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I tre regni
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I tre regni

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Un uomo potrà scoprire un nemico nascosto, impensato e inimmaginabile parassita del suo animo da tutta la vita, incontrandolo unicamente in un’altra dimensione: nel mondo fantastico degli eroi. Sarà il primo passo che lo spingerà a inoltrarsi nei segreti della memoria, ove si rintana una ve-rità perduta e sconvolgente. Per potersi avvicinare il più possibile, il protagonista dovrà allontanarsene nella maniera più estrema e radicale. Ecco, così, che il protagonista toscano dei nostri giorni diviene Aonghas, capo clan nella Scozia favolosa del settimo secolo D.C., ove è trasportato senza sapere come, senza intuirne la ragione, per compiere una missione di cui ignora il progredire e perfino la meta. Ne viene inconsapevolmente avviluppato per consentire al suo nemico di accedere alla nostra epoca, usandolo come un ignaro portatore. Eppure, quel nemico, che vive nel sogno, l’ha realmente già violato. In un tempo così lontano e dimenticato che, solo nella leggenda, il protagonista potrà trovare la via per smascherarlo, affrontarlo e sradicarlo da se stesso.


Francesco Tenucci Nasce a Siena, ove si laurea in Scienze Politiche, Francesco Tenucci, ha pub-blicato il primo romanzo, “Il Paese delle Nuvole”(Lucio Pugliese Editore), nel duemilauno ed alcuni racconti brevi su periodici locali. Altri, di genere marinaresco, sono comparsi, premiati, su collane di Concorsi Letterari nazionali. E’ poi scaturito il seguito de “Il Paese delle Nuvole”, con “Tutti mi dicon Maremma” (Leucotea Edizioni 2012), ambientato nella Maremma toscana ove ha trascorso la sua intera vita, traendo costante ispirazione dalla natura selvaggia e aspra di una terra mistica e spirituale. Da tale atmosfera incantata ha preso vita il genere di narrativa fantastica che vede pubblicare “Anselmo dei Boschi” (Pilgrim Edizioni 2012) e i “Tre Regni”.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateFeb 6, 2018
ISBN9788867827367
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    I tre regni - Francesco Tenucci

    Francesco Tenucci

    I Tre Regni

    Francesco Tenucci

    I Tre Regni

    EDITRICE GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio D’Adda-Mi.

    Tel 02/90970439

    www.gdsedizioni.it

    TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

    Ogni riferimento presente, nel seguente romanzo, a cose, luoghi o persone realmente esistenti è da ritenersi del tutto casuale, essendo l’opera interamente frutto di fantasia.

    CAPITOLO I

    Monte Labbro

    Era una giornata elettrica, quella in cui lasciai la mia casa. Una costruzione semplice ad un piano, in pietra, con finestre protette da robuste grate intrecciate, e il tetto a scaglie di falesia, per meglio reggere il peso delle nevi invernali, ormai ricordo di un passato da novelle di lupi e streghe.

    Respirai profondamente, come sempre quando ne varcavo la soglia. Mi guardai intorno, come mia abitudine, e m’internai subito nel bosco contiguo e circondante.

    Sotto un cielo di un bigio ocra, i movimenti riuscivano elastici e scattanti. Un’atmosfera carica, di quelle in cui le apparecchiature elettriche rendono al massimo, compreso il sistema nervoso umano. Il genere di giornata ideale per recepire risonanze e ispirazioni, tanto dal profondo dello spirito, quanto da dimensioni invisibili.

    Camminai, intento solo a me stesso, per un antichissimo cammino in salita che attraversava le ripe e i versanti delle alte colline, appoggiandomi di tanto in tanto a grigi massi muschiosi, rivestiti di vivente umidità.

    Era piovuto da poco, e le frasche pendule aspettavano solo me per liberarsi dell’acqua in eccesso, ma non m’importava. Il profumo di terriccio bagnato, l’aria frizzante e profumata di verzura dilavata mi liberavano la mente da ogni fastidio. Il contatto con uno degli elementi fondamentali del cosmo, anziché appesantirmi con l’idea d’esserne infradiciato, mi alleggeriva, dissetando il mio spirito adusto.

    Quando fui stanco, mi sedetti su una pietra tondeggiante, e attesi un segno, o meglio, non attesi proprio nulla, perché stavo veramente bene con me stesso e con il circostante. Solo molto, molto tempo dopo, compresi che si trattava di un segno. In quell’ora constatai solo l’arrivo di uno scoiattolo, così veloce e destro che, all’inizio, non compresi neanche di che si trattasse, finché non mostrò l’inconfondibile coda, che lo distingue nettamente dalle perfide faine o dalle sguscianti donnole. Si fermò a un passo e mi fissò attraverso il suo, tipico sguardo curioso e penetrante.

    Be’, e tu che vuoi?, gli chiesi.

    L’animaletto non è che, propriamente, mi rispose, però, mi fissò per un lungo attimo, inclinando il capino, finché non lo rizzò d’improvviso e schizzò via, dandosi a una balzellante fuga tra le foglie di cerro, per sparire, infine, dietro ad un faggio.

    Mah!, bofonchiai, e mi misi a scrutare il cielo striato dagli spogli tronchi filiformi dei più giovani arbusti di castagno, che gli conferivano un senso di uggia e, a me, improvvisamente, di prigionia. Qualcosa era cambiato, lì intorno. Qualcosa non andava.

    Mi guardai alle spalle e di fianco, fin quando l’occhio non cadde sul punto esatto in cui il roditore s’era dileguato. Al suo posto, due occhi di ghiaccio mi fissavano. Gli occhi cerulei, quasi trasparenti, di un mastodontico lupo nero.

    Ignoro da quanto mi fissasse, tuttavia l’aria s’era fatta immota e l’attesa palpabile. Non so perché non ebbi paura, dato che ero disarmato, e non mi ero munito neanche d’un bastone, per quanto, ne sarebbe servito uno assai robusto per fracassargli il cranio. Dubito, comunque, che ne avrei avuto il tempo, considerato che io mi trovavo seduto e l’altro saldo, e pronto sulle proprie zampe.

    Proprio la mia posizione indifendibile e senza speranza, forse, mi tranquillizzò. Ero una preda ideale. Inerme e colta di sorpresa. Eppure, nessuna evidente minaccia si profilava. Dunque? Che fare, o che dire? Addirittura, che pensare? Niente. Niente di tutto questo si sarebbe rivelato di qualche utilità. Restai immobile, contemplandolo serenamente, sinché l’animale, evidentemente completato il mio esame, non si girò lentamente di lato, senza perdermi di vista.

    In quel momento, mi si presentò alla mente l’immagine di un vialone interminabile contornato da eucalipti, costeggiante un largo e profondo fosso. Copriva un tragitto così esteso. che non se ne poteva intravvedere la fine. Lo prendevo sempre quando mi recavo a cavallo. Mi aspettava, dunque, un viaggio?

    Sbattei le palpebre, e dato che, la bestia non s’era dileguata, ritenni mi stesse rivolgendo un muto invito a seguirla, cosa che feci, senza minimamente considerare la completa assurdità della situazione. Non escludo dipendesse dal fatto che il bosco rappresenti e costituisca la dimensione della mia anima. Solo nella selva, così come in mare, mi son sempre trovato a mio completo agio, tanto da non meravigliarmi di altro, che della cangiante, inesauribile, ma, anche imprevedibile, bellezza della Natura.

    Fatto sta, che lo seguii per un sentiero piuttosto agevole, prima in piano, poi in pendenza, tenuto stranamente pulito, in basso, diciamo fino al ginocchio di un uomo, e, da quell’altezza in su, completamente trascurato. Spostando le gocciolanti ramaglie, notavo, infatti, che il fondo era privo di fogliame, segno evidente di un frequente passaggio. Ma di chi, mi chiesi?! Uomini no di certo, a meno che non esistesse una razza nana rinserrata nel gualdo, per cui, chi altri mai? Le fatine volano, le streghe lo stesso, i giganti, beh…, non restavano che gli gnomi. Che fossi capitato sulla strada segreta degli gnomi? Probabilmente, mi avevano osservato girovagare così tante volte ai confini del loro ascoso reame, da essersi degnati di ammettermi al suo interno. Perché no? Cosa avevo da perdere, in fondo, a lasciare quello corrotto e perverso dei mortali, i quali vivono, sovente, dimentichi della loro condizione, atteggiandosi a divinità crudeli, come se fossero imperituri? Proprio nulla, ma nulla davvero! Almeno, così credevo, allora.

    Ebbi poi modo di scoprire che non è una politica saggia disprezzare ciò che si ha, per gettarsi a capofitto nell’avventura. Si rischia di cozzare così malamente, da restare storditi per un pezzo. Però, essendo anch’io un uomo, come potevo essere tanto più saggio degli altri? Non potevo, appunto, e continuai a seguire il silenzioso animale.

    Non rammento con precisione quanto a lungo camminai. Forse tanto, forse poco. Forse entrambi. Più che spostarmi, mi pareva di scivolare gradatamente in un altro mondo, lasciando dolcemente il nostro, per cui non so se mi stessi veramente spostando nello spazio, nel tempo, o lungo vie che non seguono parametri a noi noti. Comunque sia, avanzai speditamente e serenamente fino a giungere in una radura.

    A un’estremità dello spiazzo, si alzava la più bizzarra pianta su cui il mio occhio si fosse mai posato: una metà, quella di destra, era secca, ma non appariva scheletrica o sinistra, bensì statuaria, scolpita dagli elementi e dal tempo, e ingentilita da un’ederina giovane e fresca, dal tenue verde ancora tenero, che aveva cominciato a rampicarvi, ammantando la martoriata scorza con un timido verzicare. Più che una sensazione di morte, dava un'idea di attesa, consumata nella speranza di un futuro rigoglio.

    L'altra metà, invece, vegetava placida e ubertosa, accogliendo, sul fianco, delle goffe formazioni marroni, gonfie e tondeggianti, che, a un più attento esame, risultarono grassi funghi del legno, color noce sulla superficie esposta al sole e candidi nell’ombrata parte inferiore.

    Nell'incontrarsi, i due lati della corteccia avevano sviluppato un bordo a destra grigio, a sinistra bronzeo, congiunto a formare un arco, che racchiudeva una superficie perfettamente liscia e di colore incerto tra il legno e la pietra, dall’aspetto simile all'ingresso di un antro.

    Nel tempo che avevo dedicato ad ammirare quell'originalissima quercia, a dir poco innaturale, la mia guida si era accoccolata tra evidenti radici nodose e capaci, e, mentre ne ammiravo il contorto disegno, un rumore acuto e secco, simile a un rametto che si spezzi, richiamò la mia attenzione verso il basso. Ma proprio giù, giù lungo il tronco, fino al pedone, ove una pietra tondeggiante e piatta riposava il proprio peso, poggiando su due sassi, che fungevano da sostegni. Al centro, una cosa ripeteva gli scricchiolii.

    In un primo tempo, stabilii che dovesse trattarsi dello scoiattolo di prima, poiché, giammai, poteva essere lo gnomo che, invece, era e che si stava rivolgendo a me in un idioma tanto assurdo come la sua intera figura.

    Se non fosse stato per il lupo che mi osservava di sottecchi, penso che mi sarei girato e me ne sarei andato tornando nella dimensione cartesiana, per quanto tetra, ma, arguii, non si sarebbe rivelata una felice decisione. Dopo un attimo di meditabonda esitazione, mi abbassai al livello dell’interlocutore per ricambiare il suo cortese saluto, se di ciò, pure, si fosse trattato.

    Siamo Gnecco, Re degli Gnomi, scricchiolò nella mia lingua, dovendo aver intuito che mi mancavano i rudimenti della sua.

    Servo Vostro, Maestà, risposi con la massima naturalezza. D’altronde, cos’altro avrei potuto dire?

    Abbisogniamo del vostro aiuto, messere.

    E’ interamente al Vostro servizio, Maestà, fu d’uopo replicare.

    Magnifico! Non ci aspettavamo niente di meno da un Viatore dei Boschi. Tutto è deciso, quindi, andiamo!, e schioccando le dita si dileguò e, con lui, la radura, l’albero millenario, il lupo, e il mondo intero. E, con mia grande sorpresa, anch’io!

    CAPITOLO II

    L’ingresso

    Il buio m’avvolse, ma non persi i sensi, anzi mi sentii stropicciare e comprimere da tutte le parti, mentre una frenetica sarabanda di omini scuri, dal naso appuntito, mi vorticava d’attorno. Avevo l’impressione di scivolare in un baratro e che le mie fattezze mutassero plasticamente, finché, come v’ero scivolato, altrettanto rapidamente ne venni espulso, e la luce e il mondo tornarono quelli di sempre, o quasi.

    Dai boschi della Maremma mi ritrovavo a dominare un’alta scogliera, accecato da una chioma bionda e fluente, per me del tutto inusuale, svolazzante a un salmastro vento teso di Maestrale, che agitava un mare grigio e convulso.

    L’enorme muso affilato e minutamente dentato di un preistorico predatore si protendeva verso il largo, allungandosi dalla riva. Muto custode dell’immensa grotta che si apriva sul suo fianco destro. Era indubbiamente fatto di pietra e non scolpito da mano d’uomo, eppure, risaltava, così ben definito, da sembrare vivente, come fosse dotato di una forma di vita diversa da quella a me nota. Non sarebbe stato l’unico esemplare, nel suo genere, che avrei incontrato nei giorni a venire.

    Intanto, avvertii che, sotto pesanti stivali di cuoio, un morbido strato di fradicio muschio reggeva il peso di un gagliardo guerriero attorniato da un intero, agguerrito Clan Celtico, disposto lungo i contrafforti di un aspro promontorio, parato ad affrontare la battaglia imminente.

    Un paio di centinaia d’uomini nerboruti e impavidi, armati di lunghe, pesanti spade, lance massicce e poderose asce. Non molti arcieri e forse poco abili. Compresi che la lotta corpo a corpo doveva essere la prediletta per quegli spiriti tanto arretrati, quanto bellicosi. Ma quanto arretrati, mi chiesi? In quale parte del Nord Europa ero finito, e in quale epoca arcaica?

    Mi liberai gli occhi dai capelli, approfittando di questo gesto per girare il capo prima da un lato e poi dall’altro, scorrendo, in tal modo, la schiera scomposta e barbarica, distesa alle mie spalle. A quanto pareva, la capeggiavo ed era altrettanto chiaro, dagli sguardi, tutti appuntati su di me, che si attendeva impartissi l’ordine di attacco. Sull’identità del nemico, non c’era da sbagliarsi. Per lo meno un aspetto di quella grottesca situazione era chiara.

    Sotto di noi, occupando il pendio ampio e sgombro che digradava sino alla battigia, un reparto ostile, compatto e perfettamente inquadrato attendeva la mia medesima risoluzione.

    In quel frangente totalmente assurdo, tuttavia, ciò che più m’incuriosiva e, al contempo, mi lasciava profondamente interdetto era il loro aspetto. Si trattava, senza possibilità di errore, di un manipolo composto da un centinaio di soldati orientali, Cinesi avrei detto, e non riuscivo assolutamente a capacitarmi di cosa diamine ci facessero nella brughiera scozzese, perché, seppi d’istinto, nonché per esperienza di passati viaggi, che mi trovavo in Scozia.

    Nonostante frugassi frettolosamente nella memoria, non riuscivo a rammentare alcun episodio storico, concernente, né la scaramuccia che si andava delineando né, tantomeno, un’invasione orientale della Gran Bretagna. Ciò nondimeno, quegli asiatici si trovavano proprio a ostacolare il mio cammino, e, dal modo in cui impugnavano le loro lance, sembravano animati dalle peggiori intenzioni.

    Tosto, mi resi conto che la situazione era divenuta insostenibile. Se non avessi dato un qualche sfogo alla tensione accumulata su entrambi i fronti, i miei uomini sarebbero passati a prendere un’iniziativa, tanto sconsiderata quanto disordinata, che avrebbe portato a una disastrosa carneficina, dagli esiti, in aggiunta, i più incerti. Radunai, quindi, gli arcieri di cui disponevo, e, tanta era la loro ferocia o, forse, la paura di fronte a un nemico sconosciuto che, prima ancora di averne ricevuto il comando, i più giovani tra essi scoccarono le loro frecce, senza che riuscissi ad impedirlo.

    La manovra non era passata inosservata al nemico, i cui armati, a un secco ordine del loro comandante, presero a mulinare vertiginosamente le aste, più leggere e maneggevoli delle nostre, formando delle frenetiche girandole, che resero quasi del tutto inefficace il lancio degli strali. Solo un paio ne venne trafitto. Come immaginavo, la perizia militare dell’avversario sopravanzava non di poco la nostra, né il numero dei miei Scoti, o quel che fossero, era tale da poter colmare l’allarmante divario.

    Le ostilità erano state aperte e prontamente la formazione avversa, mossa a impedire il lancio di altri proietti, assumeva la posizione inconfondibile della carica, quando avanzai, alto levando il palmo della mano aperta.

    Ogni azione venne sospesa, così che mi feci udire sopra il fischio dell’aria e il rombo dell’acqua: Vi è qualcuno, tra voi, guerrieri del Levante, che intenda il mio idioma?.

    Subito un volto scattò verso il capo dell’assembramento, che si teneva discosto sulla destra, e questi, dopo avermi considerato con acuta fissità, accordò al sottoposto un tacito assenso. Allora, il primo si fece avanti e urlò di rimando: Io capisco.

    Mi sentii sollevato. Non sapevo assolutamente cosa stesse accadendo, per quale scopo mi trovassi in quel luogo e in quel periodo, né tantomeno perché le mie membra fossero totalmente difformi da quelle a cui ero avvezzo, nondimeno l’idea di venire sbudellato, di lì a poco, senza una ragione che potesse convincermi, non mi arrideva affatto, come, peraltro, l’onere di mandare, a morte certa, centinaia di esseri umani. Il mio compito, quantomeno per la mia coscienza, non poteva essere altro, che quello di tentare di impedire una strage insensata.

    Desidero profferire col tuo signore, richiesi, avanzando di qualche altro passo, figgendo al suolo la lama che brandivo, e appoggiando sull’elsa entrambi le mani, in segno di pace.

    Costui svolse lestamente il suo compito, e il suo superiore riprese a scrutare lo sgraziato gigante biondo, che ero io, le cui parole di pace, così male si accordavano col minaccioso aspetto.

    Sperai, con tutto me stesso, che la figura risoluta, che, al presente, impersonavo, ispirasse, almeno, un senso di lealtà allo sconosciuto duce. Dopo diversi momenti d’incertezza, la speranza e il mio tentativo furono, sempre con mio enorme sollievo, coronati da successo. Il capitano dell’armata nemica accettò l’incontrò e s’avviò alla mia volta, seguito dall’interprete. Giunto che fu a breve distanza, s’arrestò e mi squadrò, mantenendo un malevolo riserbo.

    Non mi soffermai troppo a riflettere circa le precedenze in una tale circostanza, benché ritenessi che spettasse al sopravvenuto presentarsi per primo, ma, del tutto inaspettatamente e a prescindere da ogni mia volontà, la mia bocca si aprì per dichiarare: Io sono Aonghas, capo del Clan dei McGrior del popolo degli Scoti, e la terra che calpestate mi appartiene, al pari del diritto di spazzarvi via da essa quali invasori in armi, benché, non per mia volontà, sia stato versato il primo sangue. Se tra noi ci sarà pace, m’impegno a compensare le perdite che hai subite.

    L’interprete s’inchinò e poi svolse il suo servizio, prima per il proprio signore e, poi, per me: Ben poca strada avremmo percorso, lasciando la nostra remota patria, se non avessimo spesso impugnato le armi, tuttavia non siamo invasori. Il nome del mio signore è Chen Nan, combattente immortale, e ti chiede di cedergli il passo.

    Anche se fossi disposto a farlo, e non lo sono, replicò duramente lo Scoto, come duri erano stati gli accenti a lui rivolti, assai esiguo sarebbe il suolo di Scozia, a voi forse nota come Caledonia, che piedi stranieri potrebbero calcare. Ogni Regno dell’isola è in armi in questo periodo dell’anno e, laddove non si limiti a vigilare strettamente i confini, già invia ingenti schiere verso la costa. Non andresti lontano Chen Nan, ovunque tu sia diretto.

    L’Orientale attese la traduzione, ma non rispose, limitandosi a fissare il mare alle sue spalle e, poi, di nuovo me. Evidentemente non poteva arretrare, giacché la nave, che li aveva sbarcati, doveva aver preso il largo, sparendo oltre l’orizzonte. D’altra parte, avanzare nella condizione di nemico, in una terra interamente ostile, gli sarebbe costato un prezzo troppo alto. Intuii i suoi dubbi, sì, che, stavolta, riuscii a prendere l’iniziativa di parlare per primo, aggiungendo: Devi aver perso molti uomini facendoti strada, come tu stesso dici, dall’Oriente sino all’Occidente estremo. Magari, il numero dei guerrieri, che ti è rimasto, è appena sufficiente a tentare di conseguire la tua missione. Sei disposto a fallire proprio adesso, dopo aver attraversato tutto il mondo conosciuto?.

    Ancora una volta nessun commento seguì, e Aonghas si sentì in una posizione di forza e seguitò: La Primavera è alle porte. Il grande gelo dell’Inverno del Nord si sta ritirando verso le grotte oscure, che serpeggiano sotto il tetto del Mondo. Eppure, nessuna allegria alberga nei nostri cuori. Attendiamo, infatti, l’attacco dei nostri persecutori, che si ripete ogni anno al disgelo. I Vichinghi, dannato sia il primo che solcò questa rotta!, sbarcano, depredano, bruciano e massacrano. L’anno passato, abbiamo inflitto loro una dura lezione. Ci aspettiamo, adesso, una reazione feroce, da parte loro. Sappi che siamo qui convenuti, parati a scontrarci con essi. Non immaginavamo di dover affrontare due nemici, ma non sarà il vostro sparuto contingente a farci arretrare. Piuttosto, siam disposti ad annientarvi e, di seguito, respingeremo i crudeli abitatori dei Fiordi.

    Tacque. Né io osai aggiungere verbo. Entrambi sapevamo di aver spudoratamente mentito. Eravamo appena sufficienti per i Normanni. Non saremmo sopravvissuti a due combattimenti, tuttavia, era vero che centinaia e centinaia di guerrieri fossero in marcia per completare la nostra opera difensiva e, almeno questo, il Cinese dovette crederlo, giacché restò in silenzio a rimirarmi.

    La sua incertezza conferì, al capo clan, il coraggio di azzardare: "Dimentica, per adesso, i soldati che hai perduto. Troverò il modo per colmare la loro mancanza. Sulla mia spada, attesto l’impegno! Orsù, stabiliamo la pace e più di essa! Alleati con noi.

    I portatori di ascia non ti porgeranno eguale offerta. Sono orgogliosi e crudeli. Non cercano alleati, rifiutando di credere che esista stirpe valorosa quanto la loro. Se sbarcheranno a breve, com’io pure credo e pavento, vi troverete tra due rivali e sarete schiacciati. Se, all’opposto, vi batterete al nostro fianco, ti dò la mia parola che ti scorterò attraverso tutte le pianure centrali fino agli altopiani e oltre, se necessario, purché combattiate lealmente e da arditi, e purché la tua missione non sia contraria all’interesse delle tre stirpi che popolano l’isola. O almeno, agli Scoti…. Rivelami, prima, ove sei diretto, e poi rispondi alla mia offerta e decidi per la guerra o per la pace. Per la rovina o per il trionfo!.

    Il nemico, appreso che ebbe il senso delle mie affermazioni, rimirò i suoi uomini. Poscia, spinse, di nuovo, lungi, lo sguardo oltre i flutti, oltre qualunque punto occhio umano potesse raggiungere, quindi, si volse di nuovo a me e mi fece chiedere: Qual è il numero dei tuoi nemici?.

    Lo ignoro. Forse cinquanta, forse cinquecento.

    Sogghignò, accennando di sì col capo e aggiunse nella propria lingua: Siamo diretti all’Isola Invisibile. Puoi tu condurci colà? Se lo farai, riterrò saldato il debito di sangue che hai contratto.

    Non appena mi venne reso intellegibile il senso di quei suoni, un brivido mi colse. L’Isola Invisibile…, l’isola dei Folletti e non solo, vagheggiata oltre l’estrema conoscenza umana, era un’arcana leggenda, sempre presente, sapevo, nel popolo nordico e anche in alcun scritti dei filosofi classici, ma oltre a ciò…. D’improvviso un nome e un’immagine mi si presentarono alla mente, così, che mi ven fatto di proporgli: Io non conosco la strada che ivi ti meni, ma alcuni la collocano sull’altro lato della Scozia, nel Settentrione e a Ovest, ma ti avverto! Dicono anche che, sull’isola, si annidino potenze troppo superiori all’uomo perché questi possa entrarvi in contatto, senza tributare un altissimo pegno. Sei tu disposto a rischiare la tua vita, e poi, ne verrà mai del bene per tutti noi?.

    Più di quanto immagini, fu la risposta unica che mi giunse a entrambi i quesiti. Non mi soddisfece affatto, eppure sentivo che non ne avrei avute altre, come, pure, sapevo altrettanto chiaramente che non potevo rinunciare a quelle lame. Dovevo risolvermi mosso dalla fretta, la peggiore di tutte le consigliere. Mi convinsi ad accettare l’offerta; offerta che, in fondo, avevo proposto io stesso, suggellandola con la vita dei Cinesi uccisi dalle

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