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Dopo di questo
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Dopo di questo

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Luna, Virginia, Carlo e Nadia erano inseparabili ai tempi del liceo.

In seguito alla morte della madre, Virginia è sparita senza lasciare tracce.

Undici anni dopo l'amicizia tra Carlo e Luna resiste ancora, anche se a scossoni. Anche Nadia, dopo aver lasciato Carlo, se n'è andata, ma un giorno è proprio lei a inviare una mail di soccorso a tutti. Carlo è restio a correrle in aiuto, nonostante l'insistenza di Luna. Sarà l'improvviso ritorno di Virginia a convincerlo, dopodiché i tre partiranno alla sua ricerca, in un viaggio pieno di litigi, discussioni, malintesi e soprattutto segreti, come quello che Virginia si porta dietro da undici anni.

In questo viaggio ognuno di loro si troverà a fare i conti con se stesso, perché anche se il motivo della partenza è la ricerca di Nadia, tutti loro stanno scappando da qualcosa che non sanno come affrontare. E anche se non sono pronti a farlo, ognuno di loro si troverà di fronte alle conseguenze di quello che sono diventati.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 16, 2018
ISBN9788827812976
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    Dopo di questo - Loretta Patrini

    te.

    Parte prima

    Luna

    Cambi sempre titolo per non decidere, non metti il punto per non finire.

    S. Bersani

    1

    Le piastrelle sono fredde e il palmo umidiccio non fa presa. Spinge i polpastrelli per bloccarsi ma è come tentare su una parete oleosa. Le unghie sono senza smalto, sono giorni che non se lo mette più. Non c’è una persona da cui vuole farsi notare.

    Con la pressione la punta delle dita diventa bianca, la vede da sotto le unghie. Le righe nette delle falangi, i cinque tendini che partono dalle dita e convergono all’inizio del polso. Le mani sono screpolate, il dorso ha delle piccole crepe bianche, la cattiva abitudine di lavarsi le mani con l’acqua fredda.

    La sua immagine riflessa così da vicino la sta fissando. Ci sono delle righette nere appena sotto gli occhi. Ha premuto gli occhi forte e il mascara si è incollato lì sotto.

    Ha il trucco colato e le unghie senza smalto, ma il rossetto è ancora intatto.

    Cattivissimo segno. È quello che la frega, che spegne il suo interruttore.

    Non sta guardando lui ma se stessa. Il gioco davanti allo specchio è iniziato da tempo ma ha smesso di essere divertente già da un po’. Non fa altro che guardarsi negli occhi, vuole riconoscere qualcosa, cerca qualcosa che non trova. E lui dietro che spinge è solo patetico, immerso nel suo piacere.

    Lo osserva dal riflesso: è un gioco autoreferenziale per entrambi: l’uomo vede in diretta il potere che crede di gestire, la donna l’espressione che può avere solo in quei momenti.

    È una curiosità morbosa, non ha niente a che vedere con il sesso, ma solo con quello che di se stessa non controlla.

    Guardandosi le labbra, il suo piacere si interrompe subito. Una passata di rosso inutile, e se ci pensa si accorge che è da un pezzo che non si baciano più.

    Lui ha le mani sui suoi fianchi, le preme le quattro dita sotto e con il pollice cerca di farle slittare il bacino in fuori, nella sua direzione. Lei lo asseconda e lo guarda, lui fa un accenno di sorriso e continua. Non è possibile che non si renda conto che nessuno dei suoi muscoli sia più in tensione e che stia scopando senza di lei.

    Lui chiude gli occhi e butta la testa indietro, non è più nemmeno nello specchio con lei, è proprio uno che si sta scopando una qualsiasi.

    Lei è in una posizione piuttosto scomoda. Se non la sfrutti per il sesso, non è che ti metteresti proprio così davanti allo specchio.

    Quando il telefono squilla, si distrae subito, perché ha le suonerie personalizzate e sa chi la sta chiamando. Rimane a contare gli squilli, sa che ce ne saranno nove prima che cada la linea. Se una persona ti cerca senza fretta, magari aspetta solo fino al quinto o al sesto. Quando il nono si interrompe, capisce che c’è qualcosa che non va.

    Il telefono ricomincia a squillare. Con una mano lo scosta all’indietro facendolo uscire. Lui spalanca gli occhi, prova ad accennare qualcosa ma non fa in tempo, perché lei scappa nell’altra stanza.

    «Carlo» la sente dire.

    Ha interrotto la sua scopata per rispondere a un altro.

    Quando torna, nemmeno lo guarda, raccoglie i suoi slip da terra e li lancia nel cesto della biancheria sporca, entra nella doccia dicendogli:

    «Te ne devi andare.»

    «Come, scusa?»

    Luna solleva la manopola della doccia facendo uscire il getto al massimo. Parla al di sopra dell’acqua: «Tesoro, finito, almeno per me. Tu se vuoi finiscitela da solo, ma non in casa mia» chiude gli occhi e si butta sotto l’acqua calda.

    Gli sente dire: «Sei davvero una stronza!»

    Resta ad ascoltare i suoi movimenti con gli occhi chiusi, li riapre solo quando sente sbattere la porta.

    Non si lava mai i capelli sotto la doccia, lo fa sempre a parte, perché detesta avere capelli ovunque quando si deve asciugare, ma stavolta butta sotto anche la testa.

    Al telefono Carlo le ha chiesto se ha visto la mail. Gliel’ha letta e le ha chiesto di incontrarsi appena possono. Le viene da piangere, perché ha paura e non le piace per niente non sapere di cosa avere paura.

    Appoggia una mano alle piastrelle, stavolta senza fare pressione, senza dita bianche sotto le unghie e tendini tirati. Lava via tutto l’odore di quello che ha appena mandato via, il suo riflesso nello specchio che non riconosce più, il mascara che non farà più colare senza piacere. Si strofina nei punti in cui l’ha toccata facendo arrossare la pelle.

    Fuori dalla doccia nota subito che lui ha lasciato di proposito il preservativo usato per terra. Voleva farla inginocchiare per raccoglierlo ma lei sorride, perché è l’ultima volta che si abbassa a quel livello per lui.

    2

    Virginia legge il nome del mittente e ha come l’impressione che qualcuno le abbia lanciato addosso una secchiata di cubetti di ghiaccio senza avvertirla.

    Sente i capelli che le si drizzano sulla nuca e d’istinto si mette una mano dietro la testa come se stessero per staccarsi tutti. Il cuore le sbatte contro la laringe. Lo sente ovunque, sembra che voglia uscire dall’ombelico.

    La distrazione, deve cercare la distrazione. Muove gli occhi a destra e a sinistra per focalizzarsi su qualcuno. La hostess sta picchiettando qualcosa al computer. Guarda un po’ lo schermo e un po’ i tasti, come se non fosse sicura di scrivere tutto correttamente. Alza la cornetta di un telefono grigio con il filo di plastica arrotolato a spirale, come quelli dei vecchi telefoni con la rotella, che se sbagliavi l’ultimo numero dovevi ripetere tutto daccapo ed era una grande scocciatura.

    La hostess pigia un tasto e rimane in attesa facendo un lungo sospiro. Le sue labbra sembrano dire solo ok, prima di rimettere la cornetta al suo posto.

    Virginia ha sempre pensato che le hostess non abbiano una vita propria, che siano solo dei meccanismi robotici posti in uno spazio vuoto per far salire i passeggeri sugli aerei. Anche le sale d’imbarco le fanno lo stesso effetto, è come se fossero luoghi che in realtà non esistono.

    La gente è seduta ad aspettare, sulle loro facce c’è stampata solo l’attesa. La maggior parte di loro ha lo sguardo imbambolato a terra. Anche se alcuni parlano, non stanno dicendo niente, cercano solo di riempire un po’ quello spazio vuoto. Chi è in partenza sembra non abbia mai niente da dire o da pensare.

    Ci sono tre bambini che giocano con un palloncino verde. Ridacchiano saltando, non hanno la minima coordinazione nel colpirlo al momento giusto. Non appena distoglie lo sguardo sente uno Sciaf!, seguito da un’esplosione di pianto. Uno dei tre bambini è sdraiato per terra e sembra aver sbattuto una guancia. La sua mamma accorre, ma invece di consolarlo lo rimprovera con un accento bavarese fortissimo. Il bambino prova a frignare un po’, ma quando vede che nessuno ha intenzione di compatirlo la smette.

    Gli altri due sono rimasti a osservare la scena in silenzio. Quello con in mano il palloncino verde fa spallucce e lo tira all’altro che glielo rimanda. Il gioco ricomincia, tragedia finita.

    Manca quasi mezz’ora all’imbarco e il tempo sembra fermo. Apre lo zaino e ci guarda dentro. Tutto il suo contenuto in quel momento diventa improvvisamente interessante. C’è la sua Canon e ci sono i suoi libri, il suo taccuino arancione e il suo astuccio. I fazzoletti di carta che profumano di menta e la guida della città. Fa per estrarre la guida e sollevandola scorge il libro appoggiato. Rimane un attimo sospesa a fissare il pezzo di copertina al contrario che riesce a vedere, poi molla la guida e prende il libro. Si intitola Il buio della notte e ogni volta che lo legge si ripete che è un titolo davvero banale.

    «La recensione per venerdì» le aveva detto il suo capo, «E sii clemente, è la nipote dell’editore.»

    Clemente. Non lo era mai stata in vita sua e lui la apprezzava proprio per questo.

    La scrittrice si chiamava Anja von Geller, aveva ventisette anni e due settimane prima l’aveva sommersa con i racconti del suo viaggio in Nuova Zelanda, da cui aveva trovato l’ispirazione per scrivere quel libro. Lei l’aveva fissata per un quarto d’ora ma dopo qualche minuto aveva smesso di ascoltarla. Muoveva impercettibilmente la testa verso un sì per dare l’aria di essere attenta e sorrideva quando Anja sorrideva, spalancando gli occhi con un po’ troppa enfasi.

    A un certo punto Anja le aveva chiesto:

    «E tu?»

    «…Eh?»

    «Tu, dico. Non scrivi?»

    Lei era rimasta in silenzio per qualche secondo, strofinandosi la falange del pollice contro quella del medio.

    «…Sì. In realtà l’ho sempre fatto.» E si era pentita immediatamente di averglielo detto.

    «Ah sì? E cosa?»

    Non aveva per niente voglia di parlarne. Avrebbe potuto tagliare corto dicendole che scriveva cose da nulla, ma non ci era riuscita. Le poche volte che ne parlava si sentiva costretta a non mentire.

    «Anni fa ho scritto delle cose, ma adesso le trovo imbarazzanti.»

    Anja von Geller aveva ridacchiato. Cosa c’era da ridacchiare?

    «Ero un po’ giovane» si era giustificata, «e forse un po’ troppo convinta.»

    «Lo siamo stati tutti, ma va bene così.»

    Situazione molto retorica.

    «E dopo? Non hai più scritto altro?»

    «No, in realtà no.»

    «E come mai?»

    Si stava sentendo un po’ troppo l’intervistata e trovava la von Geller invadente, anche se in realtà le aveva posto soltanto una semplice domanda. Ma quando eviti di trovare la risposta alle domande semplici, allora quelle domande diventano un colpo diretto, quasi peggio di un’accusa.

    Rilegge il nome dell’autrice in copertina e sospira. Puoi distrarti fino a un certo punto ma poi l’accusa ti arriva diretta addosso e te la devi prendere per forza.

    Abbassa gli occhi sul palmare e scorge gli altri due destinatari in copia.

    La mail dice soltanto quello.

    3

    Carlo è appoggiato alla portiera della sua macchina. Ha lo sguardo fisso a terra, i capelli lisci lunghi fino alle spalle gli cadono in avanti. Guarda la sigaretta spenta che ha tra le dita, la gira di qua e di là come se nascondesse un segreto. Gli sembra di tremare, che non sia possibile. Ha passato anni in attesa che quel momento arrivasse e adesso non si sente più sicuro di volerlo.

    Sente il passo di Luna avvicinarsi ma non osa alzare la testa. Lei si ferma davanti a lui.

    «Mi sembrava che avessi smesso» gli dice.

    Lui la guarda. Luna è truccata, vestita e pettinata come una dirigente d’azienda.

    «Quando sono nervoso ne tengo una in mano, a volte faccio anche finta di aspirare. Se tengo tra le labbra il filtro mi tranquillizzo.»

    «Pare che oggi tu non l’abbia tenuta tra le labbra granché.»

    Lui fa un riso forzato, il sarcasmo di Luna non si assopisce nemmeno nei momenti di tensione.

    Lei dice: «Io ho bisogno di bere.»

    È un po’ presto per l’aperitivo ma Luna è una che non si è mai fatta troppi problemi.

    Si sta mangiando tutte le olive che il cameriere ha portato. Gli indica la ciotola per invitarlo a prenderne una ma lui alza la mano rifiutando.

    «Cosa ne pensi?» le chiede lui.

    «Ti sembra una domanda sensata?»

    «Cercavo solo di capire, magari tu non stai subendo un blackout.»

    «Più che blackout mi sento un grosso punto di domanda che mi lampeggia sopra la testa» dice Luna.

    «Ecco, giusto.»

    «Cosa ne pensa la tua ragazza?»

    «Non lo sa. E non credo le interesserebbe.»

    Luna alza gli occhi su di lui e lascia in pace le olive:

    «Tu credi? Nemmeno se dovessimo partire?»

    «Non essere ridicola… e per dove?»

    «Ad esempio all’indirizzo che abbiamo.»

    «Certo, ci mettiamo lo zaino in spalla e partiamo per un bell’on the road.»

    «Perché non dici che il tuo vero problema non è la mail di Nadia ma il fatto che potrebbe ricomparire Virginia nella tua vita?»

    «Virginia non ricomparirà mai.»

    «Non è possibile che tu non voglia mai parlare di lei.»

    «Non c’è niente da dire.»

    «Sì, invece.»

    «No! Invece.»

    «Non hai la stessa reazione quando parli di Nadia» dice Luna dopo qualche secondo di attesa.

    «Nadia ha scelto quello che era giusto per lei. Ora non devo essere io ad andare a salvarla dalle sue scelte sbagliate» dice Carlo alzandosi.

    «Siediti…»

    «Non sono più affari miei da moltissimo tempo. Ho la mia vita. Ho una ragazza…»

    «Che non ami» taglia corto Luna, e si beve l’ultimo sorso del suo Spritz, guardandolo negli occhi. Posa il bicchiere sul tavolo con attenzione, per non fargli fare rumore, come se non volesse interrompere il contatto visivo in nessun modo.

    Carlo ripensa a quando erano adolescenti. La schiettezza di Luna gli dava sempre fastidio, lo faceva subito infiammare. Lei invece rimaneva impassibile e la sua calma non faceva altro che alimentare il suo fastidio. Adesso sapeva di non potersela più prendere con lei, non quando diceva la verità.

    «Devo andare» Carlo sfila la giacca dallo schienale della sedia e se la mette.

    «C’è qualcosa che tu non mi hai mai detto. Guarda che non sono stupida» dice Luna fissando l’interno del suo bicchiere vuoto.

    Lui rimane paralizzato e non riesce a nasconderlo in tempo. Sta per darle modo di interrogarlo ma lei rialza la testa e dice soltanto:

    «Faresti meglio ad accendertela quella sigaretta.»

    C’è stato un periodo in cui avrebbe voluto sapere, invece ha sempre fatto finta di niente. Luna non ha mai chiesto niente a nessuno in realtà, piuttosto ha sempre detto in faccia ciò che pensa, e quello che pensa ha sempre avuto un suo fondo di giustificazione. La sua è una discrezione schietta: io mi faccio gli affari miei, ma quello che penso te lo dico.

    È una cosa che più o meno tutti apprezzano, perlomeno le persone non ipocrite.

    È la prima volta che si ritrova a svelare una sua curiosità. Anche se non ha formulato una domanda, il punto è lo stesso.

    Carlo è il suo migliore amico dai tempi del liceo. Lei gli faceva copiare latino, lui le faceva copiare matematica. Lei gli ha sempre raccontato tutto senza che lui le chiedesse niente e gli ha sempre detto cosa pensava di lui, anche quando lui non glielo chiedeva.

    Un pomeriggio aveva preso in prestito il libro di Carlo con i suoi appunti sulla seconda guerra mondiale. Aveva deciso di portare storia come seconda materia alla maturità. Una fotografia era scivolata per terra con l’immagine rivolta verso terra. Non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere chi ci fosse fotografato sopra, perché lui era stato velocissimo a raccoglierla.

    «Guarda che lo so chi è» gli aveva detto.

    Lui aveva guardato la fotografia e aveva quell’espressione di ogni volta che lei gli centrava un pensiero.

    «Ma sono affari vostri» aveva aggiunto Luna.

    Carlo aveva appoggiato la foto sul tavolo. Virginia sorrideva con lo sguardo basso, teneva in mano una margherita. Ogni anno, quando arrivava la primavera, prendevano il sole tutti e quattro nel cortile di Nadia. Sua madre faceva delle focacce al rosmarino buonissime.

    Un mese dopo il giorno di quella foto si erano diplomati.

    E Virginia era sparita.

    4

    È soltanto un altro stupido Natale ed è già passato, in realtà, da due giorni. Ma quando detesti qualcosa, sembra che duri ancora di più, che infesti l’anima e rallenti l’orologio.

    Giù in strada il silenzio farebbe impazzire persino un guru della meditazione.

    C’è un orologio digitale attaccato alla parete, Luna non sopporta il ticchettio delle lancette. Ma se ci fosse adesso, le sembrerebbe di sentirlo una volta ogni cinque.

    Ha chiesto a tutti di non farle gli auguri e quando si è svegliata la mattina del 25 ha acceso il cellulare, ha aspettato, ma non è arrivato niente. Ha sollevato un po’ la testa, come se la suoneria non si sentisse da sdraiati, poi l’ha ributtata sul cuscino. Quando chiedi cose del genere nessuno ti dà retta, si sarebbe aspettata quegli sms tipo: So che non ami il Natale ma ti voglio bene e oggi ci tenevo a dirtelo, oppure quegli orrendi messaggi retorici

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