La confessione: Se puoi tradire Dio, chi non sarai capace di tradire?
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Il primo thriller di Aurelio Porfiri di una serie di gialli che girerà intorno ai sacramenti. Questo si occupa del sacramento della penitenza, ma la storia si allargherà anche ad altri temi molto importanti ed attuali, come quello della Cina, della crisi del dopoconcilio, della situazione di irrequietezza che si vive in Hong Kong, divisa fra la sua identità cinese e la sua aspirazione alla libertà. Un racconto con tratti metafisici ma ben ancorato all'attualità storica ed ecclesiale, una storia per comprendere la realtà sotto altri punti di vista.
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La confessione - Aurelio Porfiri
XX.
I.
Il traffico si riversava nelle ampie vie di Hong Kong con un certo ordine, senza quelle situazioni da isteria di massa che non era raro testimoniare nelle caotiche strade italiane, specialmente andando sempre più a sud dello stivale. Le persone affollavano i marciapiedi e si affrettavano da una parte o dall’altra per l’impulso che pareva provenire da un determinismo cieco o che, per persone venute da fuori, era difficile da capire. Tutto sembrava pianificato per funzionare ordinatamente, con quel senso dell’ordine tutto britannico che aveva trovato in questa città un’incarnazione che si sarebbe detta quasi perfetta. Tutto funzionava come se un orologio scandisse il ritmo dei passi, le improvvise accelerazioni, le pause nei luoghi più impensati.
Padre Antonio sembrava pensare a questo mentre osservava questo affannarsi senza posa da un tavolino di uno Starbucks Coffee in un punto di King’s Road, una delle arterie più importanti dell’isola di Hong Kong, una via ampia che tagliava in due alcune delle zone più popolose dell’ex colonia britannica, cominciando da Tin Hau, per passare poi a Fortress Hill e a North Point, luogo dove in effetti si trovava in quel momento il sacerdote. Prestava servizio nella chiesa cattolica di St. Jude, San Giuda Taddeo, a poche centinaia di metri di distanza dal luogo dove lui era seduto ora, una chiesa che serviva i cattolici locali, incluse le moltissime domestiche filippine o, raramente, lavoratori e lavoratrici di altra nazionalità, che cercavano una Messa in inglese. In effetti le Messe in inglese erano affollatissime, spesso non c'era spazio nell'aula liturgica e quindi coloro che non erano potuti entrare si accalcavano di fuori. Anche le Messe in cantonese, la lingua del luogo, non erano certe deserte. Ma anche vero che la zona di North Point era una zona popolosa, ma quale zona di Hong Kong non era popolosa? In effetti questa era una delle caratteristiche dell'ex colonia britannica, questo fiume di persone che si accalca sulle strade ma che si estende anche verso l'alto, distribuito negli appartamenti da pochi metri quadrati dei grattacieli, che torreggiavano ovunque.
Padre Antonio, missionario in Hong Kong da circa cinque anni, dopo i cinque anni trascorsi in India in precedenza, apprezzava a suo modo il posto, una città certo diversa dalla sua natia Trento. La apprezzava ma anche inquietava, in un certo senso. Quell'ordine e pulizia era una cosa da ammirare, ma cosa c'era dietro? Cosa pensavano quei milioni di cinesi che incontrava per la strada ogni secondo? Cosa volevano, dove rivolgevano il loro sguardo se desideravano un senso più profondo e forte per la loro esistenza?
Era un uomo che si avviava alla mezz'età Antonio, tratti tipici da prete italiano del nord, se mai un tipo umano di questo tipo possa essere contemplato da qualche ramo dell’antropologia. Studioso di teologia morale, cercava di conciliare le norme della dottrina con le famose esigenze dell’uomo moderno. Questo mantra dell'uomo moderno
gli era stato ripetuto per tutti gli anni del seminario, questo totem di un uomo che sarebbe da contemplare non in quanto uomo, ma in quanto moderno, un paradigma di comprensione diverso da quello tradizionale, per cui in quanto moderno all'uomo sarebbe stato concesso di tutto, molto di più di quello che la tradizione aveva pensato lecito concedere. La modernità era divenuta la nuova chiave di interpretazione dell'uomo, del senso di stare al mondo, della sua direzione e delle sue aspettative. Come se l'esistenza in sé non avesse un valore proprio, originario, essente, un valore che precedeva le epoche storiche e che, certamente, andava comunque incarnato in esse senza che perdesse la sua essenza originale. Ma padre Antonio era imbevuto del postconcilio, di questo totem che si agitava sulle coscienze di molti cattolici e che ne orientava le scelte, molto più del Concilio vero e proprio e della fede stessa. Ripensava il sacerdote spesso a quel passaggio dell'Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI: Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto:
noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera. Paolo VI...un altro degli idoli dei postconciliari, ma il Paolo VI che faceva comodo a loro, non quello dell' Humanae Vitae, Enciclica che lui, da teologo morale, avrebbe dovuto conoscere bene ma che i suoi professori gli avevano insegnato a disprezzare, ad essere diffidente, perché non era aperta ai bisogni dell'uomo
, bisogni che certamente loro pensavano di conoscere molto meglio di quello che aveva insegnato la tradizione della Chiesa stessa.
Era seduto con padre Sergio, superiore della comunità religiosa missionaria a cui apparteneva Antonio. Non si trovava per caso con Sergio, un napoletano corpulento di una sessantina d’anni e con una lunga esperienza come missionario nell’isola. Insieme dovevano affrontare una crisi che riguardava proprio il nostro Antonio e che sembrava ora essere deflagrata in modo così evidente che era difficile da ignorare. C’era un certo nervosismo fra loro, ma non perché avessero cattivi rapporti, anzi avevano rapporti molto cordiali. Ma ci sono occasioni in cui il non detto pesa più di quello che si dice e quella era una di quelle occasioni.
La musica era veramente troppo alta e rendeva difficile la conversazione, che in fondo era uno degli scopi, almeno apparenti, di quello che accadeva in quel locale o almeno era un necessario preliminare per qualcos’altro
. Wanchai, a non molte distanza da North Point, sempre sull’isola di Hong Kong, era zona che per tanti forestieri voleva dire una cosa ben specifica: i locali di Lockhart Road. Questi locali non erano semplici luoghi di ritrovo per expats, per stranieri di stanza ad Hong Kong, ma anche posti dove si beveva e si cercava compagnia
. Ora, questa compagnia sarebbe formata di ragazze di tre tipi principali: le prostitute vere e proprie che certo non mancavano e che facevano sentire la loro presenza neanche troppo discreta, le domestiche che poi in realtà si prostituiscono con una certa regolarità e le domestiche nella zona grigia, che magari vanno nei bar solo per bere qualcosa con le amiche e, in alcuni casi, con la non troppo segreta speranza di trovare marito o per provare il brivido proibito di coloro che si ritrovano nella seconda categoria non disdegnano di accompagnarsi a uomini, spesso occidentali, in cambio di qualcosa,