Ôdile
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About this ebook
A Douala, capitale economica, si trasferiscono migliaia di persone dalle campagne.
E chi, come ÔDILE e NDOUMBE, possiede degli appezzamenti di terreno da edificare diventa velocemente ricco. Ma a guastare la vita matrimoniale della coppia c’è la mancanza di figli.
L’infertilità nelle grandi famiglie tribali è una tara, un’onta, una minaccia che riverbera su tutti i suoi membri. NDOUMBE decide di prendere una seconda moglie e avviarsi verso la poligamia. Ma la vicenda si evolve in modo del tutto inaspettato.
*** Recensioni
Un romanzo scritto al femminile da un autore di rara sensibilità attraverso gli occhi di una donna e la sua scelta d'amore e di vita. Ci conduce prendendoci per mano in fondo agli inesplorati paesaggi dell'animo umano.
Luca Zanenga
ll libro di Emmanuel Edson mescola, efficacemente, eventi pubblici e privati. La narrazione procede parallelamente su due livelli che l'autore fonde sapientemente: gli accadimenti politico-sociali del Camerun odierno da una parte, le vicende a volte dolorose che caratterizzano la vita della protagonista, Ôdile, dall'altra.
Sono stata piacevolmente colpita dalla sensibilità dell'autore e dalla sua capacità di comprendere l'animo femminile e le difficoltà che la protagonista, per le tradizioni che regolano la società di quel paese, incontra nel corso della sua esistenza.
Maria Coduri
Una storia che ci fa vedere con lucidità un mondo apparentemente lontano. Pagina dopo pagina si scopre una meravigliosa trama. Una storia in cui le convenzioni sociali considerano la donna poco e niente. L'autore cerca di aprirci gli occhi su cosa siano le società tribali con una tresca corale e una tensione letteraria che ci guida passo dopo passo.
Simonetta
*** L’autore
Emmanuel Edson.
Nasce in Camerun.
A sedici anni si trasferisce in Francia, dove completerà gli studi di filosofia.
Da circa quindici anni vive a Milano, città che scelse dopo avere incontrato l'amata moglie.
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Ôdile - Emmanuel Edson
ÔDILE
Aborto
CAPITOLO I
Nel 1960 iniziò l’indipendenza del Camerun. La fine del colonialismo fu legata ai vari sommovimenti accaduti fuori del continente africano. Tuttavia, prima che terminasse il protettorato, il Camerun transitò dai portoghesi ai tedeschi; quindi, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, passò un decimo al Regno Unito e il restante alla Francia. La piccola parte Ovest degli inglesi fu unita al resto del paese sotto tutela della Francia e, in seguito, venne instaurato il bilinguismo. Cosicché, dopo la proclamazione dell’indipendenza, la repubblica del Camerun adottò come lingue nazionali il francese e l’inglese.
La ritirata imperialista ridisegnò interamente lo schema del potere a livello territoriale. La città litorale di Douala con il suo gran fiume Wuori che sboccava nell’Oceano atlantico permettendo un regolare flusso di merci, perse il primato di capitale politica a scapito di Yaounde, una città del centro sud, pur mantenendo il potere economico dopo la riunificazione.
A Yaounde fu stabilita la presidenza e il paese si avviò verso la decentralizzazione. La nascita di province e comuni riesumò le vecchie spartizioni del potere tra le tribù sopite durante gli anni del protettorato. Douala per la sua forza economica subì una notevole mobilità sociale e i grandi capi tribù della città temettero di perdere il potere di fronte all’incorporazione etnica inarrestabile. Nel giro di pochi anni la città si trasformò e gli autoctoni divennero minoritari.
Douala fu delimitata in venti comuni, ed era impossibile tratteggiare una precisa valutazione demografica, considerato il flusso continuo di migranti. La gente abbandonava le campagne in cerca di lavoro per stabilirsi in città. La massiccia fuga dai villaggi somigliava a una sorta di esodo, ampliando a dismisura le zone periferiche e dando luogo al degrado urbano. In una delle periferie nacque Omnisport. Fu il nome che il catasto, dopo la decentralizzazione e la nascita dei comuni, assegnò a quella vasta area appartenente a Odile e Ndoumbe. Il terreno fu ereditato dal marito di Odile dopo lunghi anni di lotte feroci. Il padre di Ndoumbe era stato un gran capo tribù della città: sposò quattro mogli ed ebbe diciassette figli. Una famiglia poligamica, frammentata da rancori che esplosero subito dopo la scomparsa del patriarca. La madre fu la quarta moglie e sfortunatamente ebbe soltanto un unico figlio. Qualche anno dopo la morte del marito, la povera donna si ammalò e fu ricoverata nella casa di cura indigena del padre di Odile. Fu proprio in quel periodo che lei e Ndoumbe fecero conoscenza. Il padre di Odile era un Marabout stimatissimo e alcune voci dicevano che fosse capace di compiere miracoli. Aveva perso la moglie durante il parto dell’ultimo figlio. Abitavano in un piccolo villaggio a pochi chilometri da Douala. La loro casa era una specie di clinica che, oltre alla famiglia, ospitava fino a quindici pazienti. Odile era la maggiore di cinque fratelli e, per mancanza di spazio, le toccava dormire nello stesso letto con alcuni pazienti. La scomparsa della madre avvenne quando aveva dieci anni; essendo l’unica donna, e per giunta la figlia maggiore, imparò presto il ruolo di mamma. Aveva quindici anni quando la madre del marito entrò in cura dal padre. Per cinque anni di seguito fu costretta a passare le sue notti accanto alla malata, assistendola come se fosse la propria madre. I maliziosi vedevano nella loro unione un debito ripagato dalla suocera prima di morire. Era stata lei a chiedere la mano di Odile al padre. Tuttavia, la presenza costante di Odile accanto alla signora, e il coraggio con cui affrontò l’agonia della suocera, avevano colpito il figlio, che non manifestò alcun dubbio nell’accettarla come sposa.
Avevano rispettivamente venti e ventidue anni quando si sposarono. Ndoumbe era il più giovane dei fratellastri. Era alto e di carnagione fine, lo sguardo sempre sull’attenti come se fosse braccato da qualcuno. Per quanto la sua statura richiamasse una nobile eleganza, appena apriva bocca pareva che la lingua s’incastrasse tra i denti: storpiava il suono delle parole, cosa che lo rendeva molto timido. Ndoumbe mostrava i segni di un’infanzia costellata di intrighi familiari. A differenza del marito, i tratti di Odile racchiudevano una vitalità piena. Era una ragazza precoce, forgiata nella clinica del padre. Il tono della voce tradiva un’avvertibile fierezza che cercava di mascherare sotto il carattere umile.
L’Omnisport era l’unico bene che la coppia possedeva e l’ondata migratoria nella grande città permise loro di ricavarne buone rendite, affittandone gli spazi. Percepirono affitti su ogni metro quadro edificato in tutta l’area, idea suggerita loro da Ndoko, cugino di secondo grado di Odile al quale delegarono l’amministrazione.
Il cugino Ndoko aveva lavorato presso una famiglia di francesi, i Baudeville, nel quartiere coloniale di Bonajo. Il padrone, l’ingegner Baudeville era stato a capo di un’impresa di costruzioni stradali che aveva permesso il collegamento tra le principali città del paese; quanto alla signora Baudeville, per il buon funzionamento domestico era stata obbligata a dare lezioni di francese ai domestici.
Ndoko era originario di una famiglia di pescatori. Dal bisnonno al padre, il fiume Wouri era stato l’unica risorsa per la stirpe. L’uomo era nato dentro una piroga. Solo l’improvviso capovolgimento della società lo aveva spinto a tradire quel mestiere del quale aveva ereditato spalle robuste e lo sguardo felino. A trentun anni le rughe del viso e l’alopecia gli conferivano l’aspetto di un uomo sulla quarantina. Prima di lavorare per la famiglia Baudeville aveva lavorato come guardia del corpo per un certo Lapaire, un giovane francese che aveva fatto un tirocinio di qualche mese nella tesoreria del governatore. Era stato costui, prima del rientro in patria, a consigliarlo ai Baudeville come tuttofare.
Le lezioni della signora Baudeville gli procurarono ottimi benefici nel momento in cui il paese stava imparando a camminare con le proprie gambe: era entrato in vigore l’obbligo di registrare certificati di nascita e impronte digitali. Queste pratiche amministrative richiedevano domande scritte dal richiedente dinnanzi all’autorità; ovviamente, occorreva qualche conoscenza di grammatica in francese e inglese, e così per evidenti difficoltà la gente si rivolgeva a Ndoko. Fu la sua intrusione a convincere la coppia ad affidargli il mandato per la gestione degli affitti.
In pochi anni, Ndoko fruttò alla coppia una rendita considerevole che li allontanò da ogni preoccupazione economica. Occupò ogni angolo, fino ai bordi dei canali, disegnando un’architettura per così dire zombie, una mostruosità senza alcun limite o divieto nella costruzione delle case.
Fece dell’Omnisport un paesaggio inquinato, privo di un sistema di drenaggio urbano sotterraneo che potesse raccogliere e smaltire sia le acque nere sia quelle bianche. Fiorirono baracche di ogni genere che impedirono lo scorrere naturale delle acque. Visto dal cielo, il quartiere somigliava a un fragile blocco di vari materiali: tettoie di alluminio si mescolavano una sopra l’altra senza alcun criterio comprensibile, baraccopoli che nel complesso parevano una specie di marea bassa.
Dodicimila anime ammucchiate le une sulle altre. A volte, per entrare in casa, bisognava attraversare il salotto del vicino. Le lastre piane che fungevano da tettoie nella quasi totalità dei fabbricati, reggevano i muretti insieme a scarti riciclati, che componevano una sorta di catena. Era un corpo unico con le sue bizzarre viuzze e stradine che sbucavano da ogni parte senza precise direzioni. Era facile penetrare all’interno ma difficile uscirne senza la guida di un abitante.
Lungo le stradine sterrate di quel mondo che costituiva un universo a sé, da ogni lato delle strade, minuscole locande e negozietti chiamati bar o boutique a seconda del cliente, agitavano le masse. Lunghe panchine di legno ospitavano clienti dalla mattina alla sera, con musica a tutto volume: si ballava e si ridacchiava, bevendo alcol e giocando a carte e a dama; e così passavano giornate, mesi, o addirittura anni.
Il flusso di immigrazione portò il maligno cugino a creare un’agenzia. Assunse tre dipendenti e divise le aree in tre blocchi, assegnando a ciascuno dei tre dipendenti un registro di circa quattromila occupanti da gestire.
Era un popolo intero, gente che proveniva dai villaggi, alla ricerca disperata di una condizione migliore. Il cugino trasformò l’ufficio in una specie di comune, poiché l’inserimento nella città di Douala necessitava di qualche conoscenza pratica. Approfittò delle sue conoscenze del francese, stabilendo un rapporto diretto con gli abitanti. Individuo scaltro, si preoccupò di mostrare l’immagine di uomo semplice mentre il suo sorriso affabile celava una considerevole freddezza.
Regnava sugli abitanti con modi discreti, senza intimidazioni, bastava soltanto che si facesse vedere in giro accompagnato da qualche balordo o seduto pacatamente in qualche terrazza di un bar in compagnia di uomini in divisa. Una tattica da cui ricavò parecchio appena si presentò l’elezione del governatore della città: i nomi e cognomi iscritti nel registro dell’agenzia da lui creata, gli tornarono utili per farsi aprire le porte della società che conta.
La coppia, invece, si accontentò di una bella villetta recintata da una siepe che formava una barriera tutt’intorno. Un ampio giardino con un albero di mango che diffondeva in tutta la proprietà un vento fresco e piacevole. Così seppero dare un aspetto signorile a quella casa in mezzo alle baraccopoli.
L’abitazione era dipinta interamente di bianco: la parte principale si distingueva per un salotto di mobili artigianali tappezzato di marrone; un maestoso tavolo da pranzo in legno massiccio veniva ornato da un vassoio di frutta che Odile raccoglieva nell’orto. La zona cucina, di genere piuttosto moderno, separava il soggiorno con un lungo corridoio che ospitava, su ogni lato, due camere. Nel giardino che affacciava sull’ingresso laterale della cucina, c’era una veranda dove Ndoumbe aveva fatto sistemare una tenda che gli permetteva di ripararsi nelle stagioni di pioggia.
Malgrado tutto ciò, bastava che Odile e Ndoumbe mettessero il naso fuori da quel loro nido felice, perché il paesaggio prendesse ben altra forma. Gli abitanti passavano la maggiore parte del tempo in mezzo alla strada, dove ogni genere di commercio ambulante attirava la folla. I più giovani s’intrattenevano in qualche passatempo, lontano dalla scuola, mentre gli adulti già di mattina si affacciavano in qualche bar per rinfrescarsi la gola. Sembrava un mondo di acrobati, di lottatori storditi dalla miseria.
Ogni cosa era affidata al destino, alla provvidenza di qualche forza oscura. Si viveva in attesa del miracolo, e questo incupiva Odile. Il suo spirito si ribellava a quell’attesa infinita in cui versava l’intero quartiere. D’altronde era cresciuta in una casa in cui gli spasimi e le grida acute dei pazienti impedivano di gettare lo sguardo altrove. La giovane donna si sentiva obbligata a restituire alla comunità cui apparteneva qualche motivo di speranza. La loro posizione economica le causava rimorsi, lei non era fatta per vivere nell’ozio, l’inerzia era qualcosa che ripudiava in maniera profonda. Era di sangue caldo, malgrado si presentasse calma e riflessiva, e pativa la mancanza di propositi che caratterizzava la grande maggioranza degli abitanti dell’Omnisport. A volte, sembrava che agisse soltanto per riempire il proprio malessere, incapace di cambiare le vite altrui: si lasciava trascinare dalla propria indole, finanziando piccoli atelier di sartoria per aiutare le tante madri adolescenti che vedeva girovagare per le strade.
Una volta al mese, organizzava una festa intertribale, invitando i partecipanti a cucinare un piatto tipico. Era preoccupata nel vedere i ragazzini lasciati