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Fuori da ogni morale
Fuori da ogni morale
Fuori da ogni morale
Ebook398 pages5 hours

Fuori da ogni morale

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About this ebook

Un'inedita luce fredda accoglie il lettore, che fa da scenario a un thriller psicologico che non concede tregua. A Calgary, cittadina avvolta dal gelo e dalla neve invernale, un ostinato e indolente, Patrick Wall, è alle prese con la misteriosa scomparsa della figliastra di uno degli uomini più potenti e corrotti della nazione. I pochi indizi rinvenuti vicino al greto del fiume che si snoda tra i boschi intorno alla città non fanno chiarezza: Patricia Whitman è stata rapita in seguito a una violenta colluttazione? È stata brutalmente uccisa, oppure si tratta di una messa in scena orchestrata dalla ragazza per vendicarsi di un patrigno dispotico e una madre vittima delle sue debolezze? I fili della vicenda si annodano in una fitta trama di sospetti e passioni, mentre i silenzi compressi, l'omertà e i desideri morbosi si agitano nel cuore della città.

Una corrente che condiziona e trascina personaggi diversi: intorno a Wall, la collega tormentata dai suoi stessi sentimenti, l'oscuro Jackson, e l'anima innocente di Erica, la migliore amica della scomparsa, in lotta con un amore perduto per sempre e l'impossibilità di un ritorno alla vita. Una discesa inesorabile nel cono d'ombra della vita di città, dove la semplicità e la compiacenza nascondono e assecondano l'attitudine strisciante alla corruzione e alla violenza, conducendo il lettore fino all'essenza stessa della malvagità.

Un thriller atipico, capace di aprirsi con coraggio anche alla tenerezza dei sentimenti. Ma se per il protagonista Wall è la costante ricerca della pienezza a tratteggiare la sfera delle passioni, per la collega Stephenson il demone da esorcizzare è il senso di una perenne mancanza, un vuoto da riscattare per ritrovarsi più ricca e felice.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 19, 2018
ISBN9788827814802
Fuori da ogni morale

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  • Rating: 5 out of 5 stars
    5/5
    Bella storia, l'ho letto in fretta, perché mi ha colpita fin dalle pagine.
  • Rating: 5 out of 5 stars
    5/5
    bel thriller psicologico e sentimentale! Ne consiglio la lettura caldamente!

    3 people found this helpful

  • Rating: 5 out of 5 stars
    5/5
    Da leggere d'un fiato! La cosa che mi è piaciuta di più è l'aspetto sentimentale anche se è un thriller psicologico!

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Fuori da ogni morale - Carmelo Panatteri

Indice

Indice

Prologo

1.

2.

3.

4.

5.

6.

7.

8.

9.

10.

11.

12.

13.

14.

15.

16.

17.

18.

19.

20.

21.

22.

23.

24.

25.

26.

27.

28.

29.

30.

Epilogo

Car­me­lo Panatteri

Fuo­ri da ogni mo­ra­le

Th­ril­ler
You­can­print Self-Pu­bli­shing

Ti­to­lo | Fuo­ri da ogni mo­ra­le

Au­to­re | Car­me­lo Panatteri

ISBN | 978-88-27814-80-2

© 2021. Tut­ti i di­rit­ti ri­ser­va­ti all'Au­to­re

Que­sta ope­ra è pub­bli­ca­ta di­ret­ta­men­te dall'Au­to­re tra­mi­te la piat­ta­for­ma di sel­fpu­bli­shing You­can­print e l'Au­to­re de­tie­ne ogni di­rit­to del­la stes­sa in ma­nie­ra esclu­si­va. Nes­su­na par­te di que­sto li­bro può es­se­re per­tan­to ri­pro­dot­ta sen­za il pre­ven­ti­vo as­sen­so dell'Au­to­re.

You­can­print

Via Mar­co Bia­gi 6, 73100 Lec­ce

www.you­can­print.it

in­fo@you­can­print.it

"La bel­lez­za este­rio­re sen­za al­cu­ne qua­li­tà,

du­ra quan­to un gra­nel­lo di sab­bia

scos­so dal ven­to."

Il ma­le non è mai giu­sti­fi­ca­to!

Prologo

Gli al­be­ri rin­sec­chi­ti e spo­gli e l’aria ge­li­da do­na­va­no a quel­la vi­sio­ne un toc­co da qua­dro in­ver­na­le. Nell’aria sa­tu­ra di odo­ri qual­che sco­iat­to­lo si at­tar­da­va a cer­ca­re no­ci e ghian­de, sal­tel­lan­do in­cer­to sul pra­to ge­li­do. Ce­la­te nel­la par­te re­tro­stan­te i sem­pre­ver­di si af­fa­stel­la­va­no tra le fo­glie mor­te. I ra­mi tor­reg­gian­ti di una quer­cia im­po­nen­te fug­gi­va­no nel­la neb­bio­li­na e, in lon­ta­nan­za, gli ol­mi e le be­tul­le si as­sot­ti­glia­va­no co­me spet­tri.

Era­no pas­sa­te da po­co le set­te di se­ra.

Due oc­chi chia­ri fe­ri­va­no l’oscu­ri­tà che si in­fit­ti­va len­ta­men­te: quel­li di una ra­gaz­za al­ta, pro­spe­ro­sa, ma all’ap­pa­ren­za de­li­ca­ta. La ra­gaz­za sco­stò i lun­ghi ca­pel­li dal vi­so e si sfre­gò le ma­ni, col­ta da un im­prov­vi­so bri­vi­do di fred­do. Mol­ti cre­de­va­no che lei il fred­do se lo por­tas­se den­tro. Quel fred­do cal­co­la­to­re del­la sua men­te, che trop­pe vol­te le ave­va fat­to pre­di­li­ge­re il de­na­ro ai sen­ti­men­ti. Os­ser­vò le sue ma­ni co­per­te da li­vi­di. Po­co pri­ma era in­ciam­pa­ta e si era fe­ri­ta.

Si guar­dò in­tor­no al­la ri­cer­ca di un po’ d’ac­qua lim­pi­da. Il pas­so fles­suo­so e le gam­be ma­gre ma for­ti, fa­scia­te da col­lant co­lo­ra­ti, le do­na­va­no fem­mi­ni­li­tà e gra­zia. Non tro­van­do ac­qua pu­li­ta, pal­pò le ta­sche del giub­bot­to e si ac­cor­se d’ave­re con sé del­le sal­viet­ti­ne im­be­vu­te. Ne pre­se qual­cu­na e ini­ziò a le­va­re via le mac­chie di san­gue. Si pu­lì con cu­ra le ma­ni, in mo­do che, tor­nan­do a ca­sa, sua ma­dre non po­tes­se rin­fac­ciar­le l’en­ne­si­ma anor­ma­li­tà. Co­me se lei e quell’ipo­cri­ta, che si era por­ta­ta in ca­sa sua, si fos­se­ro po­tu­ti de­fi­ni­re nor­ma­li. Quel­la se­ra fa­ce­va piut­to­sto fred­do. Pa­tri­cia sen­tì ulu­la­re il ven­to. Eb­be un bri­vi­do, le sem­brò l’ulu­la­to dei lu­pi che vo­le­va­no di­vo­rar­la nei suoi in­cu­bi. Un’al­tra raf­fi­ca mu­li­nò tra i suoi ca­pel­li scom­pi­glian­do­glie­li, ma du­rò so­lo un istan­te. Pa­tri­cia ti­rò un so­spi­ro di sol­lie­vo, ma per­ce­pì una sor­ta di spa­zio vuo­to fra un’im­per­cet­ti­bi­le quan­ti­tà di al­be­ri sem­pre­ver­di. Sta­va per an­dar via, quan­do sen­tì un ru­mo­re di pas­si, ed eb­be un tre­mi­to. Cos’era? Un lu­po?

Si gi­rò e scor­se un’enor­me sa­go­ma qual­che me­tro da­van­ti a sé. Nell’oscu­ri­tà non riu­sci­va a di­stin­gue­re chi fos­se. La sa­go­ma si av­vi­ci­nò sem­pre di più e la ra­gaz­za sbar­rò gli oc­chi ed emi­se un mu­gu­gno ter­ro­riz­za­to.

Per­ché le sem­bra­va fa­mi­lia­re? Era si­cu­ra di aver già vi­sto quell’ener­gu­me­no, an­che se por­ta­va una ma­sche­ra che gli co­pri­va gli oc­chi.

«Pa­tri­cia, de­vo sal­var­ti dai tuoi pec­ca­ti!» le dis­se con vo­ce du­ra.

La ra­gaz­za sbar­rò gli oc­chi ap­pe­na lo in­tra­vi­de. Per­ce­pi­va qua­si il suo re­spi­ro. Co­sì am­bi­guo, mi­nac­cio­so. Una nuo­va on­da­ta di ter­ro­re l’at­tra­ver­sò nuo­va­men­te.

«Vie­ni via con me!» dis­se con un to­no rab­bio­so.

«Non vo­glio!» ri­spo­se, scuo­ten­do il ca­po e fa­cen­do on­deg­gia­re i ca­pel­li bion­di. La ma­no dell’uo­mo fe­ce uno scat­to in avan­ti e le af­fer­rò la man­di­bo­la, strin­gen­do­la.

«Sì, in­ve­ce.» Il tim­bro del­la sua vo­ce era più al­to ades­so e ave­va un suo­no me­tal­li­co, in­co­lo­re. Con l’al­tra ma­no le ti­rò uno schiaf­fo con­tro l’orec­chio, co­sì for­te da far­la bar­col­la­re. «De­vi espia­re i tuoi pec­ca­ti da me­re­tri­ce!»

Quel­le pa­ro­le piom­ba­ro­no su di lei co­me un or­di­gno esplo­si­vo, ma non si ar­re­se. Vo­le­va scap­pa­re, an­che se il ti­mo­re di es­se­re uc­ci­sa da quell’uo­mo era gran­de.

La ra­gaz­za tre­ma­va. «Non vo­glio ve­ni­re», dis­se sin­ghioz­zan­do.

Lui sghi­gnaz­zò. «In­ve­ce sì! Tut­ti ab­bia­mo bi­so­gno di espia­re i no­stri pec­ca­ti. A mag­gior ra­gio­ne tu!»

L’af­fer­rò per un brac­cio, lei ini­ziò a su­da­re fred­do. Non ave­va scel­ta. La sta­va tra­sci­nan­do via con lui, ma ap­pe­na si ac­cor­se che la pre­sa si al­len­tò per un istan­te, riu­scì a li­be­rar­si con uno strat­to­ne. Si die­de al­la fu­ga. Le scar­pe di cer­to non le da­va­no una ma­no, tut­te le ga­re di cor­sa che ave­va vin­to a scuo­la, in quell’at­ti­mo, par­ve­ro inu­ti­li.

Lui, in­ve­ce, con pas­si pe­san­ti, la rin­cor­re­va gof­fa­men­te, sem­bra­va lon­ta­no da lei. Co­sì lon­ta­no da far­le pen­sa­re che non l’avreb­be mai rag­giun­ta. Un fiot­to ine­brian­te di san­gue le pul­sò nel­le ve­ne e ini­ziò a sen­ti­re il sa­po­re del­la vit­to­ria. Si gi­rò di nuo­vo in­die­tro, per ac­cer­tar­si di es­se­re lon­ta­na da lui, non ac­cor­gen­do­si di un ra­mo che la col­pì sul­la fron­te e la sca­ra­ven­tò a ter­ra, met­ten­do­la knoc­kout. Un ra­mo ri­bel­le le fe­rì il vi­so. Re­stò im­mo­bi­le, ten­den­do ogni mu­sco­lo del cor­po.

Lui la rag­giun­se, do­po qual­che se­con­do, af­fer­ran­do­la per i ca­pel­li. Lei cer­cò di ur­la­re, di li­be­rar­si, ma ogni mo­vi­men­to pa­re­va ec­ci­ta­re di più il suo as­sa­li­to­re che con vio­len­za le strap­pò la ca­mi­cia di ra­so e il reg­gi­se­no ri­ca­ma­to, sco­pren­do il se­no ni­veo e i ca­pez­zo­li scu­ri.

D’un trat­to sen­tì la sua vo­ce ro­bu­sta in un orec­chio: «Non mi sfug­gi­re, al­tri­men­ti ti am­maz­zo!»

Estras­se un col­tel­lo e l’av­vi­ci­nò al vi­so di lei.

«Ma tu chi ti cre­di di es­se­re che vuoi far­mi espia­re i miei pec­ca­ti?» stril­lò Pa­tri­cia, do­lo­ran­te, con le la­cri­me agli oc­chi.

L’uo­mo si tol­se la ma­sche­ra e dis­se ec­ci­ta­to: «So­no il giu­sti­zie­re di Dio!»

1.

Una bion­di­na sta­va fis­san­do le pa­re­ti del­la sua stan­za di co­lor sal­mo­ne, af­flig­gen­do­si per la per­di­ta del suo Marc. Tut­ti i di­scor­si im­pa­ra­ti in chie­sa sul­la com­pren­sio­ne, la sin­ce­ri­tà, la ge­ne­ro­si­tà non le in­te­res­sa­va­no più. De­si­de­ra­va es­se­re la stel­la del suo cam­mi­no. Ri­pen­sa­va a lui. Le la­cri­me scen­de­va­no pia­no dai suoi oc­chi az­zur­ri, gon­fi e ar­ros­sa­ti, per­den­do­si nel sof­fi­ce cu­sci­no. Si sta­va po­nen­do al­cu­ne do­man­de, che mol­ti avreb­be­ro tro­va­to as­sur­de, Per­ché l’uo­mo na­sce e poi muo­re? Ha sen­so vi­ve­re e poi an­da­re via da que­sto mon­do? Eri­ca fi­no a qual­che tem­po pri­ma ave­va fe­de. An­da­va re­go­lar­men­te in chie­sa, pre­ga­va e fa­ce­va of­fer­te per i po­ve­ri; ma da qual­che me­se il suo ra­gaz­zo, Marc, era ve­nu­to a man­ca­re. Una si­mi­le di­sgra­zia le ave­va fat­to per­de­re un po’ la fe­de. Le ave­va fran­tu­ma­to il cuo­re in mil­le pez­zi. Eri­ca ave­va ven­ti­quat­tro an­ni, fi­si­co snel­lo, ca­pel­li bion­do mie­le, on­du­la­ti, ab­ba­stan­za al­ta. Ave­va ini­zia­to a fre­quen­ta­re ra­gaz­zi all’età di quat­tor­di­ci an­ni. Ra­ra­men­te ave­va al­lac­cia­to re­la­zio­ni se­rie. Una ra­gio­ne era per­ché ama­va i ra­gaz­zi sen­si­bi­li e ro­man­ti­ci. Il più del­le vol­te era sta­ta lei a tron­ca­re di­ver­se re­la­zio­ni, per­ché non sop­por­ta­va che la con­si­de­ras­se­ro trop­po so­gna­tri­ce. Lei la­scia­va per­de­re ra­gio­na­men­ti si­mi­li e ri­ma­ne­va del­le sue idee. Fi­no a ven­ti­due an­ni ave­va sem­pre co­no­sciu­to ra­gaz­zi svo­glia­ti e con po­ca sen­si­bi­li­tà, ma poi ave­va in­con­tra­to Marc.

Chiu­di gli oc­chi Eri­ca! Chiu­di­li! Era sfi­ni­ta. Tra­so­gnan­te, pen­sa­va al suo Marc. Strin­ge­va il cu­sci­no a sé, ab­ban­do­nan­do­si sem­pre a son­ni bre­vi e den­si di in­cu­bi.

Ini­ziò tut­to in una gior­na­ta par­ti­co­lar­men­te afo­sa. Lei, tra l’al­tro, ave­va cor­so un po’, an­che se avreb­be vo­lu­to far­lo per più tem­po, al­me­no per un’ora. Il cal­do pe­rò era in­sop­por­ta­bi­le, quin­di non gliel’ave­va per­mes­so. Ne­gli ul­ti­mi due me­si si era ac­cor­ta di aver pre­so qual­che chi­lo di trop­po, tra lo stress del­la scuo­la e al­tri pen­sie­ri.

Fa­ce­va jog­ging da qual­che set­ti­ma­na e i ri­sul­ta­ti len­ta­men­te si sta­va­no ve­den­do; for­se per­ché cor­re­va ogni gior­no, cer­can­do di non man­gia­re schi­fez­ze. Ave­va cer­ca­to di con­vin­ce­re qual­che sua ami­ca a cor­re­re con lei, ogni mat­ti­na. Pec­ca­to, pe­rò, che nes­su­na aves­se pre­so in con­si­de­ra­zio­ne la sua pro­po­sta.

Era poi an­da­ta a ca­sa e ave­va fat­to una doc­cia ve­lo­ce.

Ora era in­ten­ta a sor­seg­gia­re un’aran­cia­ta al ta­vo­li­no di un bar, guar­dan­do cu­rio­sa il cel­lu­la­re. Men­tre aspet­ta­va che il suo am­mi­ra­to­re mi­ste­rio­so si fa­ces­se sen­ti­re, una vo­ce in­ter­rup­pe i suoi pen­sie­ri.

«Ciao Eri­ca…»

Al­to, mo­ro, oc­chi ver­di, fi­si­co atle­ti­co, in­dos­sa­va una ma­gliet­ta bian­ca ca­sual e jeans ne­ri. Bel ra­gaz­zo, ma chi era?

«Ci co­no­scia­mo?» dis­se rab­bri­vi­den­do, sen­ten­do una raf­fi­ca di emo­zio­ni che le pul­sa­va­no nel­le ve­ne. D’un trat­to sen­tì un bam­bi­no pian­ge­re e la ma­dre che lo sgri­dò ad al­ta vo­ce, fa­cen­do gi­ra­re tut­te le per­so­ne che si tro­va­va­no lì.

«Pos­so se­der­mi?»

Eri­ca an­nuì, for­se per­ché quel gio­va­ne le sem­bra­va un bra­vo ra­gaz­zo. Me­glio, non avreb­be vo­lu­to at­tor­no an­co­ra pa­ras­si­ti.

«Tu non mi co­no­sci, ma io sì. So al­cu­ne co­se di te. Ad esem­pio che stu­di pe­da­go­gia.»

Eri­ca an­nuì, guar­dan­do il ra­gaz­zo con gran­de in­te­res­se. «È ve­ro, ma tu chi sei?» La sua vo­ce dol­ce tra­di­va un leg­ge­ro im­ba­raz­zo.

«Mi chia­mo Marc e mi so­no iscrit­to all’uni­ver­si­tà di que­sta cit­tà da po­co. Ho fat­to i pri­mi tre an­ni da un’al­tra par­te, ma i miei ri­ten­go­no che que­sta sia mi­glio­re, an­che se l’han­no so­lo aper­ta nel 2004, non cre­do ab­bia­no tor­to.»

Lei, sor­ri­den­te, gli fe­ce se­gno di se­der­si e lui or­di­nò una bir­ra. Gli chie­se co­sa stu­dias­se, con un’om­bra di ti­mi­dez­za, e lui le ri­po­se Gior­na­li­smo. La guar­dò ne­gli oc­chi, lei ab­bas­sò lo sguar­do. Sem­bra­va es­se­re un ra­gaz­zo in­te­res­san­te, per di più vi­si­bil­men­te in­te­res­sa­to a lei.

Ca­lò il si­len­zio per qual­che se­con­do. I lo­ro sguar­di si in­cro­cia­ro­no ve­lo­ce­men­te, su­sci­tan­do un gran­de in­te­res­se pal­pa­bi­le. «Al­lo­ra, Marc, co­me fai a co­no­scer­mi?»

«Ho tor­tu­ra­to Hol­ly per sa­pe­re qual­co­sa di te. Lei è un’ami­ca di mia cu­gi­na.»

Lo guar­dò con un’aria gra­de­vol­men­te sor­pre­sa. Il suo cuo­re bat­te­va for­te, più di quan­to aves­se im­ma­gi­na­to. «Ma lei non mi ha mai par­la­to di te.»

Nel frat­tem­po il ca­me­rie­re por­tò la bir­ra che ave­va or­di­na­to Marc. La si­ste­mò in fret­ta e an­dò ver­so un al­tro clien­te. Aleg­gia­va una cer­ta tran­quil­li­tà ed Eri­ca si sen­ti­va qua­si cul­la­re.

Lui sor­ri­se e con­ti­nuò: «Le ho det­to io di non far­lo.»

Cer­cò di as­su­me­re un’espres­sio­ne se­re­na. Lei co­min­ciò a re­spi­ra­re in­ve­ce af­fan­no­sa­men­te. Marc al­zò lo sguar­do, si inu­mi­dì la boc­ca e le dis­se: «Vo­le­vo cor­teg­giar­ti in se­gre­to… e pen­so di es­ser­ci riu­sci­to.»

«Vuoi di­re che tu sei…» Lei era scos­sa da sin­ghioz­zi. Sor­seg­giò len­ta­men­te la be­van­da che ave­va sul ta­vo­lo. Poi si asciu­gò con un to­va­glio­li­no. In­con­tri si­mi­li di so­li­to li fa­ce­va­no le sue ami­che, ec­co per­ché l’im­ba­raz­zo era piut­to­sto evi­den­te.

Ca­lò il si­len­zio in­tor­no al ta­vo­lo. Lui do­po un po’ an­nuì, «Sì, so­no io, quel­lo del­la chat. Ti ri­cor­di il mio nic­k­na­me? Il ca­va­lie­re mi­ste­rio­so»

Eri­ca, fe­li­ce di ave­re sco­per­to fi­nal­men­te il vol­to del suo mi­ste­rio­so cor­teg­gia­to­re, gli strin­se la ma­no. Si era­no co­no­sciu­ti co­sì. E per due an­ni non si era­no la­scia­ti un at­ti­mo, an­che se il cor­teg­gia­men­to mi­ste­rio­so era du­ra­to ab­ba­stan­za, pri­ma di quell’in­con­tro. Fio­ri, let­te­re ro­man­ti­che, de­di­che, tut­to in se­gre­to.

La se­ra, quan­do tor­na­va a ca­sa, Marc riem­pi­va pa­gi­ne di poe­sie per la sua Eri­ca. E quan­do glie­le fe­ce tro­va­re, ri­le­ga­te con cu­ra, per lei fu una ve­ra sor­pre­sa. Glie­le por­tò la se­ra in cui le fe­ce co­no­sce­re i suoi ge­ni­to­ri.

La dif­fe­ren­za tra i lo­ro ca­rat­te­ri si scor­ge­va su­bi­to: lui per­fe­zio­ni­sta e ac­co­mo­dan­te, lei pie­na di sta­ti­sti­che e mo­ti­va­zio­ni. Quan­do li­ti­ga­va­no, Marc ini­zia­va a far­le il sol­le­ti­co, fin­ché non riu­sci­va a ve­de­re sul­le guan­ce di lei, la fos­set­ta che ama­va tan­to. Il lo­ro pun­to di for­za era la leal­tà. Eri­ca so­ste­ne­va che la leal­tà esi­stes­se in na­tu­ra. Ap­pas­sio­na­ta, spie­ga­va a Marc che le ci­co­gne e i ci­gni, quan­do sce­glie­va­no un com­pa­gno lo fa­ce­va­no per tut­ta la vi­ta.

Si com­mos­se quan­do sen­tì la sto­ria di una po­ve­ra ci­co­gna fi­ni­ta fra i ca­vi dell’al­ta ten­sio­ne e del suo com­pa­gno che per tre gior­ni co­vò nel ni­do. Leal­tà una bel­la pa­ro­la, lon­ta­na dai gior­ni no­stri.

Marc pog­gia­va sem­pre il na­so su quel­lo di Eri­ca. La ba­cia­va fug­ge­vol­men­te e le giu­ra­va che non l’avreb­be mai tra­di­ta per nes­sun mo­ti­vo al mon­do.

Poi la tra­ge­dia ve­lo­ce e di­strut­ti­va co­me un ful­mi­ne. La feb­bre, le ana­li­si, l’ospe­da­le e le emor­ra­gie. Tut­to fi­ni­to in un me­se.

Si sve­gliò di so­pras­sal­to per un ti­mi­do bus­sa­re al­la por­ta.

«Eri­ca, te­so­ro, hai bi­so­gno di qual­co­sa?» chie­se sua ma­dre.

«No, mam­ma!» ri­spo­se al­zan­do il to­no del­la vo­ce.

«Non vuoi man­gia­re un po­chi­no, te­so­ro? Ha chia­ma­to Hol­ly e ha det­to che i ti­ro­ci­ni so­no di­spo­ni­bi­li, ma de­vi an­da­re a iscri­ver­ti.»

«Non mi sen­to be­ne per ora, mam­ma...» dis­se fle­bil­men­te.

Ad un trat­to sen­tì il ru­mo­re di una por­ta che si apri­va.

Era il pa­dre di Eri­ca, ap­pe­na rin­ca­sa­to.

«Ma te­so­ro, chia­ma ogni gior­no per te! Vie­ni a man­gia­re un boc­co­ne!» La vo­ce del­la ma­dre tra­di­va una for­te sof­fe­ren­za.

«Non mi va, mam­ma!» ri­spo­se lei con un to­no acu­to.

La se­ra la ma­dre le la­scia­va un vas­so­io con la ce­na vi­ci­no al­la por­ta del­la ca­me­ra. La mat­ti­na do­po lo ri­tro­va­va con il ci­bo ap­pe­na sboc­con­cel­la­to. Cer­ca­va di pre­pa­ra­re le pie­tan­ze più pre­li­ba­te per la fi­glia, ma sem­bra­va inu­ti­le. An­che qual­che tu­tor si era fat­to sen­ti­re per ave­re sue no­ti­zie, per­ché lei era sem­pre an­da­ta al­le le­zio­ni, an­che quan­do Marc sta­va mol­to ma­le. Lui, in­fat­ti, vo­le­va che lei non per­des­se nem­me­no un gior­no per co­strui­re il suo fu­tu­ro.

Ora, pe­rò, non ci an­da­va più da al­cu­ne set­ti­ma­ne. Lei non vo­le­va vi­ve­re più. Il so­le avreb­be scal­da­to lei e non Marc. L’ac­qua avreb­be dis­se­ta­to lei e non Marc. Vi sa­reb­be mai sta­to un uo­mo dol­ce, sen­si­bi­le e for­te co­me lui? An­che se sta­va sof­fren­do trop­po, non si era mai pen­ti­ta di aver­lo co­no­sciu­to. Per­ché il de­sti­no era sta­to co­sì in­giu­sto? Non riu­sci­va a dar­si una ri­spo­sta. Marc pri­ma di mo­ri­re le ave­va scrit­to una let­te­ra. Lei l’ave­va let­ta al­me­no un cen­ti­na­io di vol­te.

Mia dol­ce Eri­ca,

que­sti due an­ni pas­sa­ti con te so­no sta­ti me­ra­vi­glio­si. So­no sta­ti an­ni di in­ten­sa pas­sio­ne e di gran­de com­pli­ci­tà. Rin­gra­zio sem­pre Dio per aver­mi fat­to co­no­sce­re una ra­gaz­za me­ra­vi­glio­sa co­me te, non po­te­vo tro­va­re di me­glio. Ab­bia­mo fat­to co­sì tan­te co­se in­sie­me... In que­sti due an­ni ab­bia­mo avu­to al­ti e bas­si, co­me tut­te le cop­pie, ma ci sia­mo sem­pre so­ste­nu­ti a vi­cen­da. Tu mi hai det­to sem­pre che il più for­te fra noi due so­no io, ma non cre­do sia co­sì: sei tu! Me l’hai di­mo­stra­to in tan­te cir­co­stan­ze. Quan­do mi sco­rag­gia­vo per qual­che dif­fi­col­tà, eri sem­pre tu a dar­mi la for­za di af­fron­ta­re la vi­ta, so­ste­nen­do­mi col tuo gran­de amo­re. Tra tut­te le ra­gaz­ze che ho co­no­sciu­to sei sta­ta la più for­te e sen­si­bi­le, con una gran­de pro­fon­di­tà d’ani­mo. Mi ad­do­lo­ra mol­to la­sciar­ti, ma pur­trop­po una ma­lat­tia co­me la leu­ce­mia può es­se­re mol­to mal­va­gia, ti di­strug­ge len­ta­men­te. So quan­to sof­fri­rai per la mia mor­te, per­ché ca­pi­sco quan­to mi ami, ma spe­ro che il mio spi­ri­to ve­glie­rà sem­pre su di te e non ti la­sce­rà mai in qual­che mo­do. Non ti ver­rà fa­ci­le pen­sa­re che un gior­no tro­ve­rai un uo­mo, an­che mi­glio­re di me, ma ar­ri­ve­rà. Del re­sto te lo me­ri­ti, per­ché sei una ra­gaz­za con un cuo­re d’oro. Pen­so che qua­lun­que uo­mo vor­reb­be al suo fian­co una ra­gaz­za me­ra­vi­glio­sa co­me te. Tu mi hai sem­pre det­to che pri­ma di me ave­vi in­con­tra­to ra­gaz­zi vuo­ti. Ra­gaz­zi che non ave­va­no sa­pu­to ap­prez­zar­ti, ma sen­za dub­bio sa­rà suc­ces­so per­ché era­no mol­to im­ma­tu­ri e pri­vi di sen­si­bi­li­tà. Vor­rei scri­ver­ti an­co­ra per di­mo­strar­ti il mio gran­de amo­re, ma non pos­so, mi sen­to trop­po af­fa­ti­ca­to. I do­lo­ri all’ad­do­me mi stan­no qua­si uc­ci­den­do. Ri­cor­da­ti non smet­te­re mai di es­se­re co­sì, qual­sia­si co­sa pos­sa ac­ca­der­ti, per­ché ai gior­ni no­stri non si tro­va fa­cil­men­te una ra­gaz­za co­me te e so­prat­tut­to non smet­te­re mai di so­gna­re. Per­ché se lo fac­cia­mo, la no­stra vi­ta di­ven­ta vuo­ta, sem­pre di più. Ve­drai che un gior­no qual­cu­no ap­prez­ze­rà le tue bel­lis­si­me qua­li­tà.

Ti amo e ti ame­rò per sem­pre,

Marc

Ogni vol­ta che la ri­leg­ge­va non po­te­va fa­re a me­no di scop­pia­re in la­cri­me. Era sem­pre di­ste­sa sul let­to, che strin­ge­va la let­te­ra al pet­to in­sie­me al cu­sci­no. Marc spe­ra­va che un gior­no, lei, tro­vas­se un uo­mo mi­glio­re di lui, ma le sem­bra­va im­pos­si­bi­le di­men­ti­ca­re il suo più gran­de amo­re. L’uni­ca per­so­na con cui par­la­va era Pa­tri­cia, la sua mi­glio­re ami­ca, che la chia­ma­va abi­tual­men­te per sa­pe­re co­me sta­va. Pen­san­do­ci be­ne Pa­tri­cia an­co­ra non si era fat­ta sen­ti­re. Le era for­se ca­pi­ta­to qual­co­sa? Il pen­sie­ro di­ven­ne co­sì in­si­sten­te da far­la al­za­re dal let­to. An­dò pri­ma a la­var­si la fac­cia, si spaz­zo­lò i ca­pel­li, sen­ten­do­si me­glio, ma quan­do an­dò per te­le­fo­nar­le, il te­le­fo­no ini­ziò a squil­la­re co­me se qual­cu­no l’aves­se pre­ce­du­ta.

«Pron­to?»

«Ciao Eri­ca, so­no la ma­dre di Pa­tri­cia. Scu­sa se ti di­stur­bo…Co­me stai, ca­ra? Un po’ me­glio?» La vo­ce pre­mu­ro­sa tra­di­va una for­te pre­oc­cu­pa­zio­ne.

«Buon­gior­no, si­gno­ra Whit­man, mah, co­sì…ehm…mi sem­bra un po’ stra­na. È suc­ces­so qual­co­sa?»

Eri­ca ca­pi­va su­bi­to quan­do c’era qual­co­sa che non an­da­va. Le ba­sta­va co­no­sce­re una per­so­na per riu­sci­re qua­si a leg­ger­le den­tro.

«Vo­le­vo sa­pe­re… Pa­tri­cia è lì con te? Sai, è da due gior­ni che non la ve­do e so­no pre­oc­cu­pa­ta.»

Eri­ca ri­flet­té sull’ul­ti­ma te­le­fo­na­ta di Pa­tri­cia, che la ob­bli­ga­va qua­si a usci­re. Fu un lam­po, pe­rò, che le at­tra­ver­sò la men­te. Si per­se nel fra­go­re dei pen­sie­ri. Ades­so lei dov’era?

Un si­len­zio se­gui­to da un so­spi­ro. «No, non è qui, si­gno­ra.»

«Eri­ca, so­no mol­to pre­oc­cu­pa­ta, non le sa­rà suc­ces­so qual­co­sa?»

Bel­la do­man­da. Ma­dre an­sio­sa, fi­glia dal ca­rat­te­re dif­fi­ci­le, un uo­mo che ave­va pre­so il po­sto del pa­dre. Con la fa­mi­glia del­la sua mi­glio­re ami­ca non si sa­pe­va mai co­me muo­ver­si. Pa­tri­cia era sem­pre im­pre­ve­di­bi­le e com­bi­na­va un sac­co di ca­si­ni; ep­pu­re lei le vo­le­va be­ne, an­che se a vol­te non riu­sci­va a ca­pi­re i suoi com­por­ta­men­ti. Per esem­pio quan­do pre­di­li­ge­va il de­na­ro ai sen­ti­men­ti. La zia, in­fat­ti, le ave­va mes­so in te­sta di spo­sa­re un uo­mo ric­co. Ma no­no­stan­te tut­to non ave­va rag­giun­to mai la fe­li­ci­tà.

Eri­ca chiu­se gli oc­chi.

«Pa­tri­cia, hai vi­sto che pel­lic­cia mi ha com­pra­to mio ma­ri­to? Tu de­vi spo­sar­ti uno che ti com­pra sem­pre un sac­co di co­se. Non co­me il mor­to di fa­me del mio ex ma­ri­to, un ve­ro fal­li­to!» dis­se la zia che si tro­va­va in ca­sa di Pa­tri­cia. Era pas­sa­ta da lì, do­po qual­che set­ti­ma­na che non an­da­va a tro­var­la. I ge­ni­to­ri di Pa­tri­cia pe­rò non era­no in ca­sa, ma fuo­ri cit­tà. Eri­ca era an­che lì, e ascol­ta­va in si­len­zio. An­che se Eri­ca ave­va quin­di­ci an­ni non avreb­be mai pen­sa­to a co­se si­mi­li e sep­pur vi­ve­va in una fa­mi­glia agia­ta, sua non­na le ave­va in­se­gna­to che avreb­be do­vu­to spo­sar­si so­lo per amo­re, un gior­no. Spo­san­do an­che un sem­pli­ce im­pie­ga­to. I ge­ni­to­ri di Eri­ca in­ve­ce pre­fe­ri­va­no non af­fron­ta­re l’ar­go­men­to.

Pa­tri­cia as­sun­se un’aria com­pia­ciu­ta. «Sì, è ve­ro zia. Ti com­pra tan­te co­se bel­le. Co­me Lu­cas il ra­gaz­zo che sto fre­quen­tan­do. Guar­da che mi ha re­ga­la­to.» Le mo­strò un brac­cia­le di bril­lan­ti.

«Lu­cas? Che la­vo­ro fa suo pa­dre?»

«È pri­ma­rio di der­ma­to­lo­gia. Poi è do­cen­te uni­ver­si­ta­rio» dis­se Pa­tri­cia con aria sod­di­sfat­ta.

La zia sgra­nò gli oc­chi, «Bra­va, hai fat­to cen­tro, non la­sciar­te­lo scap­pa­re!» le dis­se com­pia­ciu­ta.

«Tu che ne pen­si, Eri­ca?» chie­se la zia di Pa­tri­cia con un’aria al­tez­zo­sa.

«Non sa­prei…» ri­spo­se Eri­ca con una vo­ce im­ba­raz­za­ta.

«Che vuoi di­re?» chie­se la zia di Pa­tri­cia.

Eri­ca per un at­ti­mo fu pre­sa dall’im­ba­raz­zo e non riu­scì ad apri­re boc­ca, ma poi par­tì al­la ca­ri­ca: «Mia non­na mi di­ce­va sem­pre che ba­sta so­lo l’amo­re, non im­por­ta­no le ric­chez­ze.»

La zia di Pa­tri­cia ri­se aspra­men­te. «Dai, Eri­ca, co­me fai a com­prar­ti le co­se più bel­le se non hai tan­ti sol­di? Una mac­chi­na lus­suo­sa. Ve­sti­ti fir­ma­ti, una vil­la. Una pi­sci­na. Non so­no me­ra­vi­glio­se que­ste co­se?»

Eri­ca cer­cò di ri­ma­ne­re cal­ma, no­no­stan­te non fos­se per nien­te fa­ci­le con una don­na si­mi­le. Era la per­so­na più an­ti­pa­ti­ca che aves­se mai co­no­sciu­to.

«So­no stu­pen­de que­ste co­se, lo am­met­to, ma che ser­vo­no se poi non ho pa­ce, né amo­re? Non sa­rei fe­li­ce lo stes­so.»

La zia di Pa­tri­cia non fia­tò. Non po­te­va di cer­to ri­spon­de­re. For­se si sen­ti­va of­fe­sa da quel­le pa­ro­le. Pro­ba­bil­men­te Eri­ca, an­che se in­con­sa­pe­vol­men­te, ave­va toc­ca­to un ta­sto do­len­te. Si ca­pi­va dal­la sua espres­sio­ne, an­che se non l’avreb­be mai am­mes­so. D’al­tron­de, la zia di Pa­tri­cia, non ama­va il suo at­tua­le ma­ri­to, an­che se era ric­co.

«Eri­ca, dai, a tut­ti fa pia­ce­re una vi­ta lus­suo­sa. Tan­to il ma­tri­mo­nio se de­ve fi­ni­re... e, se­con­do me, fi­ni­sce an­co­ra pri­ma se man­ca­no i sol­di!» dis­se Pa­tri­cia per le­va­re la zia dall’im­ba­raz­zo.

«Può dar­si, ma un uo­mo mol­to ric­co, che pen­sa tan­to ai suoi in­te­res­si, dif­fi­cil­men­te avrà cu­ra del­la mo­glie e dei fi­gli. Li met­te­rà sem­pre in se­con­do pia­no. For­se re­ga­le­rà al­la mo­glie abi­ti di lus­so e al­tre co­se. Gio­cat­to­li co­sto­si ai fi­gli, ma di si­cu­ro lo fa­rà per col­ma­re la sua as­sen­za. Il sen­so di vuo­to che la­scia al­la sua fa­mi­glia.»

La zia di Pa­tri­cia con­ti­nua­va a non fia­ta­re, evi­den­te­men­te per­ché Eri­ca sta­va par­lan­do di qual­co­sa che per lei era mol­to fa­mi­lia­re.

«E poi i fi­gli cre­sce­ran­no be­ne con la fi­gu­ra di un pa­dre as­sen­te? L’af­fet­to non si com­pra con i re­ga­li co­sto­si.»

«Dai, Eri­ca, co­me sei com­ples­sa­ta. Vi­vi e la­scia vi­ve­re!» tuo­nò Pa­tri­cia, guar­dan­do­la con aria se­ve­ra.

«D’ac­cor­do» si ar­re­se Eri­ca, an­che se non avreb­be cam­bia­to mai idea. D’al­tron­de non avreb­be di­men­ti­ca­to mai i sag­gi in­se­gna­men­ti del­la non­na, te­nen­do­li sem­pre nel suo cuo­re, co­me il ri­cor­do di lei. Non avreb­be mai di­men­ti­ca­to il suo af­fet­to, an­che se fos­se­ro pas­sa­ti al­tri cin­quant’an­ni. Avreb­be tra­man­da­to quei sag­gi di­scor­si ai suoi fi­gli, se ne aves­se mai avu­ti. Eri­ca ci ri­ma­se un po’ ma­le per la ri­spo­sta di Pa­tri­cia, che pur di di­fen­de­re la zia era an­da­ta con­tro di lei. La don­na, in­fat­ti, l’ave­va guar­da­ta con aria sod­di­sfat­ta, ma d’al­tron­de non era fa­ci­le tro­va­re una co­me Eri­ca: Una ra­gaz­za d’al­tri tem­pi.

«Eri­ca, sei an­co­ra lì?»

«Sì, mi scu­si», dis­se lei.

La ma­dre di Pa­tri­cia con­ti­nuò: «Non so che pen­sa­re, ca­ra. Ho chia­ma­to la po­li­zia, ma de­vo­no pas­sa­re qua­ran­tot­to ore dal­la scom­par­sa pri­ma di ini­zia­re a cer­car­la. Per ora non pos­so­no fa­re nul­la.»

«L’ha chia­ma­ta sul cel­lu­la­re?» chie­se lei con una vo­ce qua­si im­per­cet­ti­bi­le.

«Ho pro­va­to un sac­co di vol­te, ma è sem­pre ir­rag­giun­gi­bi­le.»

«Se so qual­co­sa la chia­mo, non si pre­oc­cu­pi, non sa­rà suc­ces­so nien­te» con­clu­se lei, co­me se non po­tes­se fa­re al­tri­men­ti.

Eri­ca cer­cò di tran­quil­liz­za­re la si­gno­ra Whit­man con quel­le pa­ro­le, an­che se sa­pe­va be­ne che con Pa­tri­cia non era mai fa­ci­le sta­re tran­quil­li.

«Gra­zie, ca­ra» ri­spo­se la ma­dre di Pa­tri­cia con una vo­ce sot­ti­le.

Che co­sa po­te­va fa­re? Lei chiu­sa lì, in ca­sa da di­ver­so tem­po, co­sa po­te­va of­fri­re? E so­prat­tut­to, Pa­tri­cia era scap­pa­ta di ca­sa?

2.

Era­no le un­di­ci di lu­ne­dì mat­ti­na e il de­tec­ti­ve Pa­trick Wall, del pri­mo di­stret­to di Cal­ga­ry Po­li­ce Ser­vi­ce, 26 Ave­nue S.E. nell’Al­ber­ta cen­tro-set­ten­trio­na­le, af­fon­da­va an­co­ra la te­sta fra i cu­sci­ni a ri­ghe, av­vol­to in un piu­mo­ne blu. Per lui era sta­ta una set­ti­ma­na pe­san­te. Jes­si­ca l’ave­va pian­ta­to per un omun­co­lo pie­no di bo­ria e sol­di. Lei, aspi­ran­te fo­to­mo­del­la, ave­va pre­fe­ri­to un ra­gaz­zo va­ni­to­so a lui. In ge­ne­re, pe­rò, le don­ne lo pre­fe­ri­va­no agli al­tri uo­mi­ni, per­ché era un gen­ti­luo­mo e sa­pe­va ascol­ta­re i lo­ro pro­ble­mi, in­fon­den­do fi­du­cia a chi gli sta­va ac­can­to. So­li­ta­men­te le don­ne, pe­rò, lo pre­fe­ri­va­no so­lo co­me ami­co.

Ave­va per­so i ge­ni­to­ri a set­te an­ni, do­po­di­ché era sta­to af­fi­da­to ai suoi zii. La zia Mar­ga­ret, che era so­rel­la del­la ma­dre, ave­va sem­pre ama­to Pa­trick co­me un fi­glio. Ec­co per­ché non era sta­to un pro­ble­ma pren­der­se­ne cu­ra in­sie­me al ma­ri­to. Si era af­fe­zio­na­ta tan­to a lui, an­che per­ché, in die­ci an­ni di ma­tri­mo­nio, non ave­va avu­to fi­gli. Pa­trick ama­va i suoi ge­ni­to­ri, ma si tro­va­va be­ne di più con i suoi zii. La ma­dre sa­pe­va di que­sta pre­fe­ren­za, ma non si in­ge­lo­si­va mai, a dif­fe­ren­za del pa­dre. Si tro­va­va me­glio con la zia per la sua for­te sen­si­bi­li­tà. Nes­su­no riu­sci­va a ca­pir­lo co­me lei.

L’ul­ti­mo ca­so di cui si era oc­cu­pa­to ri­guar­da­va l’omi­ci­dio di una ra­gaz­za. Non era sta­to fa­ci­le sma­sche­ra­re l’as­sas­si­no, ma al­la fi­ne ce l’ave­va fat­ta. Na­tu­ral­men­te il suo la­vo­ro era sta­to po­co pre­mia­to. Il me­ri­to di tut­to se l’era pre­so il suo ca­po. Po­co ma­le, al­me­no ave­va tol­to un pe­ri­co­lo in più per i cit­ta­di­ni di Cal­ga­ry. Il suo ca­po l’ave­va pre­mia­to in qual­che mo­do, pe­rò, con­ce­den­do­gli una set­ti­ma­na di fe­rie. Gli ave­va con­si­glia­to di la­scia­re tut­to e di­strar­si, ma­ga­ri la­scian­do la cit­tà per qual­che gior­no. Lui in­ve­ce ri­ma­se là. Ave­va de­ci­so di tra­scor­re­re le fe­rie in cit­tà, ri­las­san­do­si e dor­men­do, pos­si­bil­men­te tut­to il gior­no.

Si fe­ce­ro le do­di­ci del mat­ti­no e dor­mi­va an­co­ra. Ad un trat­to suo­nò il cel­lu­la­re che lo sve­gliò so­lo do­po ri­pe­tu­ti squil­li. Ave­va il son­no pe­san­te, mol­te vol­te non sen­ti­va nem­me­no i tuo­ni. Gli scoc­cia­va ri­spon­de­re, ma guar­dò il di­splay: era il suo ca­po. Tos­sì per schia­rir­si la vo­ce. La lu­ce del so­le ba­lu­gi­na­va nel­la stan­za, qua­si ac­ce­can­do­lo. Ave­va di­men­ti­ca­to di chiu­de­re la per­sia­na, di so­li­to dor­mi­va al buio.

«Pron­to, Mi­ke» dis­se, con non­cu­ran­za.

«Pa­trick, ma che fai, non ri­spon­di? È mez­zo­ra che ti chia­mo!»

Sba­di­gliò. «Ma io ve­ra­men­te…»

«Ehi, non mi di­re che a que­st’ora dor­mi­vi!»

Pa­trick fe­ce uno sba­di­glio che fu tan­to for­te da sem­bra­re una pre­sa in gi­ro ver­so il suo ca­po. «Ma co­me avrai fat­to a in­do­vi­na­re?»

Mi­ke, chia­ra­men­te, non in­ten­de­va far­lo ri­po­sa­re. Lo vo­le­va nel suo uf­fi­cio e Pa­trick sa­pe­va be­ne che que­sto si­gni­fi­ca­va so­lo una co­sa: guai in vi­sta. «Dai, so­no an­da­to in fe­rie so­lo da…»

Mi­ke non si ar­re­se. Quan­do di­ce­va una co­sa si do­ve­va fa­re a tut­ti i co­sti, al­tri­men­ti an­da­va su tut­te le fu­rie. Or­mai Wall lo co­no­sce­va be­ne. Lo con­si­de­ra­va da sem­pre una ve­ra rot­tu­ra di sca­to­le, ma pur­trop­po non si po­te­va ri­bel­la­re.

«Eri in fe­rie… Vie­ni nel mio uf­fi­cio che de­vo par­lar­ti, c’è un ca­so per te!» dis­se sen­za mez­zi ter­mi­ni. Con la sua vo­ce au­to­ri­ta­ria ave­va de­ci­so tut­to. Pa­trick de­te­sta­va il suo ca­po quan­do era co­sì in­si­sten­te. An­che per­ché quan­do era in fe­rie pre­ten­de­va di non es­se­re di­stur­ba­to, nean­che per il ra­pi­men­to del­la fi­glia del pre­si­den­te de­gli Sta­ti Uni­ti.

«Ma non puoi af­fi­dar­lo a qual­cun al­tro? Ci so­no Bill, Paul, Bran­don…per­ché non chia­mi uno di lo­ro?» Era scoc­cia­to, ma già sa­pe­va che non l’avreb­be mai con­vin­to.

«Dai, non fa­re l’idio­ta, lo sai be­ne che so­no im­pe­gna­ti, quin­di non pos­so af­fi­dar­gli un ca­so par­ti­co­la­re co­me que­sto. E poi tu sei il mi­glio­re. Ti pren­de­rai le fe­rie do­po que­sto ca­so, te lo pro­met­to! Dai, muo­vi il cu­lo e vie­ni in uf­fi­cio!»

Un ca­so par­ti­co­la­re? Era una bat­ta­glia per­sa. Pa­ro­le but­ta­te al ven­to.

«Dam­mi mezz’ora e so­no da te.» Rom­pi­bal­le pen­sò.

«Ti de­vo un fa­vo­re», dis­se Mi­ke con to­no sod­di­sfat­to.

Pa­trick aprì l’ar­ma­dio e si guar­dò

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