto e di gradevole presenza. Il copricapo incorniciava un viso molto bello dai lineamenti affilati e celava i capelli un po’ arruffati di un colore biondo scuro. Gli occhi allungati erano leggermente all’ingiù: due laghi azzurri di acque limpide che gli donavano uno sguardo pieno di fascino. 

      Si guardò intorno. Il castello era costruito su un monticello, aveva mura spesse e altissime ed era circondato da una muraglia di difesa non troppo larga, da un fossato e dall’antemurale. Quando la carrozza si fermò il giovane ne scese e impartì qualche ordine al suo fedele cocchiere, Firmino, in special modo riguardo a uno dei cavalli, al quale teneva moltissimo. Il cavallo gli era stato donato da suo padre quando lui era adolescente e, anche se l’animale era avanti con gli anni, non intraprendeva mai un viaggio senza di lui. Quel dono era l’unico gesto gentile che suo padre aveva avuto nei suoi confronti. O, forse, l’unico che egli ricordava. 

      All’imboccatura del portone del maniero alcune guardie armate lo bloccarono incrociando le lance. Egli rivolse loro qualche parola ed insieme ad un paio d’esse si avviò sugli antichi ciottoli fino ad arrivare all’entrata principale del castello quindi, attraversando alcuni meandri, giunse nella grande sala primaria dove ad attenderlo c’erano quattro uomini. Mentre le guardie si congedavano, uno degli uomini, di bassa statura e sulla sessantina, si staccò dal gruppetto e gli si avvicinò con un largo sorriso. Indossava una tunica corta, nera, su calzamaglia anch’essa nera, e una casacca di prezioso broccato importato dall’Oriente. L’uomo gli pose bonariamente una mano su una spalla. 

     Era il Conte Leonardo12, figlio di Enrico IV e di Caterina Garay. Deceduto Enrico, la contea era stata ereditata dai tre figli, Giovanni, Ludovico e Leonardo13. Giovanni e Ludovico erano morti senza prole.

     Ultimo conte era dunque rimasto Leonardo, uomo amante della caccia, delle libagioni, del gioco, del ballo e delle donne. Aveva ereditato gli averi di famiglia costituiti dalla Contea di Gorizia, da diversi territori tirolesi e carinziani e da alcuni feudi della Patria del Friuli. Spesso si era trovato a dover fronteggiare l’ostile prepotenza dell’Imperatore Federico III che aveva invaso più volte i suoi possedimenti. Conquistata Lienz, Leonardo, temendo i Veneziani che volevano appropriarsi della contea e le frequenti e sanguinose incursioni turche, ne fece la sua principale dimora. Dopo essere rimasto vedovo della principessa bosniaca Geronima di Llock, si era unito in matrimonio con la giovanissima figlia del marchese di Mantova Ludovico III, Paola Gonzaga14. 

      Paolina, ragazza gracile e malaticcia, affetta da una leggera gobba ma molto raffinata, era andata in sposa a Leonardo dopo due anni di trattative, all’età di quindici anni. Dopo un anno di matrimonio aveva dato alla luce una bimba, morta subito dopo. Lei stessa si era spenta a soli trentatré anni. Leonardo era dunque rimasto da solo. 

      «Carissimo Lorenzo, che piacere rivederti!» esclamò il conte con un largo sorriso. 

      «Signor conte… il piacere è anche mio» rispose il giovane, facendo un leggero inchino con la testa. 

      «Mi dispiace molto per tuo padre, era un valido… non dico subordinato, ma piuttosto, collaboratore.» 

      «Vi ringrazio… Ho saputo di vostra moglie, vi saranno giunte le mie condoglianze...» 

      «Sì, certo.» 

      «Sono addolorato per voi, era così giovane.» 

      «Già. Ormai sono due anni. Ho fatto scolpire dal grande scultore Vito da Brescia un bassorilievo in suo suffragio, te lo farò vedere.»

      «Volentieri.» 

      «Tu non conosci il notaio Demetrio Fusco» continuò il conte, indicandogli uno dei presenti nella sala, un uomo di mezz’età. 

      «Molto lieto» pronunciò Lorenzo. 

      «Caro Lorenzo Della Valle, è un piacere per me conoscerti. Ho sentito molto parlare di te. In bene» sorrise quello. 

      Il conte Leonardo continuò con le presentazioni. 

      «Rodolfo La Torre, gastaldo della contea15, nonché pupillo di tuo padre. Era come un figlio per lui.» 

      Per un attimo Lorenzo restò senza parole, basito per quella rivelazione. Stralunò gli occhi. 

      «Non lo sapevo…» balbettò. 

      Il giovane elegante che gli stava davanti era di una stazza imponente e lo fissava con un portamento fiero. Poteva avere poco più di trent’anni. Aveva i capelli neri, corti ed ondulati e gli occhi sottili color nocciola. A Lorenzo parve di scorgere in quello sguardo un sentimento di antipatia e sufficienza nei suoi confronti, che divenne subito certezza quando, dopo essersi proteso in avanti, quello non rispose apertamente al suo saluto. Fece solo un vago cenno del capo, restando serio ed impassibile. 

      Lorenzo si sentì mancare l’aria. 

      «Fa piuttosto caldo, qui dentro...» si giustificò. Tolse quindi mantello e cappuccio, prontamente afferrati da un anziano domestico. Ad interrompere quel momento di sottile ostilità ed imbarazzo intervenne il conte Leonardo. 

      «Ti ricorderai sicuramente di Mainardo Castelnuovo.» 

      «Oh, sì, certo… Mainardo!» 

      «Lorenzo!» esclamò quello. 

      I due giovani si abbracciarono. Mainardo Castelnuovo, luogotenente, aveva qualche anno più di Lorenzo. Di media altezza. I capelli riccioluti e gli occhi neri, una fitta barba scura ma ben curata e un sorriso aperto. Una persona serena e rassicurante. 

      «Quanto tempo! Ormai saranno almeno…» 

      «Almeno dieci anni» concluse Lorenzo. 

      «Sì, giusto» confermò l’amico. 

      «Da quando mio padre si era trasferito qui e mia madre non aveva voluto seguirlo, non sono più tornato. Mi sono mancate molto le nostre vacanze estive.» 

      «Ora sei qui. Possiamo rifarci del tempo perduto.» 

      Sorrisero come ragazzini. 

      «Tua madre?» chiese il conte a Lorenzo. 

      «È mancata, l’anno scorso» rispose il giovane, facendosi di colpo serio. 

      «Mi dispiace… Voglio che tu sappia, Lorenzo, che la mia casa è la tua casa, come lo fu di tuo padre. Resta quanto vuoi.» 

      Gli occhi chiari di Lorenzo s’inumidirono. Ci fu un lungo silenzio da parte di tutti. 

      «Signori scusate, quando lo desiderate darò lettura del testamento» interruppe il notaio. «Naturalmente se Lorenzo vuole prima riposarsi dal viaggio...» 

      «No, procedete pure» disse il giovane. 

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