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Don Gabriele Pagani e il modernismo (1909-1911)
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Don Gabriele Pagani e il modernismo (1909-1911)

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La vicenda di don Gabriele Pagani che, nel settembre 1910, abbandona il sacerdozio per dedicarsi a un'accesa propaganda anticlericale e, nel novembre 1911, rientra nella Chiesa, si colloca in un periodo in cui all'interno del mondo cattolico è in atto un forte scontro tra modernisti e antimodernisti.
Gli studiosi del modernismo hanno finora dedicato solo qualche breve cenno alla figura di don Pagani, senza però fornire alcun utile elemento alla ricostruzione e alla comprensione dei fatti che hanno determinato il suo abbandono della Chiesa e il successivo rientro. È su  questi fatti che il libro fa piena chiarezza sulla base di un’ampia documentazione d’archivio inedita e  di articoli di stampa del periodo esaminato.
LanguageItaliano
PublisherStreetLib
Release dateFeb 10, 2018
ISBN9788827564455
Don Gabriele Pagani e il modernismo (1909-1911)

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    Don Gabriele Pagani e il modernismo (1909-1911) - Alberto Vacca

    Note                                                                         

    CAPITOLO PRIMO

    L’ATTIVITÀ GIORNALISTICA AL CAMPANONE

    La vicenda di don Gabriele Pagani che, nel settembre 1910, abbandona il sacerdozio per dedicarsi a un'accesa propaganda anticlericale e, nel novembre 1911, rientra nella Chiesa, si colloca in un periodo in cui all'interno del mondo cattolico è in atto un forte scontro tra modernisti e antimodernisti.

    Gli studiosi del modernismo hanno finora dedicato solo qualche breve cenno alla figura di don Pagani, senza però fornire alcun utile elemento alla ricostruzione e alla comprensione dei fatti che hanno determinato il suo abbandono della Chiesa e il successivo rientro. Ed è al chiarimento di questi fatti che viene dedicato il presente saggio.

    Sebbene don Pagani non possa essere definito modernista dal punto di vista teologico e dottrinale, viene però considerato tale dal punto di vista sociale dai cattolici tradizionalisti del suo tempo, per le posizioni da lui assunte in difesa dei lavoratori sulle pagine del Campanone. È il clima di diffidenza e repressione, tipico del pontificato di Pio X¹, contro le nuove aperture di una parte del clero e del laicato cattolico verso le istanze della società moderna che determina l'apostasia di don Pagani, che si conclude però con la sua riconciliazione con la Chiesa.

    Nelle pagine che seguono si analizzeranno prima le ragioni che determinano il suo abbandono del sacerdozio, successivamente la sua attività anticlericale, infine il suo rientro nella Chiesa.

    La diocesi di Bergamo, nei primi anni di sacerdozio di don Pagani, che viene consacrato nel 1903, è retta dal vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi², di cui è segretario il giovane prete Angelo Roncalli³, che è stato compagno di studi di don Pagani nel seminario bergamasco. Essa è una delle diocesi più dinamiche d'Italia nel campo dell'intervento sociale, in cui si impegna attivamente riuscendo a conquistarsi un proprio spazio in competizione con il movimento socialista.

    Le aperture della Chiesa verso le problematiche della società moderna, caratterizzata dal fenomeno dell'industrializzazione e dalla nascita di un proletariato industriale e agricolo sfruttato dalle forze capitalistiche, prendono avvio con l'enciclica « Re-rum Novarum » (1891) di Leone XIII⁴ che, se da un lato condanna la lotta di classe promossa dal movimento socialista, dall'altro riconosce il diritto di associazione dei lavoratori. L'enciclica, però, omette di chiarire alcuni problemi con cui i cattolici devono immediatamente confrontarsi, data la rapidità dei mutamenti sociali. Un primo problema riguarda la struttura delle associazioni operaie che, secondo alcuni devono essere di tipo cooperativo, cioè aperte sia ai lavoratori sia ai datori di lavoro, mentre secondo altri devono essere di tipo classista e quindi riservate solo agli operai. Un secondo problema concerne la liceità o meno del ricorso al mezzo dello sciopero da parte dei lavoratori per far valere i propri diritti nei confronti dei padroni; mezzo che viene largamente utilizzato dal movimento socialista, ma rifiutato dai cattolici tradizionalisti. Un terzo problema è rappresentato dall'ambito dell'autonomia riservata ai laici, nei confronti delle autorità ecclesiastiche, nell'espletamento delle loro attività sociali e politiche.

    A Bergamo esiste già, fin dalla seconda metà dell'Ottocento, una vasta rete di organizzazioni cattoliche ‒ società di mutuo soccorso e di assicurazione, cooperative, banche popolari ecc. ‒ che permette alla chiesa locale di svolgere una consistente opera di assistenza tra la popolazione, per la quale essa costituisce un punto di riferimento. Con la crescente diffusione del fenomeno del proletariato industriale e agricolo, però, tale opera di assistenza si rivela inadeguata perché non è più in grado di contenere le proteste e le lotte degli operai e dei contadini che, aspirando a migliori condizioni di vita, si ribellano contro le inumane condizioni di sfruttamento a cui sono sottoposti.

    Il nuovo scenario pone al movimento cattolico sfide nuove che esigono risposte nuove rispetto al passato. Di fronte alle sfide nuove, però, c'è chi si arrocca nelle posizioni del passato e chi, invece, le accetta e trova soluzioni nuove che siano in grado di dare ad esse una risposta adeguata. A Bergamo, come altrove, perciò i cattolici progressisti, che formano le leghe bianche per difendere gli operai e i contadini, si trovano nella necessità di ricorrere a mezzi di lotta, compreso lo sciopero, che non differiscono da quelli utilizzati dal movimento socialista. Non solo. Gli organizzatori delle leghe rivendicano anche, nell'azione sindacale, un certo margine di autonomia nei confronti della gerarchia ecclesiastica, ritenendo inadeguate le direttive troppo rigide che ostacolano l'azione di sostegno alle classi lavoratrici. Essi, inoltre, tendono ad accettare il sistema democratico dello stato liberale e a prospettare la possibilità che le classi popolari possano svolgere un ruolo al suo interno, riscattandosi dell'emarginazione sociale e politica in cui sono confinate e diventando artefici del proprio destino. Ovviamente questa impostazione data alla questione sociale dai cattolici progressisti non trova il gradimento di quelli tradizionalisti che sostengono l'interprofessionalità delle associazioni sindacali; condannano lo sciopero come mezzo di lotta socialista, contrario ai principi del cattolicesimo; subordinano l'azione sociale e politica dei laici alle direttive della gerarchia ecclesiastica.

    A Bergamo l'orientamento progressista è guidato da Nicolò Rezzara⁵, quello tradizionalista dal conte Stanislao Medolago Albani⁶. Il contrasto tra i due orientamenti, restato a lungo latente, diventa manifesto, come si vedrà, in occasione dello sciopero di Ranica, di cui si parlerà più avanti.

    Don Pagani ‒ cresciuto e formato, negli anni trascorsi nel seminario vescovile, secondo lo spirito di apertura verso il mondo moderno prospettato dalla « Rerum Novarum » ‒ diventa uno dei protagonisti della vita sociale bergamasca nel periodo in cui l'ala progressista dei cattolici decide di intraprendere un'azione di aperto e deciso sostegno alle lotte della classe operaia, sostenute fino a quel momento quasi esclusivamente dai socialisti. Tale azione si concretizza, nella primavera del 1906, nella creazione dell'Ufficio del lavoro diocesano, le cui finalità vengono illustrate al pubblico in occasione della XIX festa federale delle associazioni cattoliche bergamasche, tenuta a Borgo Canale il 2 settembre 1906. Il nuovo organismo sindacale cattolico viene presentato come un intermediario che intende comporre le vertenze che insorgono tra i lavoratori e i datori di lavoro in modo pacifico, facendo ricorso ai collegi dei probiviri, ove esistano, e ai comitati di arbitrato negli altri casi:

    Suo ufficio è comporre le vertenze, facilitare l'intesa fra lavoratori e proprietari; trovare lavoro a chi ne cerca e mano d'opera agli industriali che ne domandano.

    Sono operai di opifici che si lamentano per gli orari troppo lunghi, per i salari bassi, per le cattive condizioni degli ambienti in cui sono forzati a lavorare. Ebbene si presentino all'ufficio del lavoro. Sono contadini che desiderano un migliore trattamento, che domandano condizioni migliori di lavoro. Ebbene, vengano anch'essi all'ufficio del lavoro. Esso esaminerà o farà esaminare le proposte a persone competenti: ma occorre che abbiano ad esporre le cose con chiarezza e verità, occorre che non si abbiano pretese soverchie, esagerate.

    Se sarà del caso rinvierà la questione ai collegi probivirali per quelle industrie per le quali già esistono ed assisterà gli interpellanti davanti ai suoi collegi. In quelle industrie invece dove non ci sono ancora collegi, provvederà a istituire comitati d'arbitrato per l'occasione⁷.

    La composizione pacifica delle vertenze, con la conseguente esclusione del ricorso alla violenza come strumento di lotta, è la caratteristica essenziale che differenzia l'Ufficio del lavoro dalle Camere del lavoro, dominate dai socialisti, accusate di volere distruggere e non migliorare l'ordinamento sociale:

    Le camere del lavoro s'ispirano all'odio di classe, promuovono il disordine, vogliono la distruzione violenta dei moderni ordinamenti della società; l'ufficio del Lavoro s'ispira invece all'accordo, all'armonia; vuol migliorare l'ordinamento sociale secondo i precetti di Cristo. Poiché nessuno oserà dire che l'ordinamento moderno sia perfetto e che non sia suscettibile di miglioramenti⁸.

     Gli organizzatori dell'Ufficio del lavoro, tra i quali si distingue in modo particolare don Achille Ballini⁹, dimostrano fin dall'inizio una buona capacità organizzativa che permette loro di inserirsi nella gestione di varie vertenze insorte tra operai e padroni e di risolverle positivamente. L'ufficio del lavoro, attraverso la promozione della costituzione delle leghe operaie e contadine e la gestione degli scioperi e delle proteste che si verificano nel Bergamasco¹⁰, riesce a conquistare progressivamente un consenso sempre più ampio tra i lavoratori,  che gli permettere di competere senza soggezione con i socialisti, che vengono da esso additati come avventurieri che mandano allo sbaraglio la classe operaia, senza curarne effettivamente gli interessi.

    L'organizzazione e l'azione sociale dei cattolici bergamaschi viene promossa e sostenuta dai due organi di stampa diocesani: il quotidiano « L'Eco di Bergamo » e il settimanale « Il Campanone », che si schierano apertamente a sostegno delle rivendicazioni operaie. Ed è, appunto, l'attività giornalistica svolta sulle pagine del Campanone che fa assurgere don Pagani a protagonista della vita sociale bergamasca.

    Fondato nel 1885 da Nicolò Rezzara, il Campanone si dimostra attento verso la questione sociale, sostenendo che essa non può essere risolta solo con il mezzo della repressione poliziesca, ma con l'adozione di adeguate misure legislative a favore della classe operaia. Dimostrazione di questa attenzione del settimanale verso i problemi della classe operaia sono gli articoli apparsi sulle sue pagine in occasione di vari episodi di lotte operaie e contadine represse nel sangue dalle forze governative, quali i moti del 1893 in Sicilia, i moti di Milano del maggio 1898, lo sciopero di Buggerru del 1904, i moti popolari del 1906 in Sardegna¹¹.

    È, però, dopo la costituzione dell'Ufficio del lavoro che il Campanone assume progressivamente una connotazione classista, ponendo al centro dei suoi interessi la questione sociale. A partire dal 1906 esso, sebbene da un lato resti sempre caratterizzato dalla difesa degli interessi della Chiesa e dalla perdurante polemica contro la massoneria e il socialismo, considerati i suoi principali nemici, dall'altro dimostra un nuovo orientamento verso la questione operaia, trattando i problemi delle condizioni di vita dei lavoratori e appoggiando le lotte da essi intraprese per migliorarle. Esso dedica un ampio spazio non solo alla cronaca dei numerosi scioperi che si verificano in varie fabbriche, soprattutto tessili, sostenendo le rivendicazioni degli operai che chiedono la riduzione dell'orario di lavoro e aumenti salariali, ma anche alla rivendicazione di misure legislative tese alla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli e all'abolizione del lavoro notturno. Particolare attenzione, inoltre, riserva ai problemi del mondo agricolo, a cui dedica settimanalmente un'intera pagina in cui sono contenuti anche consigli pratici sullo svolgimento dell'attività agricola.

    Al cambiamento di linea del Campanone apporta, senza dubbio, un contributo decisivo don Pagani che, dopo esserne stato uno dei collaboratori, ne diventa direttore nel novembre 1907. Sotto la sua direzione, che dura fino al 9 settembre 1910, l'orientamento classista del settimanale si accentua ulteriormente.

    Ciò, però, se da un lato fa triplicare la tiratura del settimanale, dato il gradimento che esso riscontra nella classe operaia, dall'altro suscita alcune tensioni nel mondo clericale che si concluderanno, come si vedrà più avanti, con la sconfessione della linea adottata da don Pagani da parte delle autorità ecclesiastiche – il papa Pio X e il vescovo Radini Tedeschi – e con la sua ribellione alle loro direttive, attuata con l'abbandono del ministero sacerdotale nel settembre 1910.

    Sarebbe troppo lungo dare qui conto dell'attività giornalistica svolta sulle pagine del Campanone da don Pagani a sostegno delle rivendicazioni degli operai delle fabbriche e dei contadini delle campagne e perciò ci si limita solo a qualche esempio che può dare il senso del suo stile caustico e mordace e del suo temperamento fiero che non si piega di fronte all'arroganza e alla prepotenza dei padroni.

    All'inizio del 1908 viene firmato un nuovo patto colonico tra i proprietari terrieri e i coloni della pianura bergamasca. Venuto a conoscenza che parecchi proprietari terrieri non intendono rispettare più il patto da essi sottoscritto, don Pagani pubblica sul Campanone due trafiletti in difesa dei contadini sottoposti al loro ricatto. Il primo, pubblicato il 31 ottobre 1908 è intitolato « Padroni infedeli? »; il secondo, pubblicato il 21 novembre 1908 è intitolato « Che dobbiamo fare? ». Si riporta qui il testo del secondo:

    In uno degli ultimi numeri del nostro giornale abbiamo alzato la voce, avvisando alcuni padroni che dovevano stare ai patti colonici proposti e accettati la scorsa primavera: in quell'articoletto abbiamo anche ricordato che saremo pronti a denunciare al pubblico i fedifraghi, che promettono e non mantengono.

    Ciononostante la campagna di questi padroni strozzini continua, continua.

    Ai poveri contadini offrono per i bozzoli il prezzo camerale diminuito di cent. 40 per ogni chilogramma, e ai poveri contadini minacciano il licenziamento se non tornano ai patti vecchi.

    Ma questi signori padroni, con chi mai credono di trattare? perché sono contadini i loro dipendenti, credono di poter fare e strafare?

    Ma finitela una buona volta e voi, o padroni, che vi credete educati e superiori ai poveri servi della terra, voi insegnate col vostro operare la fedeltà alle promesse fatte.

    « il Campanone » sempre pronto a dare il torto anche ai contadini, quando lo abbiano, sempre pronto a raccomandare la calma, ricordatelo, o padroni, sarà pronto anche a dire ai vostri contadini: insorgete e protestate contro chi ingiustamente vi preme e vi conculca.

    Per ora non diciamo questo; per ora non lanciamo al popolo da voi disprezzato questo grido di guerra giusto e santo; anzi ai contadini diciamo: state quieti, non insorgete che i padroni saranno fedeli a quanto vi promisero; ma se non vi piegherete a più miti e più giusti consigli, o padroni, « il Campanone » chiamati a raccolta i vostri dipendenti li capitanerà e li dirigerà nella lotta che voi volete.

    Non venite a lamentarvi con noi perché sosteniamo i contadini, siete voi che ci avete obbligati, perché la verità e la giustizia non si devono inchinare neppure dinanzi ai signori padroni.

    O padroni, siete avvertiti.

    D. G. P.¹²

    La pubblicazione dell'articolo, che apostrofa come « fedifraghi »  e  « strozzini » i padroni che vengono meno ai patti stipulati con i contadini che lavorano nelle loro terre, ovviamente non piace ai proprietari terrieri, che fanno pressioni presso i superiori di don Pagani per richiamarlo alla moderazione. Don Pagani, consapevole di essere dalla parte giusta – « perché la verità e la giustizia non si devono inchinare neppure dinanzi ai signori padroni » – non si fa intimorire e reagisce con la pubblicazione di un nuovo articolo in cui non solo ribadisce la propria posizione, ma tratta i padroni « fedifraghi »  e  « strozzini » da somari che capiscono solo con le bastonate e da falsi credenti che meriterebbero di essere colpiti con lo scudiscio e lo staffile come fece Gesù con i mercanti del tempio:

    Quanti impicci, quante seccature ci ha procurato quell'articolo dal titolo Che dobbiamo fare? che abbiamo scritto la scorsa settimana.

    I padroni si sono sentiti punti un po’ sul vivo ed hanno fatto proteste sopra proteste, ci hanno chiamato, esagerati, spinti, imprudenti e via via. Hanno interessato persone, perché ci dessero una lavatina di capo e se si poteva ci tirassero un po’ anche gli orecchi.

    Noi, fedeli al nostro principio, che ci sono amici i signori padroni, ma ancor più ci è amica la verità, abbiamo sopportato tutto e tutti pazientemente e tutti abbiamo sentito. Non possiamo però dopo tutto non farci vivi e non tornare sull'argomento. E ci siamo.

    I signori padroni, quei tali signori padroni che vengono meno alle promesse fatte ed ai quali era diretto il nostro articolo, perché si lamentano ora così fortemente? perché ci accusano ora di rivoluzionari, e quasi quasi di anarchici? Quando altra volta li abbiamo posti sull'attenti, li abbiamo avvisati pel loro bene, li abbiamo minacciati di metterli alla gogna, perché non si sono fatti vivi? C'era bisogno proprio di quell'ultimo articolo salato e pepato per iscuoterli? Se questo fosse vero, bisognerebbe ammettere anche che purtroppo è necessario – ci si perdoni il paragone – trattare con loro come cogli asini: non capiscono la ragione si adoperi il bastone.

    Se d'ora innanzi i signori padroni si crederanno un po’ più piccoli e si presteranno un po’ più anche ad ascoltare noi, poveri pigmei, che difendiamo diritti sacrosanti non ricorreremo ad articoli violenti, se no – lo confessiamo – perché tirati coi capelli, ne avremo pronti ancora.

    Ricordate che fece Nostro Signore Gesù Cristo là nel tempio di Gerusalemme coi mercanti? Prese uno staffile e con quel metodo persuasivo assai, li scacciò.

    Ma e non poteva adoperare le buone? e pensiamo e, ne siamo certi che avrà usato tutti i mezzi prima, ma poi toccato con mano che quei mercanti non capivano nulla, ha fatto ricorso allo scudiscio e qualche cosa intesero allora.

    Abbiamo fatto così anche noi coi padroni ed abbiamo fatto male?

    Crediamo proprio di no.

    Bergamo, 25.11.908  d. G. P.¹³

    Tra le varie lotte operaie che vengono sostenute da don Pagani, quella che conferisce maggiore notorietà alla sua attività giornalistica è rappresentata dallo sciopero di Ranica, che si protrae dal 22 settembre al 7 novembre 1909. All'epoca Ranica è un borgo di campagna, in cui esiste un'importante fabbrica tessile di proprietà della società fondata nel 1889 da Gioachino Zopfi e da alcuni suoi soci, tra cui Jost Luchsinger. Nella fabbrica lavorano oltre 800 operai, in prevalenza donne e ragazzi. Nel settembre 1907, nella fabbrica si verifica uno sciopero teso ad ottenere aumenti salariali ed altre rivendicazioni, che si chiude con l'accettazione parziale delle richieste dei lavoratori da parte dei proprietari, grazie all'intervento di Archimede Pasquinelli¹⁴, membro dell'Ufficio del lavoro diocesano.  La conclusione positiva della vertenza soddisfa gli operai che accettano, perciò, il suggerimento del Pasquinelli di costituire una lega per meglio difendere i loro interessi in futuro¹⁵.

    Il 10 settembre 1909, alla scadenza del contratto di lavoro, il presidente della Lega invia alla ditta un memoriale per chiedere nuovi aumenti salariali. Questa, però, respinge la richiesta con la motivazione di trovarsi nell'impossibilità di accettarla a causa della grave crisi che colpisce il settore in cui opera. Nel contempo licenzia un operaio, certo Lupini, per essersi rifiutato di compiere il lavoro a cui era addetto. La Lega però difende l'operaio, sostenendo che lo stesso è stato licenziato perché si è rifiutato di montare una cinghia in condizioni contrarie alle norme di sicurezza e ha reagito alle provocazioni e alle minacce  di un capo¹⁶. La ditta non solo respinge la richiesta ma, il 20 settembre, procede al licenziamento dell'operaio Pietro Scarpellini¹⁷, che lavora nello stabilimento da 27 anni ed è vicepresidente della lega. I motivi posti a base del licenziamento, resi noti da Jost Luchsinger, socio della ditta Zopfi, sono l'opposizione dello Scarpellini, nel suo reparto, all'applicazione delle multe regolamentari; il ricorrente abbandono del posto di lavoro per occuparsi degli interessi della lega; l'incoraggiamento dato a un'operaia, che è solita trafugare pezze di tessuto, a continuare nei suoi furti. Essi vengono respinti come falsi dalla lega e dagli operai che si schierano decisamente a favore dello Scarpellini. Il 21 settembre, nella fabbrica vi è un grande fermento tra gli operai, che culmina con il loro abbandono del posto di lavoro non appena vi notano la presenza dei carabinieri chiamati dai proprietari. È l'inizio dello sciopero, che si trasforma subito in sciopero-serrata perché la ditta, che ha due stabilimenti, non chiude solo lo stabilimento abbandonato dagli operai, ma anche quello in cui le maestranze sono rimaste al loro posto di lavoro. A questo punto, la difesa dello Scarpellini diventa prioritaria rispetto a quella del Lupini perché, essendo egli vicepresidente della Lega, il suo licenziamento costituisce un attacco diretto contro la libertà di associazione degli operai. Viene, pertanto, deciso lo sciopero a oltranza finché non si otterrà il rispetto del diritto di organizzazione degli operai e la conseguente

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