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Federico Dezzani Blog - Anno 2017
Federico Dezzani Blog - Anno 2017
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Federico Dezzani Blog - Anno 2017

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Il 2017 è volto al termine, inaugurando il biennio che rivoluzionerà gli assetti globali. Nel corso dell’anno appena trascorso il sistema internazionale vigente, il cosiddetto “ordine liberale”, si è ulteriormente deteriorato: la sconfitta occidentale in Siria, il progressivo scivolamento della Turchia nell’orbita russa, la debacle elettorale subita da Angela Merkel e gli scossoni in Arabia Saudita ne sono esempi ecclatanti. In parallelo sono aumentate le frizioni tra il blocco atlantico e quello euroasiatico: nella penisola coreana soffiano venti di guerra e l’Ucraina rischia di essere teatro di nuove violenze, dopo la decisione americana di fornire armi letali. Una settantina di articoli raccontano quest'anno di passaggio.
LanguageItaliano
Release dateJan 29, 2018
ISBN9788827560044
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    Federico Dezzani Blog - Anno 2017 - Federico Dezzani

    FEDERICO DEZZANI - BLOG

    DOVE FINISCE LA FINANZA ED INIZIA IL TERRORISMO

    ANNO 2017

    2017, l’anno della frattura

    Pubblicato il 11 gennaio 2017

    Il 2017 ha emesso i primi vagiti e molti si domandano quali novità abbia in serbo. Se il 2016 è definibile come l’anno dell’agonia del vecchio ordine mondiale a guida angloamericana, il 2017 ne sancirà il trapasso: insediatosi Donald Trum alla Casa Bianca, gli USA adotteranno per la prima volta dagli anni ’30 una politica estera neo-isolazionista, disimpegnandosi da storiche istituzioni come la UE e la NATO. Le forze centrifughe in seno all’Unione Europea ne usciranno galvanizzate ed una serie di tornate elettorali sarà in grado di infliggere il colpo di grazia all’eurozona. Nell’Est europeo ed in Medio Oriente, un numero crescente di Paesi cercherà riparo sotto l’ombrello russo, mentre la situazione si farà critica per gli ex-satelliti statunitensi lasciati senza protezione. La globalizzazione, già in affanno, subirà un drastico arresto. Al termine del 2017, il mondo sarà irriconoscibile. 

    I dodici mesi che seppelliranno un’epoca

    Il 2017 è un bimbo in fasce ed ha emesso soltanto i primi vagiti: attorno a lui c’è già però una gran ressa di analisti, chini sul neonato per osservarlo da vicino. A tutti preme un interrogativo: come evolverà l’anno appena iniziato? Quali novità apporterà? Come muteranno il panorama internazionale e l’economia mondiale durante i prossimi dodici mesi?

    Sono domande cui anche noi cercheremo di dare una risposta, partendo da una semplice costatazione: ogni anno è il figlio naturale del precedente, da cui riceve un’eredità ben precisa. Avendo definito il 2016 come l’agonia dell’ordine mondiale liberale, l’anno in cui il sistema internazionale basato sull’egemonia angloamericana è entrato nella fase terminale,si può dire che il 2017 abbia, in un certo senso, un destino già segnato: sarebbe azzardato ipotizzare un’inversione di tendenza, mentre è più facile che le dinamiche in atto maturino e giungano alla loro naturale conclusione. Se si dovesse dare un nome di battesimo al 2017, quello più appropriato sarebbe "l’anno delle frattura": lo spartiacque tra il prima ed il dopo, la fine di un ciclo, il tramonto di un’epoca.

    L’ordine mondiale basato sulla supremazia angloamericana, uscito dall’ultima guerra e rafforzatosi momentaneamente nel 1991 coll’implosione dell’URSS, collasserà definitivamente: istituzioni che fino a poco tempo fa sembravano solide ed eterne come la roccia, pensiamo alla UE ed alla NATO, si sgretoleranno. In parallelo si sfilaccerà anche il tessuto economico che ha caratterizzato l’ordine mondiale liberale dal 1945 e, in particolare, la sua ultima fase iniziata negli anni ’90: la globalizzazione sfrenata, il movimento senza controlli di capitali e uomini, il predominio della finanza sull’economia reale. Al termine del 2017, il volto del mondo sarà irriconoscibile, sebbene ci vorranno ancora anni e molte scosse di assestamento prima che emerga un nuovo assetto internazionale.

    La principale eredità lasciata dal 2016 è, senza dubbio, la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane.

    La Brexit, se isolata, avrebbe prodotto danni gravi ma dilazionabili nel tempo (tutt’ora non è stata fissata una data per l’avvio del divorzio dall’Unione Europea) e contenibili in sede di negoziati: il sistema atlantico ne sarebbe uscito malconcio, ma integro. La posta in gioco era invece più alta alle presidenziali statunitensi dell’8 novembre, perché l’affermazione del candidato populista avrebbe decapitato la catena di comando che parte da Washington e si irradia nelle diverse province dell’impero. In particolare, nell’attuale contesto geopolitico dove l’unico vero centro di potere alternativo è la Russia, la vittoria del candidato anti-establishment avrebbe giovato a Mosca che, dal Medio Oriente all’Europa, è in aperta concorrenza con l’oligarchia atlantica: ciò spiega la violenza della campagna elettorale, le accuse a Trump di essere un fantoccio del Cremlino, la reazione scomposta della nomenclatura di Washington ed il tentativo di Barack Obama e delle agenzie di sicurezza americane di avvelenare il più possibile i rapporti tra Russia e Stati Uniti.

    Difficilmente l’establishment euro-atlantico getterà la spugna: è probabile che in occasione dell’insediamento alla Casa Bianca e nei mesi successivi, sia sfoderato negli Stati Uniti il solito armamentario delle rivoluzioni colorate già sperimentato altrove (manifestazioni, rivolte di piazza, occupazioni, etc. etc.) e di cui si è avuto un assaggio nel mese di novembre con le marce anti-Trump in molte delle principali città americane. È anche certo che le agenzie di sicurezza ed il Dipartimento di Stato remeranno contro Trump fino a quando le figure chiave non saranno sostituite con uomini della nuova amministrazione: resta però il fatto che il 20 gennaio Donald Trump entrerà nello Studio Ovale e, indipendentemente da tutte le manovre per tentare di defenestrarlo, ci rimarrà il un tempo sufficiente ad infliggere il colpo di grazia alle moribonde istituzioni euro-atlantiche.

    Per la prima volta dagli anni ’30, la Casa Bianca sarà occupata da un isolazionista, interessato a tagliare gli impegni internazionali per dirottare risorse sull’economia interna e convinto che la natura insulare degli Stati Uniti e l’ammodernamento dell’arsenale nuclearesiano più che sufficienti per garantire la sicurezza degli Stati UnitiAll’estero si assisterà quindi ad un drastico ripiegamento degli Stati Uniti, che abbandoneranno le posizioni conquistate dal 1945 e diventate oggi insostenibili dal punto di vista economico-militare: la traiettoria del debito pubblico americano fa tremare i polsi, le infrastrutture del Paese cadono letteralmente a pezzi e scarseggia sia il capitale umano che finanziario per presidiare le province dell’impero. È la stessa fase sperimentata dall’impero britannico nel secondo dopoguerra.

    Per quanto concerne l’Estremo Oriente, Trump ha promesso di stracciare il trattato commerciale TTP, cui la precedente amministrazione democratica aveva dato una forte valenza politico-economica in chiave anti-cinese. Giappone e Corea del Sud, due Stati ormai assuefatti al dominio americano, tenteranno di negoziare con Trump la conservazione delle basi militari, proponendo di accollarsi una quota crescente dei costi di difesa, come richiesto da Trump in campagna elettorale. Le economie emergenti asiatiche (Filippine, Indonesia e Malesia), constatato l’affievolirsi dell’influenza americana, proseguiranno invece nel 2017 il loro avvicinamento alla nuova potenza egemone della regione, la Cina, con cui contratteranno le migliori condizioni possibili per una pax sinica nel Pacifico Meridionale.

    Calata nella realtà europea, la politica estera di Trump si tradurrà invece in un ridimensionamento (o smantellamento tout court?) della NATO ed in una malevola indifferenza per i destini dell’Unione Europea, che da sempre è il risvolto politico dell’Alleanza Nord-Atlantica. Malevola, perché le istituzioni di Bruxelles sono un prodotto di quell’oligarchia finanziaria che ha cercato in ogni modo di boicottare l’elezione di Trump e sta cercando tuttora di minarne la legittimità. L’affiatamento tra il prossimo presidente americano e Nigel Farage e la parallela reazione isterica di Jean-Claude Juncker alla notizia della vittoria di Trump, sono esemplificativi per capire il rapporto che si instaurerà tra la Casa Bianca e Bruxelles.

    In un quadro di minori tensioni politiche ed economiche, la UE avrebbe potuto forse sopravvivere senza la tutela degli USA, che dai tempi della CECA supervisionano il processo di integrazione europeo parallelamente all’estensione della NATO. Il discorso è diverso nel 2017, dopo sei anni di eurocrisi e due anni di emergenza migratoria: già ai tempi della paventata Grexit emerse il ruolo decisivo degli USA nel sedare le spinte centrifughe dentro la l’Unione Europea. Le possibilità che le istituzioni di Bruxelles, private della guida americana, riescano a soffocare le forze disgregatrici, rasentano lo zero. Al prossimo acuirsi della crisi politica e/o finanziaria in Europa, non ci sarà più nessun Barack Obama a impedire l’uscita dall’eurozona di questo o quel membro, ma al contrario un presidente simpatetico dei populismi europei, pronto a sostenere qualsiasi Paese che desideri abbandonare l’Unione Europea, proprio come a suo tempo si schierò a favore della Brexit.

    Una serie di consultazioni elettorali, decisive concentrate nell’arco di pochi mesi, travolgerà quindi nel corso del 2017 la moneta unica e quel che resta delle istituzioni europee.

    Si comincia il 15 marzo, con le legislative olandesi: l’antieuropeista Partito della Libertà, forte della successo referendario con cui ha affossato l’accordo di associazione tra Ucraina ed Unione Europea, è dato in testa ai sondaggi ed il suo fondatore, Geert Wilders, si è detto favorevole ad un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea sulla falsariga di quello inglese. Il successo alle urne dei populisti olandesi è importante soprattutto perché tirerà la volata agli omologhi francesi: il 23 aprile ed il 7 maggio, si svolgeranno i due turni per eleggere il prossimo inquilino dell’Eliseo.

    Sarà l’appuntamento risolutivo per il destino dell’euro: un Francia in pieno stato d’emergenza,piegata da una disoccupazione record e schiacciata da una mole crescente di debito pubblico, sarà chiamata a scegliere il prossimo presidente tra il conservatore François Fillone l’antieuropeista Marine Le Pen. Sebbene il voto socialista convergerà certamente verso il primo, il Front National ha le carte in regola per svuotare il bacino elettorale del centrodestra: dalla sua parte gioca la fiacchezza di Fillon, l’insofferenza verso i partiti tradizionali, il vento populista che soffia forte ovunque ed un anti-europeismo di fondo della Francia, già manifestatosi nel 2005 con la clamorosa bocciatura della costituzione europea.

    Vinte le presidenziali, Marine Le Pen sarebbe in grado di indire un referendum sulla permanenza della Francia nell’Unione Europea. Dato l’attuale sfilacciamento politico e finanziario, il suo successo alle urne sarebbe però di per sé sufficiente ad innescare la deflagrazione dell’eurozona: l’Unione Europea è basata sul condominio franco-tedesco ed una Parigi in mano ai populisti sarebbe il segnale che l’esperimento europeo è giunto al capolinea. La vittoria di Marine Le Pen eclisserebbe persino le elezioni federali tedesche che si terranno tra settembre ed ottobre, elezioni con cui Angela Merkel cerca il suo quarto mandato alla Cancelleria Federale. Le proiezioni danno la CDU-CSU ai minimi storici(stabilmente al di sotto il 30% delle intenzioni di voto¹), rendendo pressoché impossibile per Angela Merkel, il principale referente dall’establishement atlantico in Europa, emergere come capo di una nuova grande coalizione dopo aver trascinato nel baratro il proprio partito. Ma a quel punto che peso avrebbe la sua caduta, se l’Unione Europea fosse già in fase di dissoluzione per colpa di un’altra donna, il presidente francese Marine Le Pen?

    In ossequio al principio del "simul stabunt, simul cadent", anche la NATO, la cornice politico-militare in cui è nata e cresciuta l’Unione Europea, sarà scossa alle fondamenta: durante le amministrazioni Clinton, poi Bush ed infine Obama, l’Alleanza Nord Atlantica è stata estesa sempre più ad est, lasciando ipotizzare anche l’ingresso di Paesi come la Georgia e l’Ucraina che avrebbero proiettato Washington nel cuore della Federazione Russa. Sono domini imperiali che gli Stati Uniti oggi, sfiancati economicamente e socialmente, non riescono più a sostenere, come candidamente ammesso da Trump: "la NATO è obsoleta" . "gli Stati Uniti non si possono permettere di essere i poliziotti del mondo. Dobbiamo ricostruire il nostro Paese".²

    È difficile ipotizzare se Trump annuncerà un ritiro tout court degli Stati Uniti dalla NATO o ne concorderà con i Paesi europei un ridimensionamento a tappe: quel che certo è che durante il 2017 la presenza americana sul Vecchio Continente diminuirà per la prima volta dal 1945. È certo che sia il Dipartimento di Stato sia ampi settori del Pentagono si opporranno strenuamente all’abbandono dell’Europa, accusando il neo-presidente di essere comprato/ricattato da Mosca, ma in favore di Trump gioca il disappunto dell’elettore medio per le folli spese militari all’estero, soprattutto in assenza di una chiara minaccia.

    Alcuni Paesi del centro e dell’est europeo (Ungheria, Bulgaria, Moldavia), hanno già iniziato un processo di riavvicinamento alla Russia; altri (Romania e Polonia) saranno obbligati ad una dolorosa ristrutturazione delle loro politiche estere, da ricalibrare in base ai mutati rapporti di forza: la Russia, ritrovata superpotenza mondiale, si è candidata a colmare il vuoto geopolitico lasciato dagli angloamericani in Europa e Medio Oriente. L’Ucraina affronterà nel corso dell’anno un probabile collasso economico e politico, prodromo di un suo rientro nell’orbita russa.

    Veniamo ora al capitolo mediorientale. Le ultime cartucce sparate dall’amministrazione Obama sono state dirette proprio contro la Turchia, colpevole di un riavvicinamento alla Russia: prima il tentato colpo di Stato di luglio, poi l’uccisione ad Ankara dell’ambasciatore Andrei Karlov, infine la strage di Capodanno in un noto locale di Istanbul, mirata a gettare il Paese nel caos colpendo un’industria chiave come quella turistica. Il 2017 cementerà la triangolazione Mosca-Ankara-Teheran che espellerà de facto gli angloamericani ed i francesi dalla regione. Sul fronte arabo, l’affievolirsi della destabilizzazione atlantica, consentirà all’Egitto di Abd Al-Sisi di consolidarsi, estendendo la sua sfera di influenza sulla vicina Libia grazie al generale Khalifa Haftar, candidato a spodestare l’effimero governo d’unità nazionale di Faiez Al-Serraj anche grazie al sostegno politico-militare di Mosca.

    Il futuro si complica invece per quelle potenze regionali sinora protette dall’ombrello americano e rimaste escluse dal riassetto della regione sotto l’egida del Cremlino: Qatar ed Arabia Saudita. Doha, tanto ricca quanto inconsistente dal punto di vista demografico, ha recentemente "comprato" la benevolenza di Mosca investendo 2,7 $mld nella russa Rosneft. Più complicata la situazione della popolosa Arabia Saudita, schiacciata dal duplice peso di una crisi finanziaria (il deficit dello Stato si è attestato a 80$ mld nel 2016) e di un ingestibile guerra nel vicino Yemen: svincolatisi gli USA dal greggio mediorientale (Trump ha addirittura promesso in campagna elettorale di vietare l’import di petrolio straniero³), Riad rischia nel corso del 2017 di precipitare nel caos, tra crisi economica, isolamento internazionale ed una crescente assertività iraniana. Dopotutto la monarchia saudita, proprio come la NATO e la UE, è un "prodotto" del vecchio ordine mondiale in disfacimento.

    L’arresto del flusso di petrolio dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti rientra nella più ampia crisi della globalizzazione che non si è mai ripresa dalla Grande Recessione del 2008 ed ha conosciuto una nuova caduta del volume del commercio mondiale negli ultimi due anni⁴: la delocalizzazione della produzione nei Paesi a basso costo e l’abolizione di qualsiasi dazio o barriera doganale appartenevano anch’essi all’ordine mondiale che è giunto al capolinea. Abbiamo sopra accennato all’intenzione di Trump di stracciare il TTP, ma anche altri accordi commerciali come il NAFTA rischiano di essere abrogati o rivisitati dal neo-presidente: si è parlato persino di una possibile uscita degli USA dall’Organizzazione Mondiale del Commercio⁵, una mossa che mettere un pietra tombale sopra la globalizzazione selvaggia iniziata negli anni ’90.

    Implosione dell’eurozona, caos politico negli ex-satelliti americani, caduta del commercio mondiale: il 2017 si preannuncia un anno al cardiopalma per i mercati finanziari. Le prospettive di un ulteriore stratta dei tassi da parte delle banche centrali svaniranno nel corso dell’anno, man mano che si concretizzerà lo scoppio della bolla azionaria ed obbligazionaria alimentata dalla FED, dalla BOE, dalla BCE e dalla BOJ dal lontano 2009. La necessità di ravvivare l’economia sposterà l’azione dei governi dalle fallimentari politiche monetarie espansive, che per anni hanno gonfiato solo i bilanci delle banche e dei fondi d’investimento lasciando a bocca asciutta l’economia reale, alle politiche fiscali: opere pubbliche in funzione anti-ciclica, finanziate con moneta fiat, così da contenere la disoccupazione, ravvivare l’inflazione ed alimentare la domanda.

    Siamo così arrivati, nel volgere di pochi paragrafi, al 31 dicembre 2017. Sono trascorsi appena dodici mesi, eppure all’osservatore sono sembrati un secolo. L’ordine mondiale a guida americana si è definitivamente sfaldato, producendo forti turbolenze: l’eurozona è collassata, i mercati finanziari si sono avvitati, la NATO è in dissoluzione, il Medio Oriente è entrato saldamente nell’orbita russa, la Cina è la potenza egemone nel Pacifico meridionale, gli USA si sono ritirati al di là degli Oceani, la globalizzazione si è frammentata in mercati regionali.

    Un’epoca, cominciata nel lontano 1945, si è definitivamente conclusa ed un nuovo mondo, più difficile ed articolato ma anche più dinamico e vitale, cerca i suoi equilibri.

    Disastro Minniti-Gentiloni in Libia: una politica estera allo sbando

    Pubblicato il 13 gennaio 2017

    Ma per l’Italia è preferibile un governo nel pieno dei poteri o il vuoto istituzionale? A giudicare dai primi passi in politica estera del governo Gentiloni, sembrerebbe più conveniente un esecutivo vacante: i danni inflitti al Paese sarebbero minori. Tipico è il caso della Libia, dove il governo-fotocopia di Matteo Renzi, indissolubilmente legato all’era di Barack Obama ed incapace di adeguarsi ai mutamenti in corso, si ostina ad appoggiare l’effimero governo d’unità nazionale di Faiez Al-Serraj, un fantoccio angloamericano che controlla a stento qualche palazzo di Tripoli. L’insediamento di Trump, isolazionista ed interessato a trovare un modus vivendi con la Russia, spianerà al generale Khalifa Haftar che, sostenuto da Mosca e dal Cairo, si candida a diventare il nuovo dominus della Libia, relegando così ai margini l’Italia.

    Che tempismo, ministro Minniti!

    Il 2017, come abbiamo recentemente detto, si profila come un anno di frattura, durante cui il vecchio ordine mondiale a guida angloamericana sarà definitivamente seppellito: ci riserviamo di trattate l’argomento in un’analisi ad hoc, ma possiamo anticipare che difficilmente l’Italia sarà un protagonista attivo del 2017. Potrebbe esserlo solo incidentalmente, se le condizioni finanziarie peggiorassero a tal punto da portare al collasso l’industria bancaria italiana o le casse dello Stato: diversamente sarà un soggetto passivo, che subirà (ed incasserà) gli avvenimenti esterni.

    Sono due i principali motivi del triste destino italiano: uno sostanziale ed uno accidentale. Quello sostanziale è che l’ossatura istituzionale della Repubblica Italiana è un prodotto dell’ordine mondiale oggi in dissoluzione; quello accidentale è che fino al 2018 sarà insediato un esecutivo maturato sotto l’amministrazione di Barack Obama, incapace di adattarsi alle novità apportate da Donald Trump.

    Il governo fotocopia di Matteo Renzi, da noi etichettato non a caso come la "Salò della Seconda Repubblica, è l’estremo arroccamento di un establishment ormai esausto ed esautorato, destinato a muoversi meccanicamente secondo le vecchie logiche, fino al collasso definitivo.In questa fase sarebbe persino più conveniente per l’Italia un esecutivo vacante, piuttosto che il governo Gentiloni: i danni sarebbero minori, perché si eviterebbe almeno al Paese di andare controcorrente, di agire cioè come se il mondo fosse fermo a due o tre anni fa. Emblematico è, a questo proposito, il caso della Libia, dove le prime mosse del premier Gentiloni e del ministro degli Interni, Marco Miniti, (il Ministro degli Esteri, Angelino Alfano, è assente giustificato) hanno fatto rimpiangere un sano vuoto di potere: meglio l’inazione che l’autolesionismo.

    All’ex-colonia italiana ed alla scientifica opera di destabilizzazione cui è stata sottoposta, abbiamo dedicato già diversi articoli: si comincia nel 2011 con l’infame cambio di regime condotto da Washington, Londra e Parigi ed avvallato dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; si prosegue con una serie di attentati ed omicidi mirati nel biennio 2012-2013; si fa il salto di qualità nell’estate 2014 con il golpe islamista (dietro cui si nascondono Stati Uniti, Regno Unito, Turchia e Qatar) che costringe il legittimo governo laico-nazionalista a riparare a Tobruk. Tripoli e la Tripolitania sono così trasformati in feudo anglo-islamista, usato dalla NATO per irrorare l’Europa di clandestini grazie alla complicità del governo Renzi e della Marina Militare Italiana: a partire dal 2014 il flusso migratorio esplode, sino alle cifre record del 2016. Nel 2015, si inocula poi l’ISIS, letteralmente traghettato dalle coste turche a quelle libiche su navi che vengono di tanto in tanto bersagliate dall’aviazione di Tobruk.

    L’Italia, insieme alla Francia, rimane fedele in un primo momento fedele al legittimo governo laico rifugiatosi in Cirenaica, governo in cui emerge presto la figura del generale Khalifa Haftar: sin dai tempi di Gamal Nasser ed Enrico Mattei, per Roma è più facile tessere legami con i nazionalisti arabi piuttosto che con la Fratellanza Mussulmana, eterodiretta dagli angloamericani. L’apice di questa fase è toccato nel marzo del 2015, quando il premier Renzi, invitato al vertice di Sharm El Sheik dal presidente egiziano Abd Al-Sisi, afferma⁶:

    "La stabilità dell’Egitto è la nostra stabilità, non soltanto per questa area del mondo. Apprezziamo la leadership e la saggezza di al-Sisi, soprattutto per quanto riguarda la Libia. Rinnovo l’impegno dell’Italia a lavorare con lei per portare avanti una soluzione alla crisi siriana e alla crisi libica".

    L’Italia, estromessa dalla Libia col cambio di regime del 2011, progetta quindi di rientrarci tramite l’Egitto di Al-Sisi, ostile alla Fratellanza e grande sponsor del generale libico Khalifa Haftar. Chiunque conosca un po’ i meccanismi della Repubblica Italiana, sa che la regia di questa politica estera non è da collocarsi a Palazzo Chigi (il premier Renzi, si sa, è "cazzaro"per definizione) ma negli uffici dell’ENI. I progetti di Washington e Londra sono però altri:inoculazione dell’ISIS in Libia così da portare il Paese al collasso e parallela destabilizzazione dell’Egitto, trasformando la penisola del Sinai in un avamposto del terrorismo islamico. Urge quindi richiamare all’ordine la colonia italiana e separarla dal binomio Al-Sisi-Haftar.

    Nei primi mesi del 2016 va quindi in onda il dramma di Giulio Regeni, che culmina con il richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo: è la classica operazione sporca gestita dai servizi segreti inglesi. Quasi simultaneamente esce nelle librerie il libro "Lo Stato Parallello" di Andrea Greco e Giuseppe Oddo, due firme del Gruppo l’Espresso che, insieme ad Amnesty International, gioca un ruolo chiave nel campagna per minare i rapporti italo-egiziani: i due giornalisti insinuano che anche il premier Renzi sia rimasto avvinghiato nella pericolosa rete dell’ENI, un vero e proprio "Stato nello Stato", fuori da qualsiasi controllo (il Parlamento, invece, è manovrato a piacimento dagli angloamericani). Il duplice colpo serve così ariplasmare la politica estera italiana in Libia secondo l’agenda di Washington e Londra.

    Al vertice marocchino di Skhirat del 18 dicembre 2015, gli Stati Uniti d’America hanno dato vita al governo d’unità nazionale di Faiez al-Serraj, una figura di secondo piano, senza alcun seguito politico o militare in Libia: scopo dell’operazione è innestare sul feudo islamista di Tripoli un esecutivo presentabile, che delegittimi l’unico governo sino a quel momento legittimo, quello esiliato a Tobruk, e favorisca lo smembramento della Libia in due o più entità (Tripolitania, Cirenaica, Fezzani): i nazionalisti-laici di Tobruk, infatti, non hanno alcuna intenzione di sciogliersi nel governo d’unità nazionale, privo di qualsiasi autorevolezza (qualcuno ricorderà l’arrivo di Faiez Al-Serraj via mare, dato il rifiuto dei miliziani locali⁷ a concedergli l’aeroporto di Tripoli) e, soprattutto, in completa balia degli islamisti: il premier islamista, Khali Ghwell, non ha infatti alcuna intenzione di lasciare la capitale conquistata manu militari nel 2014.

    Il governo Renzi quindi, volente o nolente, è costretto a staccarsi da Khalifa Haftar e dell’Egitto per abbracciare la causa (disperata) del presidente Faiez Al-Serraj: il nuovo corso italiano culmina con la decisione di dispiegare 200 paracadutisti della Folgore a Misurata⁸, un’enclave in mano agli inglesi ed alla Fratellanza Mussulmana.

    Si è detto come il generale Khalifa Haftar fosse inizialmente sostenuto da Italia e Francia: Parigi, ovviamente, è molto più coriacea nel difendere i suoi interessi e, alleata del’Egitto, porta avanti la strategia di sostenere il governo nazionalista-laico di Tobruk. Ricondurre la Francia all’ovile richiede un maggiore sforzo: si comincia nel maggio 2016 coll’abbattimento del volo Egyptair sulla tratta Parigi-il Cairo (le autorità egiziane hanno recentemente confermato la presenza di tracce d’esplosivo sui corpi dei passeggeri⁹) e si termina nel mese di luglio con l’abbattimento di elicottero francese grazie ad un missile terra-aria, schianto in cui muoiono tre membri dei servizi segreti francesi¹⁰. Anche l’Eliseo capisce l’antifona ed ai primi di agosto ritira il suo sostegno al generale Haftar: "France withdraws its Haftar-supporting troops Benghazi".¹¹

    Al governo di Tobruk non rimane quindi che rivolgersi all’unica potenza interessata a sradicare l’insurrezione islamista patrocinata dagli angloamericani e a fermare il processo di balcanizzazione del Medio Oriente: la Russia. Non vogliamo vantarci, ma già nell’autunno del 2014, quando molti analisti e commentatori definivano ancora Khalifa Haftar come un "uomo della CIA"avevamo previsto che le dinamiche in atto avrebbero inevitabilmente spinto, presto o tardi, il governo di Tobruk nella braccia del Cremlino: il processo è stato graduale e solo nel dicembre scorso il generale Haftar ha ricevuto l’investitura ufficiale di alleato del Cremlino, con una serie di incontri con i vertici del governo russo. Dopo l’esperienza siriana, ci sono pochi dubbi su come si concretizzerebbe la cooperazione russo-libica: sostegno militare e forse aereo, così da debellare le forze islamiste e riunificare il Paese.

    Ora, allarghiamo lo sguardo al contesto internazionale dove, tra pochi giorni, si consumerà il passaggio dalla vecchia alla nuova amministrazione americana. Se le presidenziali dello scorso novembre fossero state vinte da Hillary Clinton, regista del 2011 della destabilizzazione della Libia e grande sponsor della Fratellanza Mussulmana, le speranze di vita del governo d’unità nazionale di Faiez Al-Serraj e dei vari gruppi islamisti si sarebbero allungate, anche solo per contenere l’esuberanza di Khalifa Haftar e dei suoi alleati russi: i raid su Sirte della scorsa estate, formalmente contro l’ISIS, ebbero infatti il principale scopo di bloccare l’avanzata verso ovest del governo di Tobruk.

    Le elezioni, però, sono state vinte dal populista Donald Trump, che è allergico alla Fratellanza mussulmana sponsorizzata dal clan Clinton-Obama, ha più volte espresso le simpatie per il presidente egiziano Al-Sisi, è indifferente alle sorti della Libia in quanto isolazionista ed è interessato a buoni rapporti con la Russia: date queste premesse, il premier Faiez Al-Serraj ed il suo effimero governo sono semplicemente spacciati. Dalla sua parte è ancora schierato il Regno Unito che, separato dagli Stati Uniti, è però soltanto una media potenza in decadenza.

    Torniamo così all’Italia ed alla disastrosa politica estera del governo Gentiloni.

    Qualsiasi esecutivo, dotato di un minimo senso di realpolitik, si sarebbe mosso con i piedi di piombo nel mutato contesto internazionale. L’amministrazione Obama è agli sgoccioli; le quotazioni del generali Khalifa Haftar sono in ascesa da mesi; il governo d’unita nazionale è un castello di carte che rischia di cadere al primo colpo d’aria: già lo scorso ottobre, quando l’ex-premier islamista Khali Ghwell si cimentò in un primo golpe, è emerso come Faiez Al-Serraj controlli solo qualche edificio di Tripoli e che le milizie siano libere di fare il bello ed il cattivo tempo nella capitale. Insistere nell’appoggio al ridicolo governo d’unità nazionale, solo per ingraziarsi l’amministrazione Obama ormai al capolinea, sarebbe stato non solo ridicolo, ma addirittura controproducente per gli interessi italiani.

    Il premier Paolo Gentiloni ed il Ministro degli Interni Marco Minniti, due prodotti dell’establishment atlantico uscito clamorosamente sconfitto alle elezioni americane dell’8 novembre, hanno invece la brillante idea di muoversi come se nulla fosse cambiato, col risultato di aumentare esponenzialmente i danni alla già traballante posizione dell’Italia nel Mediterraneo. Gli esiti dell’azione del duo Gentiloni-Minniti sono così catastrofici che, ex-post, c’è da chiedersi se un un sano vuoto di potere a Roma non fosse e non sia preferibile.

    Il 9 gennaio il Ministro degli Interni, Marco Minniti, il discepolo di Cossiga che da anni sguazza nella melma dei servizi angloamericani, vola a Tripoli per incontrare il premier Faiez Al-Serraj, ribadendo così l’appoggio italiano al suo ridicolo governo d’unità nazionale. Non pago, Minniti avvalla in contemporanea la riapertura del’ambasciata italiana a Tripoli, chiusa dal 2015: "Libia, riapre l’ambasciata italiana a Tripoli" scrive la Repubblica, che etichetta la mossa di Minitti come "una scommessa rischiosa"¹².

    Il termine più adatto non è però "rischiosa"ma semplicemente idiotail governo Gentiloni, del tutto incapace di comprendere i mutamenti internazionali in atto, aumenta le puntante in Libia e lo fa scommettendo tutto il capitale politico italiano sulla fazione politicamente più debole, coll’effetto collaterale, tutt’altro che secondario, di alienarsi le simpatie del governo di Tobruk e di Khalifa Haftar, sempre più forti dopo il sostegno russo e la vittoria di Donald Trump.

    Già nell’intervista del 2 gennaio al Corriere della Sera, intervista dall’emblematico titolo "L’Italia in Libia si è schierata dalla parte sbagliata"¹³, il generale Haftar aveva messo in guardia il governo italiano dall’avventurarsi in azzardate imprese che ne compromettessero la posizione:

    "Purtroppo sino a ora il governo di Roma ha scelto di aiutare soltanto l’altra parte della Libia. Avete mandato 250 uomini tra soldati e personale medico per gestire l’ospedale di Misurata. A noi nulla. (…) Non abbiamo apprezzato il discorso di fine d’anno del vostro capo di Stato maggiore in visita a Misurata(….) Consiglierei ai Paesi stranieri e al vostro di non interferire nei nostri affari interni. Lasciate che siano i libici a occuparsi della Libia".

    Se Gentiloni e Minniti avessero ascoltato quelle parole, avrebbero evitato di trascinare l’Italia in drammatico pantano diplomatico e politico, compromettendone ulteriormente la già debole posizione in Libia: a distanza di una decina di giorni, il 12 gennaio, si ha infatti l’ennesima prova che il cavallo su cui Roma ha deciso di puntare è zoppo, mentre quelle concorrente, non solo acquista sempre più slancio, ma diventa, man mano che si rafforza, sempre più ostile alle ingerenze italiane a sostegno della parte avversaria.

    Il 12 gennaio, l’ex-premier islamista Khali Ghwell si lancia infatti in un secondo golpe a Tripoli, dopo quello di ottobre: stabilire se sia un successo o meno è superfluo, perché un colpo di Stato presuppone un ordine da sovvertire che nella capitale libica semplicemente non c’è. Gli islamisti occupano tre edifici governativi vuoti e non funzionanti, specchio di un governo d’unità nazionale che esiste solo sulla carta e di un effimero premier, Faiez Al-Serraj, che controlla a malapena qualche palazzo.

    Quasi in simultaneamente esce la notizia che il giorno prima, l’11 gennaio, il generale Khalifa Haftar è stato ricevuto sulla portaerei russa Ammiraglio Kuznetsov di ritorno dalla spedizione militare in Siria¹⁴, dove, accompagnato dai capi dell’aviazione e dell’esercito di Tobruk, si è collegato in video-conferenza con il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu. L’episodio ha una forte valenza politica ed evidenzia come Mosca stia sondando il terrenoper avviare anche in Libia un’operazione bellica simile a quella intrapresa a sostegno di Bashar Assad, operazione con cui il Cremlino aggiungerebbe anche l’ex-colonia italiana al paniere degli Stati arabi filorussi.

    Non solo. Il governo di Tobruk, forte dell’appoggio della Russia, dell’Egitto, delle maggiori tribù libiche e del controllo dei principali campi petroliferi, è sempre più insofferente delle ingerenze italiane a sostegno del governo di Faiez Al-Serraj: il 13 gennaio, l’esecutivo nazionalista-laico emette infatti una nota ufficiale per protestare contro la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli ed il sostegno militare alle milizie islamiste di Misurata. "Libia: Tobruk contro ambasciata italiana, è occupazione. Roma, crea tensione" scrive l’Ansa.

    Nelle prossime settimane o, forse addirittura nei prossimi giorni, è probabile che il generale Khalifa Haftar, contando sull’appoggio militare di Mosca e sul disinteresse dell’amministrazione Trump per il Paese africano, lanci un’operazione per riunificare la Libiae ristabilire un ordine economico e sociale.

    Grazie a Paolo Gentiloni e Marco Minniti, l’Italia è incredibilmente posizionata a fianco delle fazioni più deboli e compromesse, il ridicolo governo d’unità nazionale e le milizie islamiste foraggiate dagli angloamericani, entrambi destinati ad essere spazzati via dall’Esercito Nazionale Libico di Khalifa Haftar: l’esito è potenzialmente catastrofico per gli interessi italiani in Libia ed in Nord Africa.

    Avere un buon governo è pressoché impossibile nell’Italia del 2017. Non averne nessuno è invece possibile e, considerata la disastrosa politica estera dei governi Renzi e Gentiloni, è forse anche auspicabile.

    Amministrazione Trump ai blocchi di partenza: chi e perché gioisce

    Pubblicato il 18 gennaio 2017

    Il 20 gennaio Donald Trump si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca con la nuova squadra di governo. Molti si pongono un legittimo quesito: perché il prossimo presidente si avvale di numerosi ex-banchieri di Goldman Sachs, se rappresenta davvero un cambiamento rispetto al passato? E quale ruolo riveste l’influente genero Jared Kushner? La sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump è stata anche un lotta tra due anime dello stesso sistema: ne è emersa vincente quella più nazionalista e conservatrice, spalleggiata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha garantito l’accesso di Trump alla stanza dei bottoni. All’orizzonte si profila un’inedita alleanza tra Washington, Tel Aviv e Mosca ai danni dell’establishemnt liberal: per i populismi europei è un’occasione unica per riappropriarsi della sovranità politica ed economica, svincolandosi dall’Unione Europea.

    Una faida dentro all’establishment? Comunque, un’imperdibile occasione

    Il 20 gennaio, a distanza di più di due mesi dalle presidenziali americane che hanno sorpreso il mondo (ma non noi), si insedierà la nuova amministrazione di Donald Trump. Per l’ordine internazionale sarà una rivoluzione copernicana che impatterà qualsiasi aspetto delle relazioni tra Stati Uniti ed il resto del mondo: l’assetto internazionale post-1945, basato sul predominio angloamericano, sul binomio NATO/CEE-UE e su dosi crescenti di globalizzazione, tramonterà definitivamente, causa sfinimento del sistema stesso. Per la prima volta dagli anni ’30, siederà alla Casa Bianca un presidente isolazionista. Gli Stati Uniti, in sostanza, abdicheranno al loro ruolo di potenza egemone, concetto implicito "nell’America first" di Trump, condannando a morte certa le vecchie istituzioni figlie di quest’epoca.

    Avendo caricato di simili aspettative la presidenza di Trump ed incombendo ormai il suo ingresso alla Casa Bianca, è quindi ora di rispondere ai dubbi che attanagliano molti osservatori, specialmente dopo la formazione della nuova squadra presidenziale dove compaiono diversi ex-banchieri di Goldman Sachs. Parecchi, sconcertati dal divario tra la retorica populista di Trump ed i nomi scelti per occupare i posti chiave della prossima amministrazione, si sono posti domande più che giustificate: Donald Trump rappresenta davvero un cambiamento rispetto al passato? Non sarà anche lui l’ennesimo fantoccio di Wall Street? Esaurite le aspettative iniziali, non si rivelerà un altro bluff, adagiandosi sulla solita politica di Bush e Obama?

    Sono interrogativi più che legittimi. Bisogna però evitare a qualsiasi costo l’idea paralizzante (perché renderebbe inutile qualsiasi azione) che il Potere sia monolitico, infallibile, onnipotente ed eterno e, anno dopo anno, elezione dopo elezione, si riproduca sempre uguale: nascondendosi dietro Bill Clinton nel 1993, dietro George Bush nel 2001, dietro Barack Obama nel 2008, dietro Donald Trump nel 2017, e così via, ad aeternum.

    Il Potere, che in Occidente alberga nelle piazze finanziarie di Londra e Wall Street, non è monolitico, ma si divide al suo interno in cordate e fazioni. Non è infallibile, perché anch’esso si basa su calcoli e previsioni che spesso si rivelano, ex-post, errati. Non è onnipotente, perché il mondo è troppo articolato, ampio e variegato, perché possa essere controllato a tavolino. Non è eterno, perché come ogni organizzazione umana, non sfugge al ciclo di nascita, crescita, maturità e morte. Il Potere, alias la finanza cosmopolita, è fallibile, divisa in correnti e spesso impotente di fronte a dinamiche che sfuggono al suo controllo. Benché abbia mostrato da sempre forti capacità di adattamento, sta poi dando evidenti segnali di affaticamento: la sua presa sul mondo si affievolisce, giorno dopo giorno.

    Il caso di Donald Trump, il candidato populista eletto contro ogni qualsiasi pronostico, rientra senza alcun dubbio nella saga del Potere atlantico: una fazione dell’establishment, in aperta lotta con la rivale, si è raccolta attorno alla sua candidatura e gli ha spianato l’accesso alla Casa Bianca, altrimenti impensabile per un candidato totalmente estraneo al sistema. Ne sono derivate, di conseguenza, le nomine dei banchieri di Goldman Sachs nei ruoli chiave della nuova amministrazione e un po’ di sconcerto tra chi sperava in un radicale rinnovamento.

    Perché, allora, abbiamo salutato con favore la vittoria di Donald Trump e abbiamo riposto così tante speranze nel suo mandato, se è anch’esso un’espressione del solito establishment? E perché, se anche Trump è un fantoccio del Potere, la campagna elettorale è stata così spietata ed i rischi di una rivoluzione colorata negli Stati Uniti sono tutt’altro che remoti?

    Le riposte sono molteplici:

    Trump è la reazione ad un sistema internazionale  logoro e fallimentare ed è quanto di meglio potessero oggi offrire gli Stati Uniti;

    Trump è l’espressione di una fazione minoritaria dell’establishment, quella più nazionalista, conservatrice, realpolitiker e ostile alla rivoluzione mondiale permanente dell’establishment liberal. Ci riferiamo alle attività in cui eccelleGeorge Soros che, non a caso, sosteneva la candidatura di Hillary Clinton: destabilizzazioni, cambi di regime, interventi umanitari, terrorismo, ondate migratorie, etc. etc.;

    Trump introduce nel sistema internazionale un notevole dinamismo che, sfruttato adeguatamente, può consentire, soprattutto in Europa, di "rimpatriare" massicce dosi di sovranità politica ed economica ai danni delle vecchie istituzioni atlantiche.

    Sono questi i motivi per cui abbiamo accolto con favore la sua elezione e per cui siamo certi che incontrerà forti resistenze fuori e dentro gli Stati Uniti.

    Alle elezioni dell’8 novembre, il Potere, ossia la finanza cosmopolita, si divide in due cordate: la parte maggioritaria (quella liberal e dei neocon, delle grandi corazzate dell’informazione, dei paladini del riscaldamento globale, della New Economy, della globalizzazione, dell’Unione Europea, dell’immigrazione indiscriminata, del terrorismo islamico, del contenimento ad ogni costo della Russia) si coagula attorno ad Hillary Clinton,una parte minoritaria (quella, in sostanza, che si sentiva reclusa dalla prima: destra americana nazionalista e identitaria, falchi israeliani, petrolieri, Old Economy e fautori di una realpolitik in politica estera) si dirige verso Donald Trump.

    La lotta tra le due fazioni, va sottolineato, è reale ed il voto dell’8 novembre non è una semplice farsa che proclamerà il candidato scelto prima a tavolino: gli obiettivi delle due cordate sono profondamente divergenti e la posta in gioco è altissima, considerato che sono

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