Il bastione della gatta
By Beppe Forti
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Il bastione della gatta - Beppe Forti
omonimo.
Prologo
Era da tanto tempo che nonno Giovanni, vecchio ferroviere in pensione, aveva promesso ai nipoti Marco e Carlotta, di dodici e sei anni, una visita alla stazione di Padova e, dopo tanti rinvii, la promessa era stata finalmente mantenuta in un tranquillo pomeriggio di fine estate. Terminata la scorpacciata di vagoni, locomotori e motrici, nonno e nipoti erano ormai usciti dalla stazione e si avviavano a prendere l’autobus.
Commentando le meraviglie che avevano appena visto, imboccarono un largo viale alberato pieno di traffico, all’inizio del quale c’era un rialzo del terreno, alto non più di quattro o cinque metri dal piano della strada e delimitato da una ripida scarpata ricoperta di vecchi mattoni. Su quel rilievo, insolito per una città di pianura, sorgeva un imponente torrione di vaga impronta medioevale.
«Cos’è quello, nonno?» chiese Marco indicando la costruzione.
«Quella è una delle cisterne dell’acquedotto che fornisce di acqua la città» rispose il nonno.
«È molto antica?»
«No, è abbastanza recente. L’hanno costruita nei primi decenni del secolo scorso.»
«E questo muro, cos’è?» riprese il ragazzo, indicando la scarpata ricoperta di mattoni, vicinissima alla fermata dell’autobus.
«È uno dei bastioni delle Mura Nuove
di Padova, quelle costruite nel Cinquecento» spiegò il nonno.
«E quella?» chiese Carlotta indicando una statuetta consumata dal tempo e dalle intemperie, che sporgeva da una nicchia incavata nel muro e che rappresentava un piccolo animale.
«Quella è la Gatta» rispose il nonno.
«Una gatta?» chiesero in coro i due ragazzini.
«Sì» confermò il nonno «ma non è una gatta qualunque. È la Gatta di Padova
.»
«E che cosa ci fa lì?» chiese incuriosita Carlotta. È una storia molto lunga e molto vecchia, che risale a cinquecento anni fa» rispose il nonno.
«Tu c’eri?» chiese Carlotta che non aveva idee molto precise sul tempo.
Il nonno e Marco scoppiarono a ridere e Carlotta si impermalì, perché non le sembrava di aver fatto una domanda così stupida.
«È una storia vera?» chiese Marco.
«Verissima» confermò il nonno.
«È successa qui a Padova?»
«Più o meno in questo stesso punto della città e quella statuetta è stata messa lassù per ricordare l’avvenimento.»
«Ci racconti la sua storia?»
«Beh, adesso sta arrivando l’autobus» rispose il nonno indicando il grande automezzo arancione che stava scendendo il cavalcavia all’inizio del viale e si avvicinava alla fermata.
«Ve la racconterò quando saremo a casa» promise.
* * *
Nonno e nipoti erano ormai rincasati. Il vecchio era sprofondato nella sua poltrona preferita e si stava apprestando a leggere il giornale con gli occhiali sul naso, quando arrivarono di corsa Marco e Carlotta.
«Nonno» protestò la bambina, vedendolo con il giornale spiegato «ci devi raccontare la storia della gatta!»
«Sì, nonno, dai, racconta!» implorò Marco.
«Non guardate la televisione oggi?» chiese il vecchio, disperando ormai di poter leggere il suo giornale in santa pace.
«I cartoni animati li vediamo tutti i giorni. Oggi abbiamo deciso di ascoltare la storia della gatta» rispose Marco.
Il nonno sospirò, pensando che quando aveva i due nipoti per casa, la loro esuberanza finiva sempre per sconvolgere le sue tranquille abitudini. Tuttavia erano due ragazzini simpatici e intelligenti, voleva loro un gran bene e finiva sempre per accontentarli. Così anche quella volta piegò il giornale con un sospiro di rassegnazione e cominciò a raccontare.
Capitolo uno
LA GATTA NERINA
Nel lontano 1509 nella città di Padova viveva una gatta di nome Nerina che aveva il compito di tenere lontani i topi dal grano e dai sacchi di farina accumulati nel magazzino del mugnaio Bortolo. Spesso, però, dalle pigre acque del fiume Bacchiglione, che attraversava la città e muoveva le pale del mulino, uscivano dei grossi topastri fulvi che nella parlata locale venivano chiamati pantegane. Erano così enormi e minacciosi, che avrebbero fatto scappare non solo una gattina bianca e nera di un anno e mezzo come Nerina, ma anche il glorioso leone di San Marco, la cui immagine ornava gli stendardi rossi e gialli che sventolavano sulle porte della città.
No, la caccia alle pantegane non era proprio cosa per lei, così Nerina trovava molto meno pericoloso e senz’altro più divertente arrampicarsi sugli spalti delle alte mura che circondavano Padova e che, a quanto sembra, nel loro genere erano uniche in tutta Italia, se non in tutta Europa, sia per bellezza che per robustezza. Esse erano ornate di merli e di torri lungo tutto il loro perimetro ed avevano un’altezza tale da costituire non solo uno scenario spettacolare per la città, ma anche un ostacolo insuperabile per i malcapitati nemici ai quali fosse venuto in mente di provare a scalarle. Nerina le apprezzava molto e amava scorrazzare allegramente lungo i camminamenti saltando con noncuranza da un merlo all’altro e divertendosi a fare la posta ai piccioni o a qualche passero distratto e sventurato.
«Perché quella gatta non fa il suo mestiere?» tuonava il mugnaio Bortolo, che era un omone grande e grosso sui trentacinque anni, quando trovava i sacchi di grano e di farina sventrati dalle pantegane uscite dal fiume.
«Ma siòr pare (signor padre)» osava timidamente rispondere il figlio Daniele, che aveva più o meno undici o dodici anni «è ancora piccola!»
«Altro che piccola!» continuava il mugnaio. «È solo una mangia-pane a tradimento! Va a finire che la ficco in un sacco e la spedisco a mio cugino di Vicenza, che se la mangi allo spiedo, al forno, alla brace, in salmì o come diavolo preferisce!¹»
«No, siòr pare» implorava con le lacrime agli occhi Giustina, la sorellina di Daniele, che aveva sei anni e che era molto affezionata alla gatta.
Bortolo sbraitava tanto, ma in realtà non diceva sul serio. Anche se a prima vista sembrava un burbero omaccione, in fondo era buono come il pane. Nerina, poi, era il giocattolo preferito dei suoi due figlioli, Giustina e Daniele, per i quali l’omone stravedeva.
Anche i due ragazzi erano sempre stati i giocattoli
preferiti di Nerina, ma ormai la gatta non era più un batuffolo di pelo come quando era entrata per la prima volta nel mulino e preferiva sempre più spesso andarsene per i fatti propri.
«Oh...» diceva delusa Giustina «anche oggi Nerina se ne va...» e restava a guardarla con il fratello mentre usciva da una finestra, saltava sul tetto di una casa vicina, da questo su un altro e poi su quello di una catapecchia addossata alla muraglia, per balzare su una ripida e stretta scaletta, raggiungere il camminamento e sparire dietro alla grande torre che sovrastava Ponte Molino.
Capitolo due
NERINA E LE MURA
Fu così che anche in quella bellissima e tiepida mattina di maggio dell’anno 1509, saltando di tetto in tetto, Nerina raggiunse la sommità delle mura e prese senza esitare la via dei merli.
La mura di Padova erano state costruite in tempi diversi. Man mano che la città si sviluppava, infatti, per proteggere i nuovi quartieri era stato innalzato un nuovo tratto di muro. All’inizio del ’500 l’abitato si trovava così racchiuso da due cerchie principali di cui la più interna circondava il centro più antico, mentre quella più esterna corrispondeva al massimo sviluppo della città al tempo della nostra storia. Le due cerchie, inoltre, erano congiunte tra loro da lunghi tratti di mura che rappresentavano quanto restava degli ampliamenti dell’abitato durante più di tre secoli e che permettevano a Nerina, nelle sue scorribande, di arrivare praticamente dappertutto senza mai scendere a terra.
Anche quel giorno Nerina era partita dal mulino di Bortolo nei pressi di Ponte Molino e, senza mai abbandonare la sommità delle mura, aveva raggiunto senza fatica la cinta più esterna dalla parte di ponente. Salita sulla sommità di un merlo nelle vicinanze di una delle numerose porte della città, si era messa a osservare attentamente il panorama.
«È arrivata la nostra amica!» disse un soldato che camminava sugli spalti.
«Sta facendo la guardia alla città!» commentò ridendo un altro che se ne stava un po’ più in alto, sulla torre che sovrastava la porta.
Il primo soldato allungò una mano per accarezzare Nerina, che lo lasciò fare facendo le fusa.
«Guarda!» esclamò a un tratto quello che stava sulla torre, indicando verso la campagna.
«Perbacco!» esclamò l’altro, smettendo di accarezzare Nerina. La gatta, incuriosita, si sporse a guardare all’esterno: un cavaliere lanciato al galoppo si avvicinava rapidamente alla città alzando dietro di sé un gran polverone.
«Allarme! Fuori la guardia!» esclamò il primo soldato, sporgendosi all’interno delle mura.
Dopo qualche istante dalla base della torre uscì un drappello di soldati che si precipitarono all’esterno della porta con le armi spianate. Altri sbucarono di corsa sul camminamento e si sporsero tra i merli impugnando balestre e archibugi.
«Sono un soldato di San Marco» gridò a squarciagola il cavaliere ai soldati che gli sbarravano il passo. «Fatemi entrare! Ho un messaggio urgente per il Capitano!»
«Da dove vieni?» chiese al cavaliere il capoposto delle guardie.
«Vengo da Agnadello!» rispose il cavaliere tutto trafelato. «L’esercito veneziano è stato sconfitto! Padova è in pericolo, presto, portatemi dal Capitano!»
I soldati lo lasciarono passare e gli zoccoli del poderoso animale risuonarono sul legno del ponte levatoio e sull’acciottolato della strada all’interno delle mura, tra le urla incomprensibili dei soldati che si trovavano a guardia della porta. Dalle case e dalle