Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Questa donna io sarò
Questa donna io sarò
Questa donna io sarò
Ebook206 pages3 hours

Questa donna io sarò

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Due racconti: una nobildonna bolognese del '700 e una violoncellista dei nostri giorni danno una svolta alla loro esistenza conquistando una più consapevole identità personale. "Questa donna io sarò" promette a sé stessa Rachele quando capisce che il dorato mondo nel quale vive cela ipocrisie, ingiustizie e le nega una sua compiuta identità come persona. Questa, Rachele raggiungerà attraverso la tragica morte del suo giovane amante e una scelta di vita eterodossa. L'impunità delle classi privilegiate, la doppia morale del cardinale che rappresenta l'autorità papale, la condizione della donna aprono finestre sulla cecità politica dell'ancien regime che sarà travolto dalla rivoluzione. "Sarò questa nuova donna" si dice Sofia quando la verità sull'assassinio della madre e sul suicidio del padre le viene svelata, comprendendo che la consapevolezza del passato può aprirle un futuro di più coraggiosa verità. Un racconto che si snoda fra l'Italia e il sud-ovest degli Stati Uniti, che intreccia le melodie del melodramma italiano all'amore malato del femminicidio, alla conquista della propria identità personale attraverso la conoscenza della verità o l'espiazione di una colpa non commessa.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 6, 2018
ISBN9788827811863
Questa donna io sarò

Related to Questa donna io sarò

Related ebooks

Historical Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Questa donna io sarò

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Questa donna io sarò - Antonio Contestabile

    Shakespeare)

    Rachele

    La marchesa

    Come ogni mattina, in quel primo giorno di aprile dell’anno 1755 la marchesa Rachele Albergati fu svegliata dalla sua cameriera di fiducia, Bettina, con la tazza di caffè fumante appoggiata sul comodino vicino al letto e le pesanti tende di broccato alle finestre aperte per fare entrare la luce del giorno. Le finestre della stanza davano sul cortile interno del grande palazzo di famiglia dentro alla cinta muraria di Bologna e assicuravano tranquillità e silenzio non turbato dal continuo passare di cavalli, carrozze e altri carriaggi sulle pietre che selciavano la strada davanti all’entrata principale. Dalla sua finestra ogni mattina la marchesa poteva vedere la serie di piccoli giardini racchiusi fra le mura del grande palazzo e delimitati da siepi, con il tenero verde dalla nuova erba della primavera interrotto dalle macchie di colore dei primi fiori di stagione nelle aiuole.

    «Buongiorno signora» disse la cameriera, sulla quarantina, piuttosto piccola e rotonda, «il cavalier Spalletti vi sta già aspettando in anticamera, devo farlo entrare?».

    «Uffa quel noioso! Non farmi cominciare così male la giornata che poi devo portarlo al guinzaglio per tutto il giorno. Lo farai entrare dopo il bagno».

    Il cavaliere, da un paio d’anni cicisbeo in carica della marchesa, era un vedovo sulla quarantina che possedeva una campagna piuttosto redditizia nella pianura vicino a Budrio. Rachele gli si concedeva, senza alcun trasporto, due o tre volte all’anno come ricompensa dei servigi che il gentiluomo svolgeva con dedizione ma con poco più del minimo indispensabile dell’eleganza e dello spirito necessari per rendersi accettabile a una gentildonna nella sua posizione. A trentuno anni, Rachele Albergati era considerata una delle donne più belle di Bologna. Piuttosto alta, aveva mantenuto una figura femminilmente armoniosa ma snella nonostante le due gravidanze, l’ultima delle quali peraltro risalente a quasi dieci anni prima, e un viso con un’espressione giovanile, quasi fanciullesca se non fosse stato per una lieve piega, come un amaro sorriso all’angolo delle labbra, che poteva suggerire una sofferta maturità agli occhi di chi avesse prestato l’attenzione necessaria per notarla. Gli occhi erano di un verde cinerino e il loro sguardo si posava sull’interlocutore con vivacità ma anche con un sottofondo di matura consapevolezza che lasciava spesso sconcertati, soprattutto quando gli occhi incontrati da quegli sguardi erano quelli di uomini che non erano abituati a essere guardati da una donna in modo così franco e diretto. Il colore degli occhi e il candore della pelle facevano immaginare agli uomini che la vedevano in società una capigliatura bionda sotto la bianca parrucca ed era quindi sorprendente, per quelli ammessi nella sua intimità, scoprire invece lunghi capelli ramati che divenivano quasi fulvi quando, come quella mattina, una lama di sole li colpiva obliquamente penetrando dai vetri della finestra. Il volto privo di cipria rivelava allora anche la lieve nuvola di piccole lentiggini che dagli zigomi raggiungevano la radice del naso.

    Quando il cavaliere fu finalmente ammesso nella sua stanza, trovò la marchesa davanti allo specchio con una cameriera che le stava pettinando i capelli per raccoglierli nella parrucca e una seconda che teneva sollevati due vestiti fra i quali il suo sguardo si spostava per decidere quale avrebbe indossato quel giorno.

    «Caro amico» disse la marchesa porgendogli la mano da baciare «grazie per la vostra pazienza, spero almeno che nell’attesa vi abbiano servito un buon caffè».

    «Una dolce cioccolata in verità» rispose il cavaliere recitando con tono eccessivamente cerimonioso la frase che si era certamente preparata mentre aspettava di essere ammesso, «ma niente in confronto alla dolcezza dell’attesa di vedervi».

    «Galante come sempre, cavaliere» disse la marchesa facendosi forza per non scoppiare a ridere e pensando fra sé che era veramente giunto il tempo di dare il benservito a quello sdolcinato noioso e di scegliere un nuovo cavalier servente fra la numerosa schiera di candidati che non aspettavano altro. Non che ci sia molto di meglio a disposizione pensò quelli più giovani e presentabili sono degli sciocchi vanesi e quelli con un po’ più di spirito hanno acciacchi vari dovuti all’età, vanno benissimo per una conversazione o per farsi leggere un libro davanti al caminetto ma non sono certo i migliori accompagnatori per il teatro o per un ballo. Le sue riflessioni furono interrotte dall’entrata del marito. Il marchese Niccolò Albergati, anch’egli sulla quarantina, era un uomo di statura piuttosto bassa e di corporatura robusta con una faccia paffuta e colorita sotto la parrucca e una considerevole prominenza dell’addome che rivelava un piacevole e frequente rapporto con i piatti preparati dalla cucina del palazzo, una delle più rinomate fra quelle della città. Membro per diritto di famiglia del Senato cittadino, non dava certamente lustro al seggio senatorio per acume politico o anche soltanto per semplice intelligenza, i suoi principali interessi essendo nell’ordine: il cibo, la compagnia di donne di facili costumi, il gioco e la caccia.

    «Buongiorno mia cara» disse chinandosi con qualche difficoltà dovuta alla rotondità del ventre per baciare la mano della moglie, «spero abbiate riposato bene».

    «Ottimamente amico mio» rispose Rachele.

    Il marchese si inchinò cerimoniosamente per salutare il cavaliere che rispose con un inchino ancora più profondo, poi si rivolse nuovamente alla moglie che avendo infine deciso quale abito indossare si stava infilando in quello prescelto aiutata dalla cameriera che premurosamente accomodava le pieghe della sottoveste all’interno dell’ampia gonna: «volevo ricordarvi il ricevimento che daremo dopodomani in onore del nuovo gonfaloniere¹ e chiedervi se avete qualche ordine particolare per la cucina e per la servitù. Anche sua eminenza il cardinale legato ci onorerà della sua presenza».

    «Faremo come sempre del nostro meglio per rispondere a tanto onore» disse la marchesa con una sfumatura di ironia nella voce che non fu colta da nessuno dei due uomini, «mi assicurerò che la guardarobiera controlli con cura le livree della servitù. Per la cucina, come sapete mio caro mi affido completamente al vostro raffinato giudizio e alla maestria del nostro cuoco».

    «Ci sarà anche l’illustre lettrice onoraria dello Studio, Laura Bassi Verrati², come sapete entrata a far parte della nostra Accademia delle Scienze per espresso volere di Sua Santità nonostante, devo dire, le perplessità di diversi accademici e di non pochi fra i miei colleghi senatori. Anche se non mi permetto certo di discutere le illuminate decisioni del nostro Santo Padre, non posso dire di condividere del tutto che vengano affidati compiti di insegnamento per i nostri giovani a docenti donne che, se pure valide scienziate, non possono certo avere l’autorevolezza e il rigore logico dei nostri stimati professori. Senza considerare che l’impegno nella scienza e nell’insegnamento non può non distogliere una donna dai suoi primari compiti di sposa e di madre. Voi cosa ne pensate cavaliere?».

    «Sono certamente d’accordo con voi, marchese, per le ragioni che avete detto. E inoltre, se posso permettermi di aggiungere un altro punto, chi preferirebbe conversare con una signora che invece che imporci i suoi comandi con il dolce eloquio e l’incantevole sorriso si esprimesse con aride formule matematiche o, Dio ne guardi, ci parlasse delle leggi della fisica dei gravi?».

    «Certamente nessuna donna vorrebbe tediare i nostri mariti, che tanto si prendono cura di preservare le più nobili funzioni delle loro spose, con formulette ripetute senza la necessaria autorevolezza logica né privare nobili signori del piacere di conversare con le loro amiche senza dover fare noiosi sforzi intellettuali» disse la marchesa osservando i due compagni di conversazione e non meravigliandosi del fatto che, come quasi sempre accadeva con gli uomini che frequentava, essi non cogliessero il minimo cenno di ironia nelle sue parole. Poi rivolta al marito: «sarò molto lieta di incontrare di nuovo l’illustre scienziata che già ben conosco e che, vorrei tranquillizzarvi mio caro, non ha affatto rinunciato per la scienza ai suoi doveri di sposa, poiché ha dato in questi anni numerosa prole al suo stimato marito».

    «Sarà certamente interessante riceverla. Allora a dopodomani sera mia cara, temo che non avrò il piacere di vedervi prima di allora per i molti affari da sbrigare e le riunioni del Senato».

    «Non vi date pensiero di questo, il cavaliere mi farà buona compagnia».

    «Ne sono certo e gliene sono grato» disse il marchese accomiatandosi con un nuovo inchino.

    Affari da sbrigare, certo! pensava Rachele mentre la cameriera dava gli ultimi tocchi alla sua toeletta. La mattina a gironzolare nello studio facendo finta di leggere un libro francese o dando qualche ordine ai fattori, con l’interruzione delle continue visite alla cucina per sorvegliare la preparazione del pranzo. Al pomeriggio al Senato discutendo leggi che poi il cardinale legato riscriverà da cima a fondo o getterà direttamente nel cestino della carta straccia. La sera a giocare al casino e poi a cena con la ballerina o l’attricetta di turno. Certo, questo mi dà il vantaggio di disporre del mio tempo e di non vedere quasi mai il mio nobile consorte. Se dovessi vedere tutti i giorni anche lui oltre al cavaliere non credo riuscirei a resistere!.

    Non era stato sempre così, ricordava, mentre dava con pigra soddisfazione gli ultimi tocchi alla sua toeletta dopo aver spedito il cavaliere ad accertarsi che si stesse preparando la carrozza che doveva accompagnarli. I primi tre anni di matrimonio, fino alla nascita del figlio maschio dopo la primogenita femmina, erano stati molto diversi e l’avevano quasi ridotta alla disperazione. Il marchese Niccolò, pur con la sua apparente bonomia, era stato molto chiaro fin dal primo giorno quando, dopo la cerimonia nella cattedrale e il pranzo nel salone del palazzo si erano ritirati nelle stanze di lei: essa doveva dargli un figlio maschio che potesse ereditare il titolo, il seggio senatorio e le proprietà. Poi avrebbe potuto godere della più ampia libertà rispetto a ogni obbligo coniugale, fatto salvo il mantenimento del decoro famigliare e delle relazioni sociali. Naturalmente non si era mai parlato fra loro di amore, il matrimonio era stato combinato fra lo zio monsignore di Niccolò e il padre di Rachele. Questi era un nobile di provincia di buona casata ma di proprietà piuttosto ridotte nelle colline sopra Imola, che avevano però dal punto di vista degli Albergati il pregio di essere confinanti con le loro e di potere quindi essere vantaggiosamente unite per via ereditaria nel futuro, dato che dei due fratelli di Rachele uno era parroco di un prosperoso paese della pianura fra l’Emilia e la Romagna mentre il primogenito, che aveva intrapreso la carriera delle armi, era morto quando Rachele era ancora una bambina nella sanguinosa battaglia di San Pietro a Parma³ combattendo da ufficiale nell’armata franco-piemontese. Il vantaggio del matrimonio per i genitori di Rachele, e quindi per Rachele stessa senza ombra di dubbio, era rappresentato dall’imparentarsi con una delle più nobili e ricche famiglie dell’intera legazione e dalla posizione elevata che la figlia avrebbe in questo modo raggiunto in società. Non fu naturalmente mai in discussione se Rachele stessa potesse avere una sua idea sul previsto accordo, poiché essendo lo stesso soddisfacente per la famiglia non poteva che renderla del tutto contenta a sua volta. Essa ricordava il primo incontro con il futuro marito, arrivato alla casa paterna in una decorata carrozza trainata da quattro cavalli e scortata da otto famigli in livrea. Il marchese Niccolò aveva allora ventotto anni, era di corporatura piuttosto tozza e robusta anche se non possedeva ancora la rosea pinguedine che avrebbe poi acquistato con gli anni. Il volto era già abbastanza paffuto con gli occhi infossati e una piccola bocca sormontata da due curati baffetti che nell’insieme gli davano un aspetto non particolarmente attraente e a tratti anche un po’ sciocco, quando roteava gli occhi con un curioso movimento prima di fissarli in quelli della persona con la quale stava parlando. In quel primo incontro egli le aveva rivolto la parola con i modi più cortesi ed eleganti mentre la guardava con un’aria di compiaciuta approvazione che a Rachele, nella sua inesperienza, era parso uno sguardo di ammirazione. Aveva diciassette anni e aveva passato quasi tutta la fanciullezza e l’adolescenza nel convento di suore alle quali era stata affidata la sua educazione, tranne i periodi delle vacanze che trascorreva nella casa paterna. Quello sguardo che le sembrava affettuoso la faceva sperare in una vita felice accanto a quell’uomo così ben vestito e di maniere raffinatamente cortesi.

    Che sciocca pensava ricordando in realtà mi guardava come il sensale che valuta le qualità di fattrice della giovenca che sta comprando al mercato del bestiame. Con lo stesso sguardo compiaciuto mi guardava la notte delle nozze mentre mi faceva spogliare e mi faceva coricare nel letto dove mi avrebbe poi fatto visita, puntuale e meticoloso, una volta alla settimana nei mesi successivi fino a quando rimasi incinta. All’inizio Rachele vedeva le cose confusamente, le sue sensazioni e i suoi pensieri erano come dispersi in una densa foschia nella quale le sembrava di muoversi con passi incerti, poi la consapevolezza le crebbe dentro a poco a poco. Egli non la considerava una persona ma una sua proprietà al pari dei suoi cavalli, dei cani con i quali andava alla caccia, delle ballerine che incontrava e pagava nelle serate che trascorreva fuori casa senza preoccuparsi affatto di nasconderlo a lei. Da questa consapevolezza, un sentimento sempre più preciso si faceva strada nella foschia che avvolgeva la sua mente. Era stato all’inizio un senso di disperazione per l’aridità e l’ingiustizia della vita presente, ma sempre di più diventava un sentimento di intima fiducia che essa sarebbe stata capace di superare quella situazione umiliante e di avere una vita diversa. Questa fiducia non derivava solo dalla promessa di libertà fattale dal marito una volta che avesse adempiuto ai suoi obblighi di fattrice, ma dall’insieme di una sua interiore maturazione e della progressiva conoscenza che andava man mano acquisendo del mondo nel quale sarebbe vissuta. Rachele non era più la ragazza diciassettenne che aveva visto nel futuro marito una specie di principe piumato con carrozza e cavalli. Nei primi anni di matrimonio, fino a quando non aveva partorito l’erede maschio, la sua vita sociale era stata molto limitata, solo in poche occasioni le erano permessi ricevimenti e balli e quando usciva dal palazzo era sempre accompagnata da qualche più anziana parente, zia o cugina, del marchese. La liberalità dei nobili mariti bolognesi verso le mogli non si spingeva fino al punto di rischiare di allevare un bastardo come erede e il marchese Niccolò non faceva eccezione. Fino a quando non gli avesse dato un legittimo figlio maschio, Rachele sarebbe stata strettamente controllata poi, come molte delle nobili dame della città, sarebbe stata libera di dedicarsi agli svaghi e al gioco, di tenere un salotto e di vestirsi secondo il variare delle mode, avrebbe potuto avere cicisbei e altri amanti. Nonostante le limitazioni alle quali era sottoposta durante i primi anni di matrimonio, Rachele aveva osservato con attenzione la società nella quale sarebbe vissuta e ne aveva compresa a fondo non solo l’ipocrisia nascosta sotto il formale rispetto delle regole sociali e religiose, ma anche la sottile crudeltà nascosta dalla cortesia e dalla spesso ridicola svenevolezza dei modi. Non sapeva in che modo sarebbe riuscita a fingersi perfettamente conforme al tipo di vita che le era richiesto senza lasciarsene possedere l’anima, ma era certa che ci avrebbe provato per tutta la vita. Se è vero che ho un’anima, allora questa non può che essere mia, frutto dei miei pensieri, dei miei ricordi, del mio essere donna, non di mio marito, non degli amanti che avrò, non delle nobili dame alla vita delle quali fingerò di adeguarmi. E se, come persona, ho qualcosa che è solo e veramente mio, allora non dovrò dipendere dal possesso di mio marito o di un amante per il mio corpo né dal possesso del mio spirito da parte di un precetto o di un confessore per essere e riconoscermi come donna. Questa donna io sarò.

    Quando, dopo poco più di un anno di matrimonio era nata la prima figlia, Isabella, aveva colto nell’espressione sempre cortese del marito un’aria di disappunto che non le era stato difficile attribuire all’incomodo di dover riprendere le visite settimanali al suo letto. La nascita del figlio maschio, chiamato Pirro come lo zio, musicista di una certa fama e da pochi anni scomparso, era stata accolta

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1