Il terzo miracolo
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Il terzo miracolo - Gianni Marchi
Domenico
Lassù sulle montagne...
Sergio non doveva più mettere in carica la sveglia per andare di mattina al lavoro. Da quattro anni era in pensione e, salvo che per gli impegni quotidiani e per quelli collegati all’ assistenza alla suocera, la decana del gruppo familiare, di anni novantadue e, quando poteva, alla zia anziana, se la poteva prendere, tutto sommato, abbastanza comoda.
Si ricordava di quando doveva scendere in ufficio al capoluogo partendo dalla frazione fino al paese a valle e di qui, proseguendo per altri venti chilometri, alla città. Per poi risalire alla sera alla frazione, costituita da una decina di masi, uno dei quali abitato dalla sua famiglia. Era la casetta più piccola della frazione ed essendo stata edificata su di un suolo erto aveva la caratteristica che si trovava come sbilanciata sul terreno nel senso che l’accesso al piano terra era il primo che si raggiungeva salendo la ripida via, mentre poi, facendo il giro della casa, si poteva, almeno fino a qualche decennio prima, entrare al secondo piano, un tempo adibito ad aia (la cort
la chiamavano in quella valle sperduta). Ma già da diversi anni, il portone dell’aia era stato murato da parte di Sergio e dei suoi, per via di strani vecchi diritti di passo che il vicino, assieme ad altri, metà dei quali ormai deceduti, credeva ancora di avere, chiudendo in tale modo ogni presunta rivalsa. E, di conseguenza, il Comune non avrebbe più consentito un accesso da quel livello lì. La casa era ora costituita da due piani collegati all’interno da una scala come nelle costruzioni a schiera. Quello inferiore era quello in cui Sergio, da piccolo, aveva abitato con i sui genitori , mentre all’epoca il piano superiore era adibito ad aia. Che era la parte che i suoi genitori avevano lasciato a sua sorella, dalla quale lui l’aveva acquistata con l’anticipo della liquidazione, prima che Maria andasse a vivere con la sua famiglia in quella città lontana sul mare. In quel piano Sergio, con i soldi residui della sua liquidazione, avrebbe ricavato in tempi diversi due camere da letto (una occupata da loro, l’altra dal figlio)ed avrebbe sistemato il già esistente bagnetto. Avrebbe poi lasciato il terzo locale rimasto, vuoto con l’idea che un domani potesse essere attrezzato a cucinetta a servizio di quel piano. Era diventata una vera e propria casa a schiera nella quale, dopo la morte dei suoi genitori, soggiornava lui, sua moglie ed il figlio unico. Ora, da quasi due anni, al loro nucleo familiare si era aggiunta la compagna straniera del figlio. I due, nei momenti in cui erano presenti, abitavano quasi esclusivamente il piano superiore e Sergio e Laura li incontravano quasi solo quando scendevano per uscire dall’unico ingresso della casa per andare a lavorare o li vedevano passare furtivi davanti alla porta della loro stanza da letto situata al piano superiore, quando la sera, anche ad ora tarda, salivano di ritorno dal lavoro. Ormai formavano una coppia e Sergio e sua moglie si erano accorti che Andrea, in particolare, era geloso della sua intimità e si lamentava un po’ quando il papà saliva, secondo lui senza una ragione precisa (lo avrebbe potuto fare solo alla sera per andare a letto), sul loro
piano.
Allo scopo di dare un po’ di autonomia alla nuova coppia, sua moglie Laura aveva maturato il progetto di trasferirsi con Sergio, all’incirca entro due anni, al piano terra anche con la camera da letto e lasciare loro l’intero piano superiore. Sergio avrebbe nel frattempo chiesto al Comune un permesso per allestire una scala esterna che consentisse al figlio di non passare per il suo appartamento per avere accesso diretto al piano a lui riservato. Già esisteva una scaletta in muratura che conduceva al piano rialzato nel quale abitava Sergio e quindi sembrava pacifico che, mantenendo la stessa larghezza, si potesse sovrapporre una scala prefabbricata fino al primo piano. Ma proprio così scontato non lo sarebbe stato – lo vedremo poi - con quell’ufficio edilizia di quel Comune che sembrava facesse apposta ad ostacolare i progetti ed i sogni dei suoi concittadini.
Era una valle stretta quella in cui era nato, e, almeno fino agli anni sessanta-settanta, posta come fuori dal mondo. I valligiani erano molto diffidenti, non amavano i foresti
e costituivano una comunità chiusa che, assieme all’italiano, lingua nella quale ormai si esprimevano i più giovani, parlava un dialetto mutuato dall’antico tedesco. Ma il più delle volte, specialmente i vecchi parlavano a cenni o a grugniti e si capivano. In quel mondo ciò che contava era l’essenziale e nessuno sprecava un alito di fiato o un passo in più di quello che era strettamente necessario. I loro genitori li avevano abituati ad economizzare ogni risorsa fosse questa la legna per riscaldarsi o la luce delle lampadine